mercoledì 30 dicembre 2009

DOMANI ANDRA' MEGLIO di Daniela Rindi




Il bello di questo lavoro è che mi fa girare l’Italia. A volte vedo dei paesi di cui non avrei mai immaginato neanche l’esistenza, come Castelvetrano. Un'unica strada deserta dove le sole figure umane che appaiono sono coppie di vecchiette imbalsamate, vestite di nero, sedute davanti alla porta di casa. Passeggiando per il corso ho la strana sensazione che da un momento all’altro i loro occhi possano cominciare a sputare fuori scarlatti raggi di fuoco, carbonizzandomi. Come Tifone.

Una coppia d’anziani gioca concentrata a scopa fumando il sigaro. Passo inosservata. Neanche l’ombra di un giovane, sembra si siano tutti teletrasportati altrove, forse per salvarsi dalla malinconia. Mi avvio verso l’unico albergo disponibile, un tre stelle da denuncia alla guida Michelin, al terzo piano senza ascensore. Cerco di comunicare con il portiere dietro il bancone che sta masticando uno stecchino, un residuato della cena di qualche ora fa, senza grande successo. Lo sguardo non si scolla dal televisore sopra la mensola con donnine seminude che ballano. Effettivamente a ragione, hanno dei bei sederi.

Il classico colpo di tosse lo attira a me, ma solo per un istante. Mi adeguo e accetto le chiavi di qualcosa che spero abbia almeno un giaciglio per distendere le mie ossa stanche. Poso la valigia nella camera che per fortuna ha un letto, una sedia e un tavolino, nonostante ciò riesco in ogni caso a dubitare delle mie scelte lavorative. Uno scarafaggio mi taglia la strada e il piccolo lavandino che goccia situato nell’angolo mi fa pregustare l’insonnia.

Mi guardo attorno, ascoltando il vuoto siderale, ma ho il dubbio che non provenga dall’eco della stanza vuota. Mi spoglio contando i peli che si rizzano sulle braccia e mi ficco sotto le coperte ghiacciate. Provare a lamentarsi con la direzione per la mancanza di riscaldamento a dicembre sarebbe tempo perso. Probabilmente non risponderebbero nemmeno, anche loro incollati al tubo catodico. Provo ad applicare la mia conoscenza yogica e meditativa per cercare di immaginare il mio corpo prendere fuoco, cominciando dai piedi, ma neanche all’altezza del terzo chakra sono già semi-assiderata. Meglio una bella corsa sul posto.

Mentre saltello scompostamente cerco di non farmi domande che potrebbero mettermi in serio imbarazzo. Raggiunta un’adeguata temperatura corporea, scomparso il colore bluastro dei miei arti, riprovo a stendermi sul letto, ma gli occhi si fissano su quell’unica immagine attaccata al muro, la Madonna Addolorata col cuore in mano, che invece a me consola. Sono sola è vero, ma c’è sempre chi sta peggio. Ognuno fa come può. Io per esempio per finire qui mi ci sono messa d’impegno.

Aggrottando la fronte mi sforzo di chiudere gli occhi, se non altro per dimenticare questa stanza d’albergo, che sta rendendo sempre più instabile e traballante il mio credo artistico. Tutto questo non l’avevo messo in conto, colpa mia. Lo dovevo dedurre alla firma del contratto, quando mi hanno concesso solo la paga minima sindacale. E ho dovuto perfino ringraziare, perché c’è chi sta a casa! Strano mestiere questo, devi pregare per lavorare e ringraziare perché ti affamano e in molti casi, mostrare pure una certa gratitudine e simpatia al datore di lavoro, nella speranza si ricordi di te alla stagione successiva.

Una tripla fatica senza ferie pagate. Poi se ci riesci, emergi finalmente, hai successo, si stupiscono di quanto sei cambiata…dai solo pan per focaccia, psicologia spicciola. Occhio per occhio, dente per dente. I miei hanno ballato abbastanza, ma si sono solo spezzati. Adesso è meglio provare a dormire, domani mi aspettano altri chilometri, naturalmente con la mia macchina in cambio di un forfetario rimborso benzina calibrato su una comune utilitaria. Io ho un golf gt cabrio ad iniezione. Ma non ho colpe, è stato il buonuscita di un mio ex fidanzato. Pensava di farmi un favore…
Mi giro e mi rigiro nel letto fino a tardi, tanto alla fine so che solo un unico pensiero mi tranquillizzerà lasciandomi addormentare serenamente: domani debutterò a Catania…forse lì andrà meglio.

sabato 26 dicembre 2009

CORSO DI DIFESA PERSONALE di Pasquale Bruno di Marco


Praticavo judo da qualche anno. Mi ero imposto questa “cura” per la mia scarsa aggressività e avevo scoperto che mi piaceva affidarmi al maestro, colui che sa e guida l’allievo. Mi piaceva ancora di più lo studio delle tecniche, eseguite lentamente per interiorizzare i movimenti, sembrava di provare i passi di un ballo. Ma quando il corso non è stato più limitato solo ad allievi di sesso maschile ho scoperto che quello che veramente mi rendeva felice era esercitarmi nella lotta a terra con le compagne. Non ho raggiunto grandi risultati sportivi ma la passione e lo zelo nello studio delle tecniche a terra, corpo contro corpo, non mi ha mai abbandonato. Alla fine di quell’anno il maestro ci ha comunicato che ci sarebbe stato un corso di difesa personale tenuto da uno specialista. Ricordandomi del motivo vero che mi aveva spinto in quella palestra decisi di seguirlo.
Il giorno della prima lezione ci trovammo di fronte un uomo non giovanissimo, capelli con taglio militare e uno sguardo freddo. Inizialmente ero perplesso, ma il modo pacato e consapevole in cui muoveva il suo corpo allenatissimo nello spazio intorno a se, giustificava il senso di autorevolezza che sentivo emanare da lui. La voce calma e profonda, mentre ci raccomandava di scordare i combattimenti cinematografici o il wrestling che erano “meri balletti’, mi ha rassicurato definitivamente. Da perfetto maestro di disciplina orientale ha cominciato la lezione con un racconto:
«Un giorno un uomo mi ha offeso. Io l’ho guardato, mi sono girato e mi sono allontanato.»
Subito io ho pensato che evidentemente voleva far capire a noi allievi che è importante non badare alle piccole provocazioni.
«Quell’uomo mi ha raggiunto, mi si è messo di fronte e mi ha sputato sui piedi. Io mi sono girato e me ne sono andato di nuovo. »
Quindi, continuavo a riflettere mentre seguivo il racconto, per l’uomo saggio è importante comunque mantenere la calma ed evitare scontri inutili.
«Quell’uomo mi ha raggiunto di nuovo, mi ha chiamato vigliacco e mi ha dato un schiaffo. Io mi sono girato ancora mi sono allontanato di fretta. »
E’ chiaro che qui il messaggio veniva rafforzato dal concetto che la vera forza era sopportare quelle offese anche a rischio di far la figura dei vili.
«Quell’uomo mi è corso dietro e mi ha colpito con un poderoso calcio sul fondoschiena facendomi ruzzolare per terra. Io, sebbene un po’ dolorante, mi sono prontamente rialzato e mi sono messo a correre per allontanarmi da lui. »
Ovvio, riflettevo, si rischia una figura di merda, questo è innegabile, ma come non sentire ammirazione per chi ha la forza interiore per non preoccuparsi delle opinioni altrui e mantenere la lucidità.
«Quell’uomo mi ha inseguito insultandomi in modo estremamente fantasioso e urlandomi che mi avrebbe ucciso perché non meritavo di vivere. »
Lo sguardo dei miei compagni denunciava chiaramente che ritenevano ormai costui una specie di invertebrato. Io invece ragionavo sul concetto di forza. Non è forse questa la vera forza? Sono forte perché evito di usare la forza. Evitare lo scontro che, pur se vittorioso, qualunque cosa significhi “vittoria”, comporta sempre la perdita di qualcosa, e quindi sconfitta.
«E solo quando mi sono ritrovato senza possibilità di fuga, chiuso nell’angolo da quell’uomo che aveva deciso di picchiarmi, solo allora ho reagito. E sapete perché? »
Certo, stavo per rispondere un po’ sorpreso del silenzio in cui rimbombava l’eco della domanda del maestro. Certo, il dovere morale dell’uomo, il rispetto per la vita, la responsabilità etica di evitare comunque il conflitto per qualunque ragione se non quando siamo costretti alla legittima difesa, quando la nostra incolumità, e solo allora, corre un pericolo gravissimo.. Che profonda lezione morale ci sta dando questo tipo che avevo temuto fosse una specie di rambo da strapazzo, un esaltato. Grazie, stavo per dire, grazie maestro, il tuo esempio mi consente di avere ancora fiducia nell’umanità, di credere che l’uomo è un essere intrinsecamente morale ed istintivamente spinto al bene.
Ma non ho fatto in tempo a dire nulla perché il maestro ha ripreso con un curioso brillio nell’occhio sinistro:
«Perché in quel momento - e qui una pausa sapiente – e solo a quel punto l’adrenalina, che la paura avrà fatto accumulare dentro di voi, vi darà la forza e la determinazione per sferrare un unico colpo necessario, ad uno dei tre punti vitali che poi vi indicherò precisamente, che, se dato con la necessaria dose di violenza, stroncherà il vostro nemico stendendolo a terra, vivo o morto non importa, ma assolutamente impossibilitato a reagire. Solo allora saprete colpire senza pietà, o lui o voi.»

venerdì 18 dicembre 2009

MERCANTI di Anna Profumo


Braccioforte è mio tutore da quando all'età di otto anni mi prese a lavorare con se. Ricordo il volto di mia madre, fu sicuramente lei la persona della mia famiglia che vidi per ultimo, mi prese per mano e mi accompagnò fino alla strada. Braccioforte mi fece salire sul carro dicendomi: «Ragazzo, vedrai ti troverai bene. Saluta tua madre». Girandomi, vidi che aveva tirato sulla testa lo scialle, non vedevo il suo viso. Fissai quella figura immobile fino a che non scomparve alla mia vista. Non sono mai tornato.
Facciamo la spola tra il nord ed il sud del paese. Il viaggio dura un anno esatto ed ad ogni primavera torniamo nel suo paese di origine. Questa primavera al ritorno, festeggeremo il matrimonio dell'ultima figlia di Braccioforte. La famiglia di Braccioforte io l'ho vista sette volte, ora ho quindici anni.
Stiamo per entrare nel paese di Orospina dove, come ogni anno, scambieremo lana con grano. Ci stanno aspettando, i bambini ed i giovinetti ci corrono a fianco, il nostro cavallo Biadasecca prosegue sicuro, come un uccello migratore riconosce le sue rotte. Ci fermiamo nella piazza al centro del paese, la gente comincia a radunarsi intorno a noi.
Braccioforte ed io abbiamo cominciato ad urlare dalle porte del paese, dando il tempo alla gente di spargere la voce. "Mercanti, mercanti. I mercanti, son tornati!"
Ad Orospina, la gente è cordiale e si fanno dei buoni affari. Di solito ci fermiamo tre giorni. Non faccio amicizia con i ragazzi e la ragazze della mia età loro mi guardano con diffidenza. Poco dopo esser arrivati in una città, il prete viene a darci il benvenuto. Raccomanda a Braccioforte di passare in chiesa e di portare anche me, «Il ragazzino come non deve crescere senza Dio». Gli raccomanda di essere un buon padre e di insegnarmi le preghiere. Il Prete a questo punto, mi guarda e mi chiede se conosco i dieci comandamenti. Io rispondo: «Settimo, non rubare». E questo pare bastargli, quando ero più piccolo mi accarezzava la testa, da qualche anno mi da un piccolo schiaffo sulla guancia.
Ho una vera passione, in ogni grande città in cui passiamo io cerco la bottega dell'orologiaio e compro orologi da taschino e pendole da muro. Nei paesini poi li rivendo. Mi capita anche di scambiarli ogni tanto. Quando trovo dei pezzi davvero belli non me li faccio scappare, ho un dono, riconosco l'affare. Un anno fà un vecchio ad Orospina mi portò la sua splendida pendola da muro per scambiarla con un orologio da taschino, doveva intraprendere un lungo viaggio e gli serviva un orologio più tascabile. Se non bastò l'aspetto particolare di quell'aggeggio a convincermi, la finezza degli ingranaggi interni non mi lasciò dubbi, quello era un capolavoro. Solo molte città dopo, lucidando la superficie esterna dell'orologio mi accorsi di quel segreto, una delle figurine intagliate del decoro si poteva premere e lasciava scattare un minuscolo cassettino che conteneva ben fissata al fondo una chiave d'oro. Per un anno ho cercato di immaginare cosa aprisse quella chiave, ho osservato ogni chiave incontrata per valutarne somiglianza ed uso. Da orologiai esperti ho cercato di farmi dire la provenienza di quella pendola speciale.
Tutti gli indizi mi riportarono quì. Domani ripartiamo, sono riuscito a sapere dove abitava il vecchio. Braccioforte dorme ed io mi trovo a percorrere vicoli deserti verso una vecchia casa al margine del paese, mi dicono disabitata da quando è partito il vecchio. La luna illumina la strada e le ombre. La casa è piuttosto grande, la sua sagoma si staglia in un giardino lasciato andare in rovina, mi faccio strada tra i rovi per avvicinarmi alla porta principale. Mi avvicino con discrezione e provo a far ruotare la maniglia è aperta, la spingo con cautela, dà su un grande salone in cui si intravede una scala centrale che porta la piano superiore e lateralmente altre porte. Da una di queste sembra provenire una luce, come di una candela o di un fuoco acceso. Il cuore mi batte, non sono coraggioso ma non riesco a non entrare. Nella luce fioca della stanza intravedo una figura avvolta in un mantello seduta vicino al fuoco che arde lento nel camino. «Ben arrivato ragazzo». Mi dice il vecchio. Continuo ad avvicinarmi al fuoco ed al vecchio. Quando gli arrivo vicino allungo le mani per scaldarmi e mi giro a guardarlo in volto.
E’ il vecchio della pendola non c’è dubbio. «Ti ricordi di me ragazzo? Ti aspettavo».
Non riesco a dir nulla, estraggo la mano dalla tasca e gli porgo la chiave d’oro.
Prendendo la chiave dalle mie mani, abbassa la testa come a confermare qualcosa, si alza e mi fa' cenno di seguirlo. Saliamo lungo la cigolante scala che porta la piano superiore percorriamo tutto il corridoio pieno di porte chiuse e ci fermiamo in fondo, davanti ad una porta più alta e stretta delle altre. Il vecchio infila la chiave spinge la porta per aprirla e si fa' di lato.
Entro solo, i miei occhi si abituano pian piano alla poca luce. Nella stanza diverse persone sono disposte vicino ad un letto come per una veglia, una in disparte è seduta su una sedia. «Sei tornato figlio mio, veglio il tuo ritorno dal giorno che sei partito. Sei tornato in tempo. Come sei cresciuto. Ti sei fatto quasi un uomo». Resto senza parole, combattuto tra rabbia e lacrime. Ha il viso scavato, l’unico gesto che mi vien da fare è posarle una mano sulla spalla, che comincia a scuotersi. «Perdonami, perdonami, perdonami». La testa mi gira, ho la sensazione di cadere a terra. «Si, madre ti perdono». Mormoro.
L’aria fresca del mattino mi sveglia. Mi sorreggono le braccia forti del mio tutore, sono sul carro. «Tutto bene ragazzo?». Accenno ad un si con la testa. «Un vecchio mi ha svegliato e detto dove potevo trovarti, che ci facevi davanti a quella casa». «Ho fatto un sogno, ero tornato a casa per farmi abbracciare da mia madre. Credo per l’ultima volta».
«Tutto bene ragazzo?». Abbasso la testa in segno di assenso.
Solo questo si riesce a leggere nel diario che ho trovato.

venerdì 11 dicembre 2009

DEJA VU di Aldo Ardetti



Le donne si erano dimostrate più scaltre nel gioco delle carte. Agli uomini veniva meno la necessaria concentrazione per le notizie diffuse in quei giorni: l’intensificarsi della guerra con i tedeschi in ritirata.
Le donne affrontavano l’argomento con spirito differente.
Era stato un giorno con un tiepido sole ma a sera si gelava.
Quando la trattoria del quartiere si svuotava dei pochi avventori ai quali era stato servito quello che il mercato offriva, Rossana si concedeva un giro di carte con gli amici.
Attilio aveva notato che Francesco, il compagno di gioco, spesso si distraeva ma non aveva voluto colpevolizzarlo: non c’era posta in palio, diceva. Francesco rifletteva sul destino che spesso si diverte a prenderci per mano, a condurci in luoghi già visti in circostanze diverse. L'ispirazione di quel déjà vu era stata la giovane Anna – dipendente e compagna di gioco di Rossana – che le aveva ricordato, per la sua bellezza, un amore giovanile.
Quando era studente e di salute cagionevole, i genitori benestanti e con numerosa figliolanza, dopo ripetuti consulti medici, decisero di far fare al loro figliuolo un po' di mare perché in paese, quando si trattava di salute, si pensava a località marine e quelle del litorale, pur avendo convissuto con la palude, ora assicuravano aria e acque salubri. Il giovanotto partì ben bardato ma con qualche timore per l'ignoto dovuto alla giovane età. Era la prima volta che affrontava una scampagnata in solitaria anche se non si trattava di un viaggio lungo e difficoltoso. Le notizie di una eventuale guerra intimoriva e parenti avevano già imbracciato le armi in terre lontane. I genitori lo videro partire entrambi impensieriti pur avendolo raccomandato a famiglie amiche. Ma l’apprensione era difficile da contenere.

Durante il viaggio il giovane Francesco pensò di fare una sosta in quello che sembrava uno sperduto borgo dove i pochi abitanti, per la maggior parte, erano di origine veneta e romagnola. Era stanco e un leggero mal d'ossa gli indolenziva tutto il corpo per il viaggio fatto su una corriera malandata.
Calmò l’arsura con una bevanda fresca chiesta ad un chiosco a conduzione familiare, improvvisato davanti a un podere che vendeva i prodotti dei campi che si riusciva a coltivare. Una anziana donna si guardava intorno poi, rivolgendosi verso la casa, reclamò qualcosa a gran voce. Sull’uscio apparve una giovane. Francesco ne rimase incantato, ai suoi occhi apparve bellissima e seppe poi chiamarsi Adele. Gli sguardi si incrociarono per un timido saluto di benvenuto. Francesco non seppe dare un'età a quella ragazza dai capelli corvini con occhi neri e profondi. Meno di vent'anni, pensò. Decise allora di chiedere alloggio che gli fu concesso nell’unico posto disponibile, nella casona, una baracca costruita dietro la casa. Un battente assicurava luce e aria mentre in un angolo, tutto scurito dal fumo, un cestino di logoro vimine conteneva mozziconi di candela per l'uso casuale che ne era stato fatto; per letto un materasso deformato poggiato su di una pedana e alcune assi di legno poste orizzontalmente imitavano uno scaffale. Anche l'odore non era dei migliori in quella specie di magazzino disordinato. Il ragazzo si accontentò pensando alla ragazza che possedeva un fascino carnale, ancora acerbo. Speriamo di non fare troppa confidenza con le pulci pensò, mentre non riusciva a governare la ridda delle sensazioni.
Durante la frugale cena, aveva ricambiato continue e prolungate occhiate. Le cose più belle sono quelle che non si dicono, aveva pensato. I due giovani si piacquero e si desiderarono da subito. Tutto quello che sarebbe accaduto sembrava già essere scritto.
Quando fu notte fonda la ragazza aspettò il momento del primo sonno per sgattaiolare fuori. Bussò alla porta del capanno chiusa dall’interno con un rudimentale chiavistello anch’esso di legno.
Fu in quel capanno di campagna che Francesco l'amò baciando le labbra morbide e carnose. Ho sedici anni e sono vergine, gli aveva sussurrato quando capì che i loro corpi si sarebbero avvicinati per congiungersi. Egli la prese con tutto l'amore che l’inesperienza suggeriva; si unirono con tutto l'ardore giovanile che seppero offrirsi e si amarono con quel trasporto totale capace di annullare qualsiasi responsabilità.
Alle prime luci dell'alba Adele fece il percorso a ritroso. Ritrovò il suo letto con le coltri gonfiate ad arte. Se qualcuno si fosse svegliato all'improvviso avrebbe potuto pensare alla giovane di ritorno dal cesso situato all'esterno.
L’indomani Francesco invitò Adele a fare una gita al mare. I preparativi non richiesero tempo e impegno particolari. Si incamminarono per la strada bianca – quasi diafana per il residuo chiarore lunare – evitando di calciare il brecciame più grosso. Tutt’intorno giardini sparsi di fiori di campo. Lungo la strada diversi chioschi di angurie e meloni. La produzione era talmente alta che, una volta spaccati, se ne mangiava solo il cuore mentre il resto finiva nelle porcilaie o ad essiccare alla vampa del sole. Sembrava una zona tranquilla, una zona dove vivevano contadini e allevatori che campavano con il loro lavoro. Non una voce o rumore nell’aria ma si sentiva il leggero soffio del vento che andava a rinfrescare le chiome dei rari alberi e ad incunearsi nelle scoline che fiancheggiavano la carreggiata o dividevano le proprietà.
Arrivarono al mare. Adele non lo aveva mai visto. Che grande pozzanghera, fu la sua prima ingenua impressione mentre i bellissimi occhi si muovevano per ammirare il colore dell’acqua e la linea dell’orizzonte così lontana. Sentirono il bisogno di liberarsi del peso e fare un bagno ristoratore. Lasciarono il modesto bagaglio sulla rena; vi poggiarono sopra i vestiti e si diressero verso la riva dove si infrangevano onde basse e l’aria era mossa dalla brezza marina. Francesco si tuffò con sicurezza. Aveva imparato a nuotare da bambino nelle secche e nelle piccole anse dei fiumi. La ragazza, dopo aver esitato, si bagnò calandosi prudentemente nelle acque facendo attenzione perché il mare poteva tendere bruscamente verso l'abisso.
Giocarono a rincorrersi, poi, restarono a fissare il cielo tenendosi per mano. Infine, si guardarono negli occhi senza dire una parola, increduli.
Rinfrancati si rimisero in cammino. Decisero di ritornare in città facendo un altro percorso. Cercarono passaggi di fortuna sulle barozze che abitualmente trasportavano erba medica e fieno per l’inverno. Costeggiarono estesi vigneti e appezzamenti con altre colture.
Una volta giunti a destinazione pernottarono in una casa il cui indirizzo era segnato su un pezzo di carta piegato e ormai sgualcito, ospiti di una signora la cui figlia suonava il piano. La signora era una aristocratica imparentata con un funzionario fascista; la figlia dava l'impressione di essere succube di una madre incontentabile, che la voleva continuamente impegnata nello studio.
Arrivò il giorno che Francesco dovette fare ritorno al paese perciò rientrarono nel piccolo borgo dove ci furono molte promesse e altrettante lacrime. E poi l'addio.
Non si incontrarono mai più.

Pensieri e fragori lontani riportarono Francesco alla realtà. Con le carte a ventaglio nella mano riprendeva a decidere quale carta calare. Questa volta si trovava in quei luoghi per altri motivi, per altre ragioni – anche questa volta lo aveva deciso la vita – mentre nuvole nere si addensavano sulla terra e sul mare.
La città era stata ripulita dai simboli fascisti e molte vie mostravano i segni degli scontri.
Lo sbarco era iniziato. Lampi e tuoni di cannone riempivano l’aria del nord. Nei giorni addietro c’erano state scaramucce e i primi bombardamenti.
I quattro si alzarono e presero la via per i ricoveri, dirigendosi verso la circonvallazione della città.

martedì 8 dicembre 2009

LA BAMBOLA DI PEZZA di Daniela Rindi



Mi si è formato un bolo di saliva in gola, che ho difficoltà a buttar giù. Ognuno ha un cadavere sul cuore e quello che adesso mi sta tornando in mente percorrendo via Nazionale, è il mio. Mi piacerebbe fosse ancora al mio fianco, fermarci a guardare le vetrine, istigandomi a comprare! Sì, le piaceva quando acquistavo qualcosa per me. Sapeva che era una coccola e me la concedeva, lei. Ma questa è un'altra storia. Odio le scarpe scomode e i tragitti, vorrei essere teletrasportata da un punto all'altro. Non m’interessa quello che c'è nel mezzo. L'alluce del piede sinistro mi batte sulla punta della scarpa, provocandomi una fastidiosa scossa elettrica, chissà perché? La mia camminata sui tacchi è deambulante e sgraziata, potrei dare l'impressione di essere una tossica, per fortuna nessuno si sta interessando a me. Mi fermo in un bar per far riposare i miei piedi, ordino un caffè e un bicchier d'acqua. Prendo la zuccheriera, quella con il beccuccio: uno due, tre, quattro…il barista mi guarda, "sì, mi piace amaro", cinque! Devo fare pipì, la mia vescica non riesce a trattenere nessun tipo di liquido per non più di un quarto d'ora. E' fastidioso lo so, ma il vantaggio è di non avere le cosce deformate dalla cellulite, che non è poco. Scendo una scala stretta con le pareti rivestite di carta da parati, finto mattone. Il loculo in cui è incastrato il cesso è oscenamente sporco, fortunatamente c'è un enorme rotolone di carta igienica, che uso abbondantemente. Ringrazio e riprendo la mia marcia scomposta. E' già buio e stasera non ho tanta voglia di andare da lui, "amore ho fatto tardi, non riuscirò a prendere il treno delle ventuno e zero sette". Il tono della sua voce è freddo, irritato, come sempre. Mi sento in colpa, mi fa sempre sentire in colpa. E' un diritto che gli ho concesso quando l'ho conosciuto, quando mi sono affidata a lui, illudendomi, ipotecando la mia ritrovata felicità. Ma si è dissolta in un attimo, con la routine. Non ripeterei l'errore, ma è andata così. Le vetrine sono tappezzate di scritte che t’invitano all'acquisto scontato, mi piacerebbe quella gonna strana, che sembra una coperta. Ma non ho tempo, non posso perdere anche il treno delle ventuno e quarantotto. Un vagabondo si è ritagliato uno spazio per dormire sul marciapiede, fregandosene dei passanti, faccio fatica a non calpestarlo. A suo modo è una persona libera, più libera di tanti altri. Chissà come stanno le bambine? Lasciarle mi fa sempre sentire male, anche se secondo me hanno capito. Se potessero, farebbero lo stesso, sono convinta. A nessuno piace essere maltrattato e vivere nell'angosciosa repentinità dei cambi d'umore di qualcun altro, anche se di un padre, un marito, tra l'altro mai presente. Non si capisce perché gli uomini, in famiglia, si sentano in diritto di far soffrire, con atteggiamenti prepotenti e superbi. Un retaggio di "padre padrone". Un giorno le bambine potranno scegliere di andarsene anche loro, di andare e tornare a piacimento. Non le biasimerò. Sono arrivata, il tasso di alcolisti concentrato alla stazione Termini è altissimo, a quest'ora vengono fuori come funghi dopo la pioggia. All'interno non c'è molta gente, per lo più balordi e questo m'inquieta, anche se anch'io mi sento una balorda. Nonostante l'aspetto elegante e curato, so di essere marcia dentro. Non so perché faccio questa cosa, ma continuo a farla, ogni volta che mi è possibile. Forse perché una vita vale l'altra. Mi sento come una bambola di pezza. Guardo il tabellone delle partenze, Latina binario tredici. Mi guardo anche gli orari del ritorno, bene, non dovrei avere problemi domani. Ho fame e tiro fuori il cellulare: "Amore tu hai già cenato? Ah, si? …No non importa, non preoccuparti…prenderò qualcosa". Vado a comprarmi dei fetidi panini da Chef-express, mi serve una ragazza di colore dal sorriso rassicurante. E' una perla che mi viene regalata in questa situazione desolata. Mi avvio al binario e mi siedo sulla panca di marmo, dall'alto una perdita goccia, formando una pozza d'acqua per terra. Mi riscappa la pipì. Più avanti una coppia di ragazzi sporchi si rolla una canna. Mangio i miei panini voracemente, vergognandomi anche un po', una grassa filippina mi sta guardando dall'interno del treno. Mi fumo anche una sigaretta. Salgo, guardo l'orologio, sono un po' in anticipo e decido di leggere qualche pagina. In questi giorni mi sta accompagnando Wallace, che non mi semplifica la vita! Finalmente il treno parte, lasciando lentamente la stazione, come un grosso, pesante e stanco verme di ferro. Guardo fuori, adesso è veramente molto buio, domani tornerò in tempo per prendere le bambine a scuola...come sempre.

martedì 1 dicembre 2009

SCACCHI MATTI di Pasquale Bruno Di Marco



“Fermo fratello pedone! Cosa fai?”
“Come sarebbe? Ti mangio: pedone bianco in F5. Sei preso, amico”
“E perché?”
“Come perché? E’ la regola degli scacchi.”
“Ma perché vuoi mangiarmi? Tu stai solo eseguendo la volontà di altri. Sei una pedina nelle loro mani.”
“Veramente sono un pedone. Comunque si, sono nelle mani di chi ci muove, come te, come gli altri pezzi.”
“Apri gli occhi, fratello. Guarda. Uno dei due vecchietti che stavano giocando con noi è andato in bagno e sai bene che ci resterà un sacco di tempo e l’altro si è addormentato mentre stava per muoverti.”
“E allora?”
“E’ la nostra grande occasione. Presto, venite qui, fratelli pedoni. Tutti qui, bianchi e neri, e ascoltate. I nostri colori sono diversi ma dentro siamo uguali, siamo tutti pedoni. Siamo noi quelli che vengono sacrificati per primi e solo perché loro, i nobili, possano fare il loro comodo. Quante volte ci hanno fatto azzuffare mentre l’alfiere sventolava l’insegna e il cavallo nitriva saltellando sulle nostre povere teste e poi, quando ormai noi giacevamo fuori dalla scacchiera, quelli, d’accordo, fermavano la partita dichiarando la vittoria dell’uno o dell’altro senza neanche sporcarsi. Oppure, beffa ancora più amara per le nostre sofferenze, dichiaravano la partita patta. Ribelliamoci fratelli pedoni. Basta essere succubi di un potere che non si cura affatto di noi. Tocca a noi decidere del nostro destino. Noi saremo il potere.”


“Cara, ma che succede al centro della scacchiera?”
“Sembra che i pedoni bianchi e neri si siano messi a fare comunella e stiano acclamando uno di loro, un pedone nero, caro”
“Acclamano un pedone? Che cosa bizzarra! Ma che si sono messi in testa?”
“Tranquillo caro, ci penso io. Tu arroccati pure dietro la torre e non fare assolutamente nulla, come al solito del resto, che in questo sei bravissimo. Cavalli e alfieri, rimettete al loro posto quella marmaglia!”
“Agli ordini, regina!”
“Fratelli pedoni, battiamoci per la nostra libertà. Non abbiamo nulla da perdere tranne le nostre scacchiere.”
“All’assalto. Cavallo in C6.”
“Due pedoni si spostino a destra! Addosso”
“Alfiere in E7, carica!”
“Pedoni bianchi, rintuzzate l’attacco!”


“Alla fine siamo rimasti solo noi, regina.”
“Si, pedone. Siamo rimasti solo noi. E’ stata uno scontro duro. Ma non è ancora finito. Io mi batterò fino all’ultimo.”
“Ma io non voglio battermi con te regina. Io ti amo.”
“Come? Tu sei pazzo, pedone.”
“E se anche fosse? Sei bella, regina. Ogni volta che ti muovevi sulla scacchiera io rimanevo estasiato dalla tua eleganza e dalla tua leggiadria. E mi sono innamorato di te..”
“Ma allora, vorresti forse farmi credere che?”
“Si. Tutto questo l’ho fatto solo per te, regina.”
“Sei davvero un pazzo!.”
“Si, adesso sarai mia.”
“Tu osi avvicinarti a me?”
“Ti desidero, ti bramo, regina”
“Pedone, sei pazzo. Un incosciente, assurdo, affascinante pazzo. Ti farò tagliare la testa. Ma prima vieni qui e ripassiamo il kamasutra delle sessantaquattro caselle.”


“Nicola, ma ti sei addormentato?”
“E si, scusa. Devo pure aver urtato la scacchiera. Tutti i pezzi sono caduti, aiutami a trovarli.”
“Ma che strano…”
“Che cosa è strano?”
“Ogni volta che mi addormento i pezzi cascano dalla scacchiera e quando mi metto a cercarli alla fine mi manca sempre lei, la regina nera. E ogni volta, puntualmente, la ritrovo in un angolo buio o sotto un mobile, insieme alla torre o al cavallo, una volta addirittura insieme a tutti e due gli alfieri. Ma questa, ti giuro, è la prima volta che la ritrovo affianco ad un pedone!”

martedì 24 novembre 2009

NOEMI INVIATA DI MODA A MILANO di Anna Profumo


Telefonata molto disturbata, non ho capito dove fosse. La Direttrice del resto viaggia in continuazione. Minnie Phoottow si è sincerata che avessi organizzato tutto per essere a Milano il giorno dopo, per la sfilata di Dolce e Gabbana, mi ha salutato e subito dopo ha riagganciato. Mentre schiacciavo il pulsantino per chiudere la conversazione, ho avuto un pensiero.
«Ma io, come ci arrivo a Milano?» Come ho potuto dimenticare. Dovevo prenotare per tempo!
Alla ricerca di un volo! L’unico disponibile per Milano o dintorni, atterra a Bergamo. Poco male, parte la mattina presto, avrò tutto il tempo di raggiungere la passerella per l’ora fissata.
L’appuntamento con gli stilisti è nel pomeriggio, prima della presentazione ufficiale. Siamo d’accordo che sceglierò un capo della collezione con cui tornare a Roma. Le sarte fanno il miracolo, riadattano il capo in maniera meravigliosa, in 30 minuti trasformano una 38 per una modella alta un metro e novanta di cui più della metà sono gambe, in una 44 per una donna alta un metro e sessanta, con i tacchi. Non avete idea di cosa si provi a camminare per alcune ore tra creature che sono alte il doppio di te e ne pesano la metà. Tante tutte insieme e bellissime. “Ma, ricordiamo il nostro slogan: siamo l’abito che indossiamo. Noi, siamo bellissime!”
Punti di forza della collezione Dolce e Gabbana di quest’anno, primavera/estate 2009: tute colorate con alte righe orizzontali e grandi dettagli floreali.
Ho scelto un abito tuta. Aderente e lungo, a righe bianche e rosse. “Sobrio”, fascia il corpo ricadendo morbidamente. Completa l’abito, il cappello a falda larghissima, anch’esso a righe rosse. Floscio, ricade incorniciandomi l’intero busto come fosse uno scialle. Alla modella alta un metro e novanta arrivava sotto le scapole a me un po’, molto un po’, più giù. L’ampia falda è sollevata davanti a scoprire il viso. La sfilata inizia in ritardo e finisce tardissimo. Mi trattengo qualche minuto, giusto il tempo per ringraziare e salutare. Questo modello sembra ideale per chi deve lanciare la macchina nel traffico della sera in direzione dell’aeroporto, lasciarla parcheggiata in un parcheggio multipiano e prendere al volo un aereo. Ho pochissimo tempo. Il traffico che si dipana per le arterie sembra precedermi e seguirmi - imbottigliarmi. Fortunatamente il cappello aiuta a concentrare la vista frontalmente, non concede distrazioni: “Il vecchio sulla bici facesse un po’ d’attenzione, non ha visto che giravo a destra?”
«Si, si, inveisci pure, fiato sprecato non ti sento. Raggiunta una certa età si sentono i padroni del mondo!»
Un abito così lascia libera nei movimenti. Noi donne moderne, possiamo lanciarci nel fiume caotico della città, seguire le indicazioni per l’aeroporto, percorrere la strada che termina in un incrocio a cui, contro ogni buonsenso devi girare per forza a sinistra per immetterti in una strada a senso unico, adeguarti alla corrente e guadagnare la riva destra prima che si presenti la nostra uscita. Nascosta, ben bene, dal furgone che trasporta le mozzarelle di bufala. I clacson “ululano”: «E che caspita, ma non l’avete vista la freccia?»
“Prendiamoci il nostro spazio, care amiche! Il nostro abito ci aiuta, siamo quel che indossiamo”.
Ma non perdiamoci d’animo. Ecco li giù l’aeroporto. Imboccando l’ingresso del parcheggio multipiano. Ci sentiamo rinfrancate per aver scelto l’abito giusto, noi novelle pilota di formula traffico.
Ci avviciniamo alla colonnina di ingresso dove ritiriamo il nostro biglietto – non ci facciamo prendere dal panico. Non riusciamo ad infilarlo nell’apposita asola sul parasole? Lo conficchiamo, nella falda frontale del cappello – il nostro cappello.
Salde affrontiamo le salite del multipiano:
Piano primo - completo. Noi con ferma determinazione saliamo.
Piano secondo – completo. Noi con salda concentrazione saliamo.
Piano terzo – completo. Noi con sangue freddo continuiamo la salita, freniamo appena in tempo. Ma dove hanno spostato l’accesso? Facciamo manovra per imboccare la nuova rampa.
Piano quarto – completo. Imboccando la nuova rampa. Noi con rigore estremo, sterziamo con decisione facendo stridere, involontariamente, le ruote. Fanno un certo effetto, ci sentiamo un po’stuntman al femminile.
Piano quinto – completo. Noi, donne moderne con spirito critico, sporgendoci con enfasi dal finestrino, mandiamo bonariamente a quel paese l’autista del suv che scende dalla rampa guidando contromano.
Sempre, Piano quinto – Recuperiamo il controllo e ci dirigiamo verso l’unico posto libero, determiniamo il nostro diritto ad occuparlo lanciando con abile mossa il cappello che volteggia in aria descrivendo piroette, come fosse quello di Zorro. Gli altri autisti restano a bocca aperta e naso per aria. Noi parcheggiamo. Qualcuno fa anche i complimenti: «Hai visto quella?»
L’ascensore è rotto, cinque piani di scale a scendere trascinando la valigia. La tuta è fondamentale, non fosse per i tacchi che un paio di volte si infilano nel bordo della stoffa, quasi rotoliamo per le scale. Amiche, tutte le volte che possiamo, prendiamo l’ascensore!
La nostra missione si compie quando davanti allo sportello dell’autonoleggio troviamo tanti, che tornano in macchina a prendere il biglietto. Noi lo estraiamo dalla falda del nostro cappello, restituiamo documenti e chiavi. Caparbiamente, percorriamo il tratto che ci separa dal banco del check-in. Sventoliamo la prenotazione perché ci facciano passare, le folle si aprono come fosse il Mar Rosso. Non capisco proprio perché la signorina sia così insistente. Manifesto il mio disappunto, vuol farmi togliere il cappello ed imbarcarlo.
«In fondo può benissimo essere considerato un semplice bagaglio a mano.»
«Non entrerebbe nella cappelliera.» Dice.
Mi fa perder tempo e l’aereo. Prima di perder la pazienza. Cedo. A malincuore, lo imbarco.
Care Amiche, Dolce e Gabbana vi favoriscono negli spostamenti e per il parcheggio. Ma attenzione! in aereo, salite senza cappello.
Dalla vostra inviata Noemi Ciambella

(pubblicato in data 24 novembre 2009)

martedì 17 novembre 2009

L’ISOLA di Aldo Ardetti


L’Isola non era un pezzo di terra circondato dalle acque ma il nome di un bar, il Bar Isola. Quando mi capitava di passare da quelle parti rivedevo sul marciapiedi di asfalto i segni delle sedie e dei tavolini che ogni mattina venivano portati fuori dal locale e ritirati la sera fino a che i marciapiedi del centro non furono rivestiti di marmi che nascosero ogni… traccia storica. Nei giorni bagnati qualcuno ci ha fatto scivolate spettacolari.
A casa, poi, è rimasto un regalo di Valerio e Gino, i proprietari del locale: una bottiglietta di Cinzano bianco definito speciale dalla casa. Chissà quanto varrà per i collezionisti di mignon. Parliamo di almeno 30 anni fa. E’ parcheggiata dentro un bicchiere abbandonato. Inizialmente la capovolgevo per far inumidire il tappo e mantenerne la funzionalità ma l’espediente non è servito: oltre ad evaporare metà del contenuto, il restante si è ossidato – il Vermouth da giallo pallido è diventato scuro – e il copri tappo, un cappuccio ricavato da sottile lamina di alluminio, mostra delle perdite ormai essiccate.
Il Bar Isola aveva due entrate o meglio, l’abitudine voleva che da una si entrasse e dall’altra si uscisse ma la regola non era tassativa. Sulla destra c’era un piccolo banco frigorifero e subito dopo la cassa. Più avanti – praticamente sul lato più lungo, quello principale – il bancone vero e proprio che finiva col la Faema dei cappuccini e caffè. All’angolo sinistro c’era il flipper – che allora era più meccanico ed elettrico che elettronico – con il quale si rivaleggiava per aggiornare il primato. La restante parete e la vetrina di lato all’altra porta, erano destinate alle esposizioni a seconda delle festività. Era situato in centro, e oltre agli abituè, entravano passanti occasionali. Soprattutto con il tempo uggioso.
I proprietari non erano più giovani ma avevano una vitalità invidiabile, soprattutto Valerio. Piccolo ma energico e senza paura. Serviva soprattutto quest’ultima con certi avventori. Visite antipatiche erano sempre in agguato. I due titolari avevano alle spalle mestieri differenti ma, non volendo stare fermi, avevano pensato a questa attività come investimento pur potendo andare tranquillamente in pensione e fare la bella vita.
La differenza tra cliente fisso e passante era che il primo poteva segnare e saldare il conto ogni settimana – possibilmente – e instaurare un rapporto amichevole coi titolari.
L’Isola sembrava il nome azzeccato per il ritrovo, il punto di riferimento per turnisti di fabbrica, cassintegrati, lavoratori a giorni alterni quando andava bene. Offri tu che offro io e finivano bottiglie di brandy e casse di birra. Ognuno poi, sembrava occupasse per affezione lo stesso posto, lo stesso angolo del bancone o del tavolino. Ma le abitudini perdevano efficacia quando il piccolo locale si sovraffollava. Estranei che cercavano di entrare nel gruppo, nel giro delle bevute neanche si trattasse di passatelle. Stranieri e anche gente proveniente dai paesi islamici non disdegnavano bere alcolici in terra straniera.
Sfidante di bevute un inglese, un bulgaro o rumeno; quest’ultimo non confessò mai la propria nazionalità. Erano i tempi della guerra fredda e dei profughi politici dell’est in transito nei campi di accoglienza prima della definitiva destinazione: Stati Uniti, Canada, Australia,… Tutti sembravano rincorrere il tempo o cercare di fermarlo a seconda del bisogno. A volte anche con i pettegolezzi e soventi litigi che duravano, questi ultimi, il tempo per il successivo bicchiere.
Il più simpatico degli indigeni era Nando detto Fortebraccio, segaligno ma forte come un boxeur e campione di bicchierate, che lasciava dietro di sé scie di profumo agrumato. Uomo di saloon amava ripetere: «Noi giocavamo con la creta, non con la plastilina», per ricordare la condizione sociale di provenienza con le corrispondenti possibilità economiche; una famiglia proletaria che si era aggiustata ma guai a dirgli imborghesita.
Sempre inattesa appariva Lorella – non più giovanissima – con un corpo da far invidia ad una trentenne. Abitava in un paesino sui monti e, per tastare la vita, scendeva in pianura per conoscere la città. Dicevano che vivesse facendo la prostituta e che spesso si appartasse nei gabinetti anche con persone molto più grandi di lei. Voci asserivano che accadesse anche in quello dell’Isola.
Accadde pure che Rosy, la figlia di Gino, rimanesse incinta. Nessuno seppe chi fosse il responsabile anche se un nome veniva fatto a bassa voce. La ragazza non lo confessò mai ai propri genitori.
Molti sapevano che aveva più di un amante – ragazzi e uomini sposati – e che alcuni di essi li ricevesse in casa mentre i suoi erano al lavoro. I genitori la fecero volare a Londra per non suscitare scandali e perché allora rappresentava l’unica via d’uscita per risolvere quel tipo di problema.
Un giorno entrò Peppe Carale con la sua spalla, un delinquentello come lui. Era il primo pomeriggio e il bar, semideserto, sonnecchiava. Angelo, appoggiato al banco, sorseggiava un caffè ancora bollente. L’episodio iniziò con uno scambio di battute e il delinquente, che si infastidiva facilmente e ormai sulla strada dell’ubriacatura, ordinò al suo compare: «Dagli un pugno sul naso a quello!»
Angelo rimase di stucco: «Ma come, eravamo amici da ragazzini, abitavamo nello stesso quartiere…»
Per fortuna il pugno non partì e l’aria ritornò serena.
Alcuni mesi più tardi Peppe Carale morì in un incidente automobilistico mentre era inseguito dalla Polizia.
Il Bar Isola non esiste più. Il locale è stato ristrutturato tante volte quante le attività commerciali che vi si sono succedute.
Era una piccola parte del palcoscenico della nostra giovane vita: un luogo del nostro spazio e del nostro tempo. Per alcuni un luogo per combattere la solitudine.
Rimane il ricordo – tra bagliori didascalici, voci e rumori lontani – in una storia di bar.

(pubblicato in data 17 novembre 2009)

martedì 10 novembre 2009

UN AMORE PICCOLO MA GRANDE di Daniela Rindi


Un vestitino verde a pois, sandali bianchi, il viso sempre imbronciato... così mi ricordo la bambina dagli occhi verdi e i capelli biondi spettinati, della quale mi innamorai a dieci anni. Lei ferma in mezzo alla piazza, i genitori a pochi metri.
Chissà perché era sempre arrabbiata?

Veniva a passare le vacanze in questo piccolo paese sulla riviera pontina, con uno strano nome, molto accattivante e mitologico, dove vivo tuttora.
Lei era del nord Italia.
I suoi genitori affittavano ogni anno la stessa casa, non lontano dalla mia, per cui riuscivo a controllarla in quasi tutti i suoi spostamenti. Sua madre la portava in spiaggia la mattina presto, seduta sul retro della bicicletta, le gambe ciondoloni, lo sguardo perso nel vuoto e rincasavano a pomeriggio inoltrato.

L’unico momento in cui potevo incontrarla da sola era prima di cena. Lei, normalmente scendeva per strada e cominciava a giocare con i gatti. Gattini randagi, che considerava suoi, come tutti i bambini.
Li aveva chiamati Minou, Matisse e Bizet, come gli Aristogatti. Non aveva amici, se anche ogni tanto qualcuno le si avvicinava, attirato dagli animaletti, lei lo demotivava velocemente, raccogliendo infastidita i suoi gattini, spostandosi in un altro posto.

L’unica persona che sembrava tollerare ero io, forse perché per nulla interessato al suo gioco.
Il cortile di casa mia era infestato da quei maledetti animali, che pisciavano ovunque lasciando una puzza insopportabile, trasformando quel luogo, a mala pena dignitoso, in un ghetto zozzo.
Un tardo pomeriggio d’agosto, in una giornata grigia, senza sole, eravamo assieme.
Passeggiando arrivammo ad un piccolo ponte, che attraversava un torrente in secca.
Ci mettemmo seduti per terra, lei iniziò a provocare, approfittando della mia debolezza.
Mi tirava piccoli sassi, allungandosi col collo per catturarmi una smorfia. Cercavo di nascondermi dietro al mio ciuffo rosso, guardando per terra, disegnando distrattamente piccoli cerchi con un bastoncino di legno. Mi imbarazzava sentire accelerare il battito del mio cuore. Ma non si delimita l’amore.

Si alzò di scatto, la seguii con lo sguardo, era altera e bella, i suoi capelli arruffati la coronavano come una principessa. Si appoggiò con i gomiti al muretto, guardò giù e mi disse:
«Per un mio bacio salteresti giù dal ponte?»
Deglutii l’eccesso di saliva e tentennando mi alzai anch’io. La fissai negli occhi, pregandoli di svelarmi la burla, ma non stava giocando, avevano l’aria di sfida.

«Solo un salto…»

Guardai giù, saranno stati almeno quattro o cinque metri!
Tutto il mio piccolo e insicuro mondo interiore era in subbuglio, come potevo deluderla, o mostrare a me stesso di essere un codardo?

E poi un bacio… quante notti avevo passato a sognarlo ad occhi aperti! Quante volte avrei voluto sussurrargli all’orecchio “io ti amo veramente”. Salii sul muretto, lei mi guardò impaurita, ma troppo tardi. Spiccai quel volo senza pensare, facendomi inghiottire dal vuoto, assaporando quegli istanti fatti di nulla. Un Angelo disposto a cadere per amore. Un Angelo stupido.

Quando ripresi i sensi avevo una caviglia fasciata e ancora un dolore atroce. Un capannello di gente non mi lasciava respirare. Con un braccio scansai una vecchia e grassa signora che mi sovrastava, la vidi… lei ferma in mezzo alla piazza, i genitori a pochi metri. Sono passati tanti anni, da quel tardo pomeriggio d’estate. Il bacio non lo ricevetti mai.

Ora sono un adulto, con meno capelli rossi e senza acne, sposato, con tre figli, divenuto Direttore Responsabile del miglior albergo di questa piccola cittadina sul litorale pontino, con uno strano nome, molto accattivante e mitologico. Sono soddisfatto.

Elisa, così si chiamava la bambina dagli occhi verdi e il viso sempre imbronciato, non l’ho più vista. I suoi genitori, a seguito di quell’ increscioso incidente, decisero di cambiare luogo di villeggiatura: la Sardegna. La persi per sempre.
Ma la notte ancora mi sveglio per l’inquietudine, a causa di una domanda che mi tormenta nella testa, rimasta senza risposta... Chissà perché era sempre arrabbiata?


(pubblicato in data 10 novembre 2009)

martedì 3 novembre 2009

NOEMI INVIATA DI MODA A PARIGI di Anna Profumo


Vengo distratta dal rumore del Vespa che ci passa accanto. Ogni volta che ne vedo uno penso al film “Vacanze romane”, e mi si materializza davanti l’immagine di Gregory Peck e Audrey Hepburn sorridenti, con il Colosseo alle spalle. Seguo con lo sguardo la sagoma dell’uomo con il casco che ci sfreccia accanto, fino a che non viene nascosta e sostituita dall’immagine della mia interlocutrice. Sto prendendo un caffè con la mia nuova Direttrice. Minnie è una donna incredibile, spericolata ed assolutamente originale. Mi ha appena affidato la rubrica Provati per voi, sarò l’inviata per la nuova testata che sta per uscire “The Club”, in italiano sarebbe stato “La Mazza” ma ha preferito darle un carattere internazionale dal doppio senso, più consono alla nostra epoca. Minnie Phoottow mi ha chiamata la settimana scorsa.
«Signora noi pensiamo lei faccia al caso nostro. Mi hanno parlato di lei, sono sicura sia la nuova figura dell’inviata cui stavo pensando».
«Comincerà Lunedì, non perdiamo tempo. Parigi e le sfilate di moda saranno il suo battesimo. Ha capito tutto?» Mi stava dicendo.
«Tutto chiaro. Prenoto il volo e faccio la valigia. Da lunedì sera comincerà a ricevere i miei articoli.»

Non mi limiterò a raccontare le sfilate dei maggiori Stilisti di moda, ma per creare un filo diretto con i lettori: indosserò gli abiti più interessanti e li sfoggerò dal panettiere, al mercato a lavoro e nei luoghi che anche le lettrici potranno frequentare. Questo perché con la rubrica Provati per voi, il direttore del giornale vuole portare le grandi firme nel quotidiano. Mai più pensare questi abiti come status symbol irraggiungibili e - visto che l’abito fa il monaco – propone di cambiare! Basta diete, palestra e chirurgia estetica, sovvertire “l’Ordine”, noi siamo quello che indossiamo. Caliamoci nella parte e cominciamo la nostra giornata vestendoci da vincenti. La nostra bandiera diventerà: “Possiamo indossarli anche noi!”
Parigi è bellissima in questa stagione. Peccato che il mio tempo sia tutto assorbito dal nuovo lavoro. Oggi indosserò un abito di Dior. Linee fondamentali della sua collezione primavera/estate 2009: bustini strizzati in vita con impunture a contrasto e abiti realizzati con trasparenti e vaporosi tessuti.
Scelgo un abito nero. Il bustino senza maniche, aderentissimo, mi fascia in vita. Davanti partono due foglie di pelle sagomate. Formano una profonda scollatura. Sono ribattute con bianche impunture marcate, a formare le coppe del seno. La gonna, un velo vaporoso di tessuto candido, sotto cui indossare – oh madonna! sembrano dei mutandoni della nonna – culottes in tinta con il bustino.

Il bustino mi strizza, le coppe mi solleticano il mento. Con le culottes sembro Wonder Woman. Ma è ora di uscire, andiamo al supermercato!
La gonna vaporosa non entra in ascensore, una piccola lotta – il vicino vuole entrare, la calpesta.
Alla guida dell’auto non entro. Non c’è verso. Provo dall’altra parte. Si, solo da passeggero. Prendo un taxi, l’autista pare sconcertato quando gli dico: «Bientôt, au supermarché plus près!!»
Le foglie del corpetto mi impediscono di vedere dove inserire il gettone nel carrello – ma riesco, dietro di me la fila.
La porta automatica si apre e mi avvio, oddio! il rondò di accesso, il girello girella. Al terzo giro mi sbalzata fuori e dirigo al banco del pesce.

L’inserviente mi guarda a bocca aperta. Non sembra fresco, il tonno mi fissa in bella posa tra il ghiaccio tritato. Sorrido e vado verso il reparto del frutta e verdura. Cassette della frutta, mele e arance, tutta frutta troppo tonda. Verdure. Si, oggi verdure. Decido per una semplice insalata. Ma chi l’ha messa in terza fila! La gonna si sfila – il decolté traborda. Madonna mia!

Cambio reparto, andiamo tra gli scaffali. Ecco qui, scatolame. La signora vuol passare. Più di così non posso andare. Trattengo la gonna che impicciata, sta per essere strappata.
Ancheggio indifferente in direzione delle casse. I tacchi son alti – ma riesco. La commessa ha una sussulto: «Seulement celui-ci?». Solo questo dice. “Ma che vuole”, penso. Rispondo: «Certainement, celui-ci seul!». Felice, pago la scatoletta di lucido da scarpe che son riuscita ad acchiappare.
Torno a casa e mi svesto. Mi siedo al computer. Metto il punto, termino con: dalla vostra inviata Noemi Ciambella. Invio. La posta elettronica dopo alcuni secondi mi restituisce il messaggio di avvenuta consegna.
Sono fiera di me. Ottimo lavoro. Tuta con cappuccio – lo calo sulla testa. Scarpe da ginnastica e riesco.



(pubblicato in data 3 novembre 2009)

venerdì 30 ottobre 2009

LA DONNA CANNONE di Daniela Rindi


Venghino signori venghino nel magico mondo del luna park! Divertimento, giochi curiosità vi aspettano!
Sollazzi frizzi sfizi di ogni genere per grandi e piccini!
Mostri talenti e scherzi della natura saranno a vostra disposizione! Venite tutti nel paese dei balocchi, venite a divertirvi con noi, maestri senza eguali nell’abile arte della finzione!
Questa sera un’attrazione speciale … solo per voi e giunta da un paese lontano, forse neanche di questo mondo, da un’altra galassia… l’eccezionale… impressionante… magnifica… immensa… mostruosa… Donna Cannone!

Mi chiamo Natasha, Nasti per gli amici.
Sono una donna grassa, grassissima, ma con un bel viso, almeno così dicono tutti aggiungendo poi: «Peccato però…» Sottintendendo il mio fisico, è chiaro.
Ma è come se mi dicessero: «Saresti normale se… non ti mancasse una gamba! »
Loro non capiscono.

Sì, perché essere molto grassi è come essere dei disabili, portatori di handicap, dei diversi.
La gente non ti guarda negli occhi, ma osserva curiosa e schifata il tuo enorme culo, le tue braccia dilatate, la circonferenza esagerata dei tuoi fianchi.
Mai ti guarda negli occhi, anche se ce l’hai molto belli.
Sono il riflesso dell’anima, diceva sempre mia madre.
Non guardandomi negli occhi.

Sì anch’io ho un’anima, però nascosta sotto una tonnellata di lardo. Ho iniziato ad ingrassare a vent’anni, per un’inspiegabile malattia del sangue.
Dopo circa ventitre anni hanno scoperto la causa: un’eccessiva produzione d’insulina.
Questa si ricrea continuamente perché non riconosce gli zuccheri. Almeno così ho capito, ma adesso non me ne frega più niente.
Dovevano scoprirlo allora.

La mia Via Crucis me la sono già fatta, non è stato facile accettare a vent’anni un cambiamento di peso e di corpo così repentino. Prendevo venti chili l’anno.
Nel giro di tre anni sono diventata un’obesa arrivando a pesare centoventi chili.
Da lì ho continuato solo ad aumentare.
Fu drammatico per me.

Non sono più uscita di casa per ben cinque anni.
Come facevo? Non potevo sedermi a nessun bar, perché non entravo nelle sedie, non potevo andare al cinema per lo stesso motivo.
Anche trovare dei vestiti adatti era difficile.
Dovevo servirmi in negozi specializzati per taglie extra large, che non avevano certo capi alla moda, ma solo vecchi camicioni demodé che mi facevano sembrare una vecchia.
Che imbarazzo.

I dottori mi dicevano di fare del moto, della corsa, ma come potevo, mi veniva subito l’affanno e poi mi vergognavo, mi guardavano tutti come se fossi un mostro.
Anche i miei amici, ex compagni di scuola avevano lo stesso sguardo, solo che loro cercavano di mascherarlo un po’.
E’ terribile avere la consapevolezza di essere stata una bella ragazza e improvvisamente risvegliarsi in un’orchessa senza forme, un fenomeno da baraccone.
Il mio ragazzo mi lasciò quasi subito.
Appena aumentata dei primi dieci chili mi disse:
«Non capisco cosa ti stia succedendo? Ma mangi di nascosto? Così mica mi piaci…»
E si fidanzò con la mia migliore amica.

Non so come sono riuscita a non impazzire.
Non credo che siano stati i diciotto anni di autoanalisi. Quelli mi hanno solo aiutato ad accettare il mio stato razionalmente, ma davanti allo specchio ancora mi metto a piangere.
C’ho messo una vita per infondermi un po’ di coraggio.
Mi sono pure sottoposta ad un intervento all’intestino, mi hanno inserito un bypass.
Non credevo ai medici che dicevano fosse un ingrassamento spontaneo, non alimentare. Potevo credergli invece.
Mi sarei risparmiata l’intervento.

Dopo molti rifiuti a causa del mio aspetto sgradevole, per fortuna ho trovato un lavoro.
Mi hanno assunto come cuoca in una mensa aziendale.
Chiusa lì dentro tutto il giorno non davo fastidio a nessuno. «Si vede che ti piace mangiare, eh?» mi dicevano e con questa battuta priva di spirito si giustificavano tutti la mia grassezza.
Quel lavoro mi distraeva un po’, mi faceva uscire di casa, ma non nutriva il mio spirito paradossalmente anoressico.
Quello continuava a dimagrire, a seccarsi come una foglia caduta. Avevo bisogno di un po’ di linfa, altrimenti mi sarei persa per sempre.
Mi licenziai.

Mia madre non me lo perdona ancora oggi:
«Sei una pazza! – diceva – Come fai a credere di trovare un altro lavoro come questo?»
Non aveva tutti i torti, ma io non volevo lavorare, volevo studiare quello sì che mi piaceva.
E così feci. Mi buttai sui libri voracemente.
Cominciai ad interessarmi di esoterismo, di yoga, medicina ayurvedica, shiatsu, bioenergetica, bionutrizione, Reiki, tutte quelle cazzate lì e iniziai a frequentare un corso dopo l’altro, prendendo specializzazioni, lauree di ogni tipo. Mia madre sempre dietro:
«Ma vuoi andare a lavorare? Io mica posso mantenerti a vita? Ci fosse almeno ancora tuo padre! »
Scoprii ben presto che aveva ragione.

Avevo capito che oltre al fisico esiste l’anima, ma non quella che mi avevano insegnato a catechismo.
Una sfera interiore che si poteva sviluppare, potenziare, tanto da rivelarmi un potere speciale nelle mani.
La capacità di trasmettere un calore che dà sollievo. Non sapevo se fosse anche salutare, ma ci provai lo stesso.
Fu un disastro.
Le clienti dubitavano di una donna tanto grassa, di una che non riusciva a guarire neanche se stessa e persi in breve ogni affidabilità, nonostante le lauree, gli attestati, le specializzazioni.
Loro continuavano a vedere una cosa sola.
Il mio grosso culo.

Un giorno andai al luna park e vidi Robert che stava annunciando l’inizio dello spettacolo, la presenza eccezionale dell’uomo scimmia. Comprai il biglietto ed entrai dietro il tendone.
Quando lui uscii dalla quinta ebbi come una scossa e tutti i pop corn mi caddero per terra. Non potevo credere all’esistenza di un altro mostro.
Peggiore di me.

Una mano mi picchiò sulla spalla, era Robert, mi disse subito che ero bellissima, che non aveva mai visto tanta sana opulenza, che avevo un bel viso, che avrebbe voluto lavorassi per lui.
La paga non sarebbe stata un granché, ma avrei potuto condividere la sua roulotte. Tutto questo mi disse in un attimo.
Guardandomi negli occhi.

Alla sera sono stanca, senza energia, ma almeno sono felice. Al termine della giornata, quando si spengono le luci, si smontano le giostre e si rientra nelle proprie roulotte per ripartire, mi fermo un attimo ad osservare il cielo, i pianeti e mi ritrovo in mezzo a tante stelle.
Io sono sempre in un cielo diverso.
Ma questo mi basta.

Venghino siori e siore venghino… nel magnifico paese dei balocchi!

(pubblicato in data 20 ottobre 2009)

martedì 27 ottobre 2009

RAGNATELE di Aldo Ardetti


Sabrina andò sotto la doccia dopo aver caricato la macchinetta del caffè. Una rinfrescata veloce per allontanare la stanchezza poi, nel calduccio dell’accappatoio, degustò il contenuto della tazzina e ripensò alla situazione sentimentale nella quale si era cacciata: le piaceva Carlo ma il ritorno in città di Donato – il primo amore che non si scorda mai – non le era scivolato di dosso e le procurava ancora fremiti e tanta curiosità.
Era passato del tempo e si chiedeva cosa avrebbe provato a rivederlo e quanto fossero cambiati.
Nel pasticcio mentale decise di ascoltare i buoni consigli di Federica – così erano sempre stati.

«Vivo un momento particolare. Sotto certi aspetti anche eccitante per i sogni, i desideri e le scelte non fatte. C’è tanta insicurezza, ancora… barcollo.»
«Situazione delicata. E quando mai?»
Sabrina avvertì il peso del tono ironico, di sfottò.
«Che stronza. Non sto cercando un ma-ri-to ma un rapporto convincente e stabile. Mi sono stancata degli uomini di passaggio. Avverto qualcosa di strano.
Sento che mi si sta aprendo un nuovo mondo.
Capita di pormi delle domande e di ottenere risposte immediate che mi convincono.»
«Vieni a prenderti un caffè da me così potrai raccontarmi le tue… pene e cosa ti sta succedendo.»

Sabrina parcheggiò lo scooter sotto casa dell’amica, considerata una sorella maggiore.
«Una visita improvvisa nasconde un problema urgente»,
l’accolse la voce ospitale di Federica.
«Il cuore è impazzito e con lui il cervello»,
rispose Sabrina con un sospiro che sapeva di rassegnazione.
«Mi preoccuperei più per il cervello che per il cuore. Ehm, i nostri problemi, siamo alle solite…»
fece Federica che, nella domanda, aggiungeva segnali di risposta.
«E già, la situazione si è incasinata. Hai saputo di Donato? E adesso c’è Carlo. Sono due persone diverse: il primo mi attrae per la sua bellezza, la sua spontaneità. Una simpatica canaglia. L’altro è un bravo ragazzo che mi fa sentire a mio agio, mi dà sicurezza. Circolano alcune voci sul suo conto ma di lui voglio potermi fidare.»
«Divertiti, vivi una vita spensierata. Non ti creare troppi problemi. Anch’io ho avuto i miei grattacapi. Ti ricordi quante rogne ho avuto solo l’anno scorso? Per il momento, la mia vita voglio viverla giorno per giorno – replicò Federica, e aggiunse – abbiamo ancora tempo per prenderla seriamente» e agitò la mano in aria.
«Questo è il ragionamento di chi pensa di essere eterno.»
«Ci vediamo alla festa di Gaia?»
Sabrina rispose annuendo con il capo.

In un’altra parte della città Massimo sostava su una panchina del parco e anch’egli, nonostante le sue sicurezze economiche e materiali - rifletteva sulla sua vita e, per quanto gli era possibile, sulla psicologia femminile da quando il livello del suo morale si era abbassato in seguito alla rottura con Sandra.
Non aveva mai avuto problemi con le donne ma con Sandra era stata una storia diversa e gli rodeva – ma non lo avrebbe mai confessato – perché, per la prima volta nella sua vita, era stato scaricato.
Avrebbe superato quel difficile momento nello svago e con altre conoscenze, iniziando con la festa che ci sarebbe stata quella sera stessa in casa di Gaia.

Gli invitati arrivavano ad uno ad uno.
Donato, lo schiantatope – per questo era molto invidiato –, si guardava in giro e quando sentì la musica prese per mano Gaia per aprire le danze.
La donna, ex diggei, che amava riempire la casa di oggetti vintage, passò poi alla console casalinga: “Vecchi amori, nuovi amori” augurò a tutti mentre guardava Carlo con espressione indagatoria. Aveva saputo del ritorno di Donato e voleva osservare il comportamento dell’uomo?
«Cosa ha da guardare quella?»,
esclamò Sabrina quasi infastidita. Carlo rispose con gli occhi.
Donato si avvicinò per invitarla a ballare e la strinse a sé confermando di non aver perso la faccia tosta.
Carlo si irrigidì e si sarebbe mostrato avaro di baci e coccole per tutta la serata. La gelosia sarebbe stata la sua penitenza.
Federica e Gaia, che conoscevano tanta gente, avevano invitato proprio tutti.
Con Massimo, Sabrina ebbe un breve approccio confessionale; lo conosceva di vista e ne aveva sentito parlare non sempre bene.
Gli uomini erano tutti mascalzoni?
Massimo le piaceva, non era male, ma era dubbiosa sul personaggio. Il loro incontro si limitò ad alcune battute amichevoli con la promessa di non perdersi di vista.
La festa si stava infiammando.
Sandra e Massimo finirono di nuovo l’una nelle braccia dell’altro. Ora Sandra aveva la testa sulla spalla di lui.
Gaia era tra le braccia di Donato mentre Carlo si intratteneva con Federica.
«Bell’amica!»
sussurrò Sabrina pensando a tutte quelle volte che avevano parlato di finte amicizie impegnate nella cattiva rivalità per la supremazia.
In quel momento capiva di essere egoista ma era lei ad aver bisogno d’aiuto.

Il giorno era sembrato sorgere speranzoso; l’occasione non sarebbe mancata, ripeteva, e infatti era partita con slancio ma non ci mise molto a capire quanto era stata superficiale, precipitosa per l’ottimismo che non le aveva fatto capire, suggerito che nella vita non si può solo scegliere ma è importante essere scelte.
La serata festosa non sembrava regalarle la conclusione desiderata. In quel grande salone, le cui finestre erano state lasciate aperte per il fumo, si sentiva sola e si domandò se quello che le stava accadendo era voluto.
«Come possono le persone fare del male al loro prossimo, gioire delle sofferenze altrui, avere invidia per il successo degli altri, invece di provare pietà, compassione, avere senso di giustizia e, nel suo caso, simpatia e comprensione?» elaborò mentalmente.
Nella mano stringeva ancora un bicchiere ormai vuoto mentre lo sguardo cercava di cogliere le espressioni di quella gente che sembrava divertirsi.
Le venne in mente quello che dice Mia Wallace a Vincent Vega in Pulp Fiction di Quentin Tarantino sui silenzi che mettono a disagio... «Perché sentiamo la necessità di chiacchierare di puttanate, per sentirci a nostro agio? E’ solo allora che sai di aver trovato qualcuno di davvero speciale, quando puoi chiudere quella cazzo di bocca per un momento e condividere il silenzio in santa pace.»
Nell’ampio soggiorno il fumo diventò nebbia.
Per motivi diversi ma più degli altri, Massimo, alias Canna fumaria e Carlo, alias Cannone di Navarone, si davano da fare per aumentare nell’aria l’odore di canne e di resina.
Ogni tanto – con turni che sembravano essere stati predefiniti – qualcuno spariva per ripresentarsi euforico non certo per aver dato sollievo alla vescica.
Nei bagni e nelle camere da letto altri avevano sniffato – traditi da alcune tracce – e approfittato per una sveltina.
La situazione – già ingarbugliata – si era ulteriormente aggravata, anzi – sentimentalmente – si era azzerata.
Era arrivato il momento di crescere, di ritrovare se stessa, pensò. Questa volta senza l’aiuto di nessuno ma con la forza del proprio coraggio.
L’aiuto degli altri non era stato efficace.
Fuori, il luccichio sulle foglie e sull’asfalto, era come se le indicasse un’altra festa.
Sabrina decise di rientrare anzitempo.
Eppure era una bella ragazza: alta, elegante, sempre ben curata e occhi che ricordavano il colore del mare.
Spesso la rincorrevano le frasi di ammirazione costruite con parole prettamente maschili.
«…’fanculo tutti» fu, infine, il saluto di commiato e uscì risoluta, nonostante la pioggia battente, a cercare altre storie in una nuova vita semplice e vera, dove la gente riusciva ancora a emozionarsi, dove poter riemergere per prendere una boccata di aria fresca.



(pubblicato in data 27 ottobre 2009)

martedì 13 ottobre 2009

LA BELLA CETRIOLINA (parte 2 di 2) Favola di Francesca Pichirallo e Pasquale Bruno Di Marco

Bortolo non trovò di meglio che rivolgersi di nuovo alla zia Camillamolla, che era quella che da sempre in famiglia dispensava consigli su tutto a tutti. La zia lo tranquillizzò consigliandolo di aprire un negozio di parrucchiere:
«Caro il mio Bartolino, qui nel bosco non c’è nessuno che sappia curare i capelli di una signora. Apri un bel negozio, diventa un bravo parrucchiere e fatti una bella clientela. Vedrai che, prima o poi, anche Cetriolina verrà a farsi lavare i capelli da te e allora…»
Il sorriso che illuminò il volto di Bortolo rimase ancora per un istante nell’aria mentre lui si precipitò ad organizzare il tutto. Visto che il bosco non si trovava in Italia ma nel paese delle fiabe, il negozio di parrucchiere venne aperto la settimana dopo. Bortolo aveva un sacco di difetti, ma si rivelò un bravissimo parrucchiere e in poco tempo si fece una clientela numerosa e dovette prendere anche delle aiutanti. Un giorno finalmente si presentò la bella Cetriolina e Bortolo capì che era giunta la sua grande occasione. Ormai si faceva chiamare Lollo e parlava con un falsissimo accento francese che però alterava la sua voce. Era sicuro che Cetriolina non avrebbe riconosciuto nell’elegante parrucchiere il giovane che trovava tanto antipatico. Fece accomodare la cliente nella migliore poltrona e cominciò a servirla personalmente. Le accarezzò i capelli facendole i complimenti per la morbidezza ed il colore. Erano già belli ma con uno shampoo fatto con il suo prodotto speciale sarebbero diventati irresistibili. Cetriolina, che aveva deciso di affrontare una volta per tutte il suo bel pompiere, voleva essere al massimo del suo splendore e fu ben lieta di farsi convincere. Bartolo, anzi Lollo intanto organizzava tutto. Fece uscire le aiutanti a cui ordinò di portare fuori le clienti con la scusa di provare un effetto di acconciatura con immersione nell’ambiente naturale. Era ormai famoso per i suoi esperimenti e le clienti accettarono con entusiasmo. In realtà voleva rimanere solo con Cetriolina così quando le avrebbe messo al pozione miracolosa sulla testa l’unica persona che avrebbe potuto vedere per prima sarebbe stata la sola presente nel salone, cioè lui. Che genio che era. Fremeva tutto contento, e dopo aver inumidito i capelli della ragazza che, con gli occhi chiusi, si abbandonava alle sue cure, prese la pozione e cominciò a versarsela in una mano. Quanto ne sarebbe occorsa? Voleva essere sicuro. Il Mago aveva detto poche gocce, ma basteranno? Ancora un po’, ancora.
«Voglio essere sicuro, ancora.»
Alla fine mise più di metà boccetta sulla testa della ragazza e cominciò a fregare i capelli massaggiando contemporaneamente il cuoio capelluto. Anche lui chiuse gli occhi per assaporare quei momenti, gustandoli attimo per attimo, e già si vedeva abbracciato a lei mentre si guardano occhi negli occhi, le labbra che si avvicinano, sempre di più, piano, piano fino a che si toccano e lui finalmente avrebbe potuto sentire sulle labbra il sapore di schiuma… schiuma? Come schiuma? Bartolo spalancò gli occhi e si accorse che tutto il suo locale era invaso dalla schiuma e che ormai stava arrivando fin sopra ai suoi capelli. Anche Cetriolina gridò di spavento vedendosi sommersa da quella montagna di soffice bianchezza.
«Aiuto! Aiuto!»
Fuori le aiutanti e le clienti si accorsero di quello che stava succedendo. Fortuna che i pompieri stavano lì vicino e arrivarono in un attimo. Ignazio davanti a tutti, qualcuno gli ha detto che Cetriolina era in pericolo. Sfondò la porta e, senza indugio, si tuffò nella schiuma. Lasciandosi guidare dalla voce della ragazza, la raggiunse e la portò fuori in braccio in mezzo al prato.
«Via lasciateli soli che lei ha bisogno di aria.»
Aria, giusto. Ignazio, pompiere provetto, aveva seguito anche il corso di pronto soccorso con tanto di esame superato con il massimo dei voti. Respirazione bocca a bocca, allora. Cetriolina aprì gli occhi in quel momento e la prima persona che vide fu proprio Ignazio mentre si chinava per farle una respirazione da manuale. Che magnifica opportunità. Lei la trasformò in un bacio appassionato. Ignazio, per un attimo sorpreso, ricambiò con ardore.
Applausi liberatori di tutti che non vedevano l’ora che questi due si decidessero. Bartolo-Lollo intanto era uscito dal suo locale, pieno di schiuma e con le lacrime agli occhi. Zia Camillamolla lo prese sotto braccio e lo consolò:
«Su, nipotino. Che hai da fare quella faccia? E’ andato tutto bene no?»
«Ma zia! Come sarebbe tutto bene? Cetriolina sta lì, nelle braccia di Ignazio e io rimango senza niente»
«Senza niente? Non direi proprio. Per correre dietro a quella ragazzina hai messo in piedi un bel negozio di parrucchiere piuttosto ben avviato ormai e tu sei un artista dell’acconciatura molto ricercato. Niente male per uno che prima era uno sfaccendato che credeva di essere il principe degli gnomi ubriachi. E poi…»
«E poi?» chiese Bartolo che aveva ripreso a sorridere.
«Hai sempre da parte la tua pozione. Aspetta che arrivi una bella ragazza nel tuo negozio e stavolta… attento al dosaggio!»

fine


(pubblicato in data 13 ottobre 2009)

lunedì 5 ottobre 2009

LA BELLA CETRIOLINA (parte 1 di 2) Favola di Francesca Pichirallo e Pasquale Bruno Di Marco


La bella Cetriolina, dolce e paffuta, amava andare a pescare allo stagno delle Rane Paciose. Appena aveva un po’ di tempo libero, canna da pesca, cappello di paglia, cestino della merenda, e via di corsa sulla riva. In realtà lei non pescava affatto, si limitava a buttare in acqua la lenza a cui, invece dell’amo e dell’esca, attaccava un cartellino con su scritto “CIAO!”, che ai pesci Cetriolina voleva bene. Si stendeva sull’erba, mangiando lentamente mentre leggeva romanzi d’amore o guardava passare le nuvole. Se qualcuno veniva a salutarla con l’intenzione di mettersi a chiacchierare, lei gli faceva:
«Shhht! – mettendo il dito davanti la bocca e poi aggiungendo sottovoce – Zitto! Mi spaventi i pesci.»
E quello era costretto a rinunciare. Il sistema funzionava e Cetriolina si godeva il suo relax. Almeno sino a quando Bortolo, il principe degli gnomi beoni o almeno lui si definiva così, si invaghì di lei e cominciò a corteggiarla. Quello non lo sopportava proprio, non riusciva a stare zitto. E poi lei era innamorata di Ignazio il pompiere, di cui amava gli occhi grandi e buoni, i modi educati, e soprattutto la sua timidezza, infatti Ignazio non parlava mai o quasi. Lui sì, che sarebbe stato perfetto, chissà che belle giornate in riva allo stagno avrebbero potuto passare insieme, lei, lui e i pesci. Solo che la sua timidezza gli impediva di manifestare il suo amore. Lei era sicura che lui l’amasse ma non osava prendere l’iniziativa per paura di spaventarlo.
Bortolo, sfrontato e sfaccendato, era invece uno che non si tirava indietro ed era anche molto insistente, tanto che Cetriolina, per non vederlo, fu costretta a sospendere le sue gite allo stagno. Bortolo però non intendeva rinunciare, perché diceva in giro da sempre che nessuna aveva saputo dirgli di no e continuò a cercarla per parlare con lei. Nulla da fare, la ragazza era tanto ostinata a rifiutarsi anche solo di scambiare un saluto che il povero Bortolo diventò triste. E non è una bella cosa da vedere, un presunto principe degli gnomi ubriachi in piena crisi depressiva. Dietro consiglio della zia Camillamolla, andò a consultare un mago che, a sentire la zia, sicuramente avrebbe potuto aiutarlo. Si presentò così nello studio del grande Zuppaduva, famoso mago e incantatore, creatore di filtri magici e stornelli da serenata. Il ragazzotto spiegò il suo problema: questa bella ragazza non lo filava per nulla, forse a causa della sua bassa statura, forse del viso non proprio perfetto, forse per il fisico non proprio atletico, e qui fece una pausa sperando che il mago lo interrompesse ma quello sembrava seguisse la sua esposizione annuendo e basta. Poi il grande Zuppaduva iniziò una filippica interminabile, almeno così sembrò a Bortolo sull’amore tra due ragazzi giovani e belli, tra una ragazza giovane e bella e un ragazzo neanche troppo giovane che al massimo, con un eufemismo spericolato, si può definire un tipo, tra una ragazza giovane, bella e simpatica e un ragazzo che è meglio pestare una caccola di muflone che incontrarlo, tra una ragazza giovane, bella, simpatica, ed educata e un giovane che pensa che infilarsi un dito nel naso sia un modo divertente per dimostrare la propria disinvoltura, insomma non la finiva più. Si era infatti addormentato quando Zuppaduva lo svegliò scuotendogli il braccio per riprendere dal punto dove era arrivato, poi però il mago rifletté meglio e rinunciò perché si era ricordato del frastuono che faceva quel tipo russando. Passò quindi alle due possibili soluzioni: la prima intervenire sull’aspetto estetico e sulla personalità del soggetto interessato attraverso lunghe sedute in palestra e lezioni di stile ed eleganza, la seconda preparare una pozione che scateni l’amore tra i due soggetti. Bortolo ci rifletté a lungo, più o meno un nano secondo e decise che la seconda era senz’altro la migliore. Il mago borbottò tra sè facendo il preventivo che poi presentò al cliente il quale deglutì, sbarrò gli occhi ma rimase deciso: si realizzi la magica pozione. Il mago studiò il caso, analizzò, verifico gli ingredienti e alla fine uscì dal laboratorio con una boccetta e le istruzioni d’uso: la potentissima pozione doveva essere messa sulla testa del soggetto, il quale, non appena avrebbe sentito gli effetti, si sarebbe innamorato della prima persona che avrebbe visto.
«Sulla testa? – fece Bortolo – Ma in nessuna fiaba si è mai sentito!»
«E in questa si!» chiuse il mago mettendola alla porta.
(continua)


(pubblicato in data 5 ottobre 2009)

lunedì 28 settembre 2009

INVIA E RICEVI di Daniela Rindi


L’orologio appeso alla parete scarica i suoi secondi. Nella sala d’aspetto non c’è più nessuno. Sulle pareti stampe Impressioniste, probabilmente quelle regalate con l’inserto del quotidiano qualche anno fa. Il portatile aperto sulle ginocchia, in ricezione quarantasette mail. In fondo al corridoio sulla destra una scrivania e una segretaria, in quest’ordine. È attenta a scrivere su una vecchia agenda nera. Il computer, che pure esiste affianco a lei, è spento.

Elisa apre i messaggi di posta: pubblicità, inviti notifiche, eventi, richiesta d’amicizia, quasi tutta roba che arriva da FB. L’anti spamming non è sufficiente ad abbattere questo mostro. Di lui nessuna notizia. I lunghi capelli ricci le scivolano davanti al viso, nello scostarli si bagna la mano. Inizia a scrivere una mail, mentre il ticchettio dell’orologio a muro logora il tempo, oltre che l’anima. Entra una donna che saluta educatamente e si siede nella poltrona di fronte. Avrà una cinquantina d’anni, dieci meno di lei, è ben vestita e troppo truccata. I rossi capelli corti sono schiacciati da un cappellino, che sicuramente fa chic ma è demodé. Contenta lei.

È griffata dalla testa ai piedi, il mocassino Tod’s le fa pensare ad un grande prato all’inglese, a due Labrador, a una piscina rivestita di mosaici, a una cameriera filippina e ad un marito cornuto. Un’ ambientazione degna per quelle scarpe, dove le vede muoversi leggere, avidamente a loro agio. La signora prende elegantemente una rivista dal tavolino, accavalla le gambe e s’immerge nella lettura non degnandola di altri sguardi. Eppure ne avrebbe bisogno ora.

Sospende la mail e si connette a FB, ci casca sempre. Immagini, un capannone, una casa sul mare, applicazioni, scenografie, tavolate di amici, foto di bambini sorridenti. Sembra che le veda per la prima volta. Tira fuori un fazzoletto dalla borsa e si soffia il naso. Scrive sulla Bacheca: “Non è tutta colpa mia” e Condivide. Controlla nuovamente la posta, ancora nessun messaggio. Prende il cellulare in mano… nulla, scorre su Messaggi Inviati, rilegge mentalmente. Meglio Cancellare, Selezionare tutto e cancellare per sempre.

La signora di fronte alza finalmente lo sguardo su di lei, ma adesso è troppo tardi. Istintivamente fa ricadere i capelli sul viso.

«Scusi se mi permetto… va tutto bene?»
Le parole della donna la fanno sobbalzare, non se l’aspettava.
«Tutto bene grazie… »
«L’attesa non aiuta… »
«Già…» risponde ma una morsa le chiude lo stomaco fino a farle male.
«Io ci sono già passata. »
Continua la donna, a questo punto invadente.
«Anche io se per questo, ma ogni volta è diverso» risponde Elisa stizzita.

Riapre la mail e riprende a scrivere. Le sue dita affondano lente sulla tastiera, quasi pesassero tonnellate. Guarda ancora l’orologio, è solo passata mezz’ora. La segretaria ad un certo punto si alza, attraversa il lungo corridoio ed entra nella sala d’aspetto.

«Chi di voi è Paola. P.?»

Ma come, siamo solo noi due e non ha in mente i nostri nomi? Elisa si sofferma per un attimo sul pensiero dell’efficienza sul lavoro della maggior parte degli assunti a tempo indeterminato. La signora di fronte alza la mano come per rispondere ad un appello.

«Il dottore si scusa, ma non ha ancora ricevuto gli esiti dei suoi esami dal laboratorio e la prega di prendere un altro appuntamento.»

La signora con i capelli rossi, il suo ridicolo cappellino e la montagna di gioielli si alzano rumorosamente di scatto, afferrano la borsa e se ne vanno frettolosamente borbottando frasi incomprensibili tra i denti. Anche quelli finti.

La segretaria la guarda negli occhi e la segue impassibile. Per Elisa il dottore c’è, è pronto… almeno lui. Controlla ancora una volta la posta, nessun nuovo messaggio. Il cellulare tace. La porta dello studio si apre e appare un dottore in camice bianco, con occhialetti poggiati a metà sul naso, un piccolo binocolo sulla testa e naturalmente tutto abbronzato.
«Signorina S. , prego… si può accomodare.»

Elisa rimane impietrita sulla poltroncina con il computer ancora aperto sulle cosce. Fissa il dottore e il dito cala al rallentatore su Invia. Un attimo ed è fatta, una vita sparita, bruciata, cancellata. Chiude il computer e si alza.

«Al diavolo! Facciamoci questo Botulino… almeno sono dieci anni di meno!»
(pubblicato in data 28 settembre 2009)

lunedì 21 settembre 2009

ESSERE UNO di Anna Profumo


Questo è il periodo peggiore dell’anno. Inutile tentare la fuga, tutti malati di momentaneo buonismo. In batteria ti fermano, salutano e fanno auguri. Chiedono come stai, cosa hai fatto in questi anni, e appena provi ad accennare a qualcosa, cominciano a raccontare le disgrazie di mezza famiglia, tanto per farti sentire fortunato, solo qualche raffreddore negli ultimi tre anni. Saluti facendo: «Tanti auguri di salute a tutti». Sei lì e ascolti cortese, chiedendoti “Dove, la selezione della specie ha sbagliato?”
Tutto concertato, pochi giorni di solidale consumistico Natale.
Tornati a casa chiudono avidamente la porta e si imbottiscono di pillole per il colesterolo, gocce per l’ansia, pasticchette per il cuore e dimenticano il mondo.
Guardo con la mia faccia innocua tutte queste persone che corrono.
Aspetto lei, sono tre giorni che aspetto, comincio a preoccuparmi. La puntualità non è il suo forte ma non ha mai tardato più di due ore. Sono davanti al portone di casa sua. Qua sotto non ci sono bar, se ci fossero sarebbe più facile. Fingo di aspettare qualcuno. Devo stare attento, la gente mi guarda. Do a intendere di parlare al telefono, scendo e mi avvicino ad un portone. In genere smettono presto di diffidare ci fanno l’abitudine. Non ho un aspetto minaccioso, appaio distinto, innocuo. Quelli che incrocio più spesso li saluto, come se abitassi in zona. La gente dopo un po’ non ci fa’ più caso. Si danno sempre una spiegazione – Il padre di quella del terzo piano; qualcuno pensa l’amante della brunetta del quinto, quella che a cinquant’anni và in giro ancora con le minigonne; per altri sono l’amico di quella che porta fuori il cane e tutte le mattine compra un pacchetto di Gauloises dal tabaccaio in piazza. Per loro divento ben preso routine e io gratificato dall’attribuzione di tutte queste amicizie femminili, mi ringalluzzisco. Soprattutto gli anziani, non avendo molto da fare mi guardano dal balcone o quando escono col cane. Le vecchie così affacciate sembrano provate, le pervade una certa tristezza. Non riesco a farmele piacere, sento che incarnano la fine, non vedo futuro in loro, spente, lagnose, pesanti come se la gravità fosse accanita su loro.
Ancor più evidente quando gli passano accanto i giovani, argento vivo che rende precario il loro equilibrio. Sembrano barchette sul mare calmo a cui sfreccia vicino un motoscafo. Cominciano ad ondeggiare in balia di chissà quali correnti. E l’invidia le spinge a borbottare. Non le capisco. Un uomo come me sente la morte come sorella. Sollevatrice dalle angosce. Non mi piacciono le vecchie.
Lei non arriva, tornerò domani.
Ecco, oggi va meglio, torna presto dal lavoro. Ha gusto per molte cose. Mi piace quel suo modo di camminare, anche carica di pesi. Torna dal negozio con la borsa di tela, a volte ne ha anche due o la cassa d’acqua, tutto quel peso trasportato con dignità africana. Ai miei tempi non avrei fatto quest’esempio, le donne portavano pesi sulla testa per chilometri e sembrava che la fatica non le riguardasse. Sembravano sfiorare il suolo tanto il loro passo era leggero.
Lei me le ricorda. L’ho notata per il suo modo di vestire, si distingue, non c’è niente di lei che sembri alla moda o di tendenza, eppure si distingue. Non è di sicuro una delle tante copia-veline televisive che si vedono in giro e che piacciono tanto ai mosconi di oggi. Anzi se volete, fuori moda per i tempi che corrono, troppa carne intorno alle ossa, ma per uno dei miei tempi è un piacere per gli occhi.
Sa stare al posto suo. L’ho ascoltata raccontare all’amica del suo lavoro, non ho capito bene cosa faccia, ha una squadra a cui da ordini e comanda degli uomini. Dice che è difficile. Sa dei commenti che fanno sulle sue poppe e sul resto.
Bestie, ai tempi miei ci facevamo la corte alle donne. Non c’era malizia, le rispettavamo. Era bello corteggiarne una, ragazza o sposata che fosse, era un dovere scambiare due parole farle un complimento in amicizia, accompagnarla se andava sola per non farle accadere nulla di male.
Ai miei tempi le donne si spaccavano la schiena come ha fatto mia moglie allevando i figli e andando a servizio per arrotondare il mio stipendio. Ricordo le sue mani, il nero sotto le unghie anche se le strofinava fino a farle diventare rosse.
Questa è una signora, come tante donne oggi. Le mani sono curate, pittura le unghie con un lucido naturale niente di sgargiante. Sono belle le mani delle donne oggi. Se penso a una carezza, penso a certe signorine dei tempi miei. Morbide manine senza calli.
Il volto ovale assume un taglio duro con i capelli lunghi legati stretti in una coda alta. Veste abiti neri a cui concede il colore di un foulard o di una sciarpa. Queste mi hanno colpito.
Foulard e cravatte, ne ho una vera passione, mia moglie non capiva perché spendessi tanti soldi per una cravatta. Ero capace di lucidare per anni le stesse scarpe, fino a consumarne la tomaia pur di conservare i soldi per comprare quella che mi piaceva. E che figurone ci facevo quando andavamo a ballare, il barone mi chiamavano. Mi piaceva avere l’attenzione della sala, la sua bella figura che volteggiava tra le mie braccia ed i miei foulard. Per questo apprezzo chi ha gusto nel coprire il collo. Lei ha un bel collo da coprire. E io continuo a spendere soldi per coprire il mio.
Voi pensate che debba essere un po’ innamorato di lei, tanto ne parlo. Sciocchi, chiaro che mi piace ma non è come pensate.
Seduto accanto al suo gruppo di amici li ascolto programmare la serata, non ha un ragazzo è sola. Meglio, tutti imbecilli. Con due non ne fai uno buono.
Lei dice di no, con le amiche insiste, hanno tante qualità vanno incoraggiati. Dice che le donne di oggi li spaventano.
Stronzate, sono dei mollaccioni. Un invettiva in piazza mi verrebbe da fare. Ma si è mai visto? Ma che credono sia la vita? Una città dei balocchi eterna. Poi si lamentano di quel dolore e noia che sentono. Questi rimandano la vita, soffrono convinti che sia così che si deve fare, si fanno scappare gl’anni così. I sogni li fanno ammuffire questi coglioni.
Meno male che ho avuto tutte femmine. Per digerire i loro mariti c’ho messo anni ma almeno si impegnano, si danno da fare per i figli. In tanti anni ho capito, come disse Biagi - il giornalista - «Il momento del coglione capita a tutti.»
«Aspettiamo che passi.» Questo dicevo sempre alle mie figlie.
Che ci sto a fare ancora qua sotto? Solo. Per farle compagnia. E lei non sa neanche che esisto. Penserà anche lei che sono un suo vicino, ha cominciato a rispondere al mio saluto. Buongiorno e buonasera. L’altra sera l’ho vista che scendeva con le buste dell’immondizia, fa la differenziata, brava ragazza. Ho avuto un colpo di genio, al volo ho raccolto le buste lasciate a terra, la lattina di chinotto e il pacchetto di carta che quel cretino con il suv ha lanciato in terra prima di sparire dietro l’angolo. E mi sono avvicinato ai secchioni. Lei mi ha visto che raccoglievo il pacchetto da terra. «Non lo farebbero tutti, lei è fuori dal comune, complimenti per il gesto». Così da vicino la vedo meglio, gli occhi dello stesso colore della madre. Resto un po’ impacciato, lei se ne accorge e mi sorride. Una macchina si avvicina, lei fa’ cenno che arriva.
«Arrivederci» saluta lei. «Arrivederci» dico io.
«Piccola mia», avrei voluto dire invece. Mi accarezzo il foulard, stasera lo avevamo dello stesso colore.
(pubblicato in data 21 settembre 2009)

lunedì 14 settembre 2009

LA MADRE DEL RAGIONIERE UMBERTO Storia di città virtuali e di fantasmi di Aldo Ardetti


Abito in un quartiere semicentrale e quando mi chiedevano in quale zona, rispondevo: «Al Colosseo», per la forma semicircolare del palazzo che ricorda l’anfiteatro Flavio. Anni fa era terra di elettrodotti nella nebbia, di stagni gracidanti e orti di cicorie; poi c’hanno costruito un grande centro commerciale e tirato su pure due grattacielo uno dei quali risulta essere il più alto d’Italia per cui, quando mi chiedono dove abito, adesso dico: «Vivo nel quartiere Manhattan», il quartiere dei palazzi moderni che non suscitano ricordi né alcuna memoria storica.
Nel centro commerciale operano tutte le attività possibili: studi di professionisti e uffici di società di servizi ma è diventato anche una città che la gente raggiunge per fare compere, per trascorrere il tempo davanti alle vetrine, portare i bambini – i propri figli – a degustare gastronomia macdonald.
E’ un paese virtuale anche per vecchi.
I pensionati si siedono sulle panchine – possibilmente ai lati, distanti tra loro – senza guardarsi, senza parlarsi, senza girarsi … muti e solinghi in un mare di triste solitudine, con gli occhi che cercano nel vuoto.
Eppure una volta ci si vantava del territorio, delle gite ‘fuoriporta’ al mare, ai laghi, sui monti – e tutto a portata di mano, ad un tiro di schioppo.
E’ evidente che, da queste parti, il paradiso terrestre non è più considerato, non va più di moda.

Ci si incontrava abitualmente nel tardo pomeriggio, in prossimità delle scadenze fiscali.
Tutta la vita aveva fatto il ragioniere.
Ora si manteneva in esercizio arrotondando la pensione.
Quel pomeriggio entrò in casa e si diresse sudaticcio verso la sua sedia.
Aveva il viso imperlato di sudore e leggermente in affanno. Se la faceva a piedi – nonostante fosse quasi più largo che alto – per mantenere in forma sia la mente che il fisico, diceva.
Veniva da lontano, da un nuovo quartiere periferico col quale la città si espande verso il mare.
Dopo aver parlato di numeri e fatto di conto, l’incontro veniva concluso con la discussione di un argomento salottiero e delle notizie dell’ultima edizione del tiggì.
Con me si trovava bene perché, ripeteva, ero un buon cliente: non ero parsimonioso come altri; e di qualcuno faceva anche il nome.

Quella volta avvertii continue esitazioni nel suo parlare che di solito era chiaro, sicuro e ragionato.
Lo avevo notato altre volte come se Umberto, questo il suo nome, volesse confessare qualcosa che non riusciva a nascondere, che gli pesasse in un angolo profondo della coscienza.
Non tardò a prendere coraggio per far tracimare ulteriori parole.
«Cre-credo di vedere mia madre.»
«Vedi tua madre? Mi hai sempre detto che l’hai persa anni fa.»
«Sì, ma ti dico che l’ho vista.»
«E in quale sogno sarebbe avvenuto l’incontro?» risposi ironico.
«Sogno? La vedo al mercato settimanale.»
«La vedi o l’hai vista?»
«La vedo da tempo. Non è la prima volta.»
«Umbe’ – venne spontanea l’esclamazione confidenziale – ti rendi conto di quello che stai dicendo? Vuoi impressionarmi o ti si sta avariando il cervello?»
«Nooo-o, l’ho vistaaa! Era lei, mi ha sorriso e mi ha salutato con la mano. Mi faceva così... » e imitò con la mano il movimento dei tergicristalli delle automobili.
«E tu... ?»
«Sono rimasto come paralizzato, imbambolato.
Poi le ho fatto un cenno di fermarsi ma è sparita nel fiume di persone. Aveva l’aspetto di come la ricordavo.
Non parla, si limita a sorridermi. Solo in una occasione mi è passata vicino, superandomi. Ho avuto la sensazione che trapassasse il mio corpo per girarsi verso di me dopo qualche metro. Probabilmente per mostrare il viso e farsi riconoscere.»
«A ragionie’, con tutto il rispetto ma è assurdo quello che sto ascoltando.»
«Capisco, ma ti assicuro che non sono andato fuori di testa. Tu non vuoi credermi. Il tuo scetticismo non ti permette di credere ma si tratta di mia madre. Per me è un evento eccezionale, importante. E’ tornare indietro nel tempo e mi dà certezze, sicurezze per il futuro.»
« ...io devo credere per farti contento?»
«Volevo che tu sapessi! Solo questo, raccontarlo a qualcuno per non tenere per me questo segreto così pesante ma straordinario. Forse anche per... »

Non volle finire la frase ma immaginai cosa desiderava dire e notai lo sforzo per completarla mentalmente.
«Adesso cosa intendi fare?» chiesi.
«Nulla, mi basta credere in quello che ho visto e sapere che continuerò a vederla. Pensare che qualcosa continua dopo di noi.»

Capita anche a me di andare al mercato.
Ci sono cresciuto con gli stracci americani ammonticchiati sui banchi. C’è un reparto apposta.
Mi aggiravo nella babele di mercanzia mentre si erano presentati pioggia e vento, quando venni urtato da una donna di una certa età.
Il fatto si ripeté e non seppi trattenermi:
«Signora, che diamine!»
«Mi scusi ma non sapevo come attirare la sua attenzione.»
«Bastava rivolgermi la parola, cosa vuole da me?»
«E’ bravo il mio Umbertino?»
«Umbertino?»
«Il suo amico ragioniere.»
«Ma se ha più di settant’anni.»
«Lo so e tra un po’ mi verrà a trovare.»
«Scusi, non vorrei essere scortese, ma lei chi è?»
«Non è importante. Mi raccomando, me lo saluti.»
«Perché non lo fa lei stessa?»
«Non mi è permesso.»
«Scusi non capisco, proprio non afferro.»
«Non si preoccupi, riferisca. Umbertino mi conosce molto bene. Oh, sì, mi conosce molto bene.»
Dopodiché la donna si dileguò in gran fretta.

Quando rientrai in casa mi diressi verso la doccia lasciando tracce con i miei vestiti.
Indispettito dalle parole e dal comportamento strano di quella donna, desideravo tornare alla mia realtà facendo finta che nulla fosse accaduto.
Infine, seduto in poltrona mi concedevo un abbandono rilassante cercando – inutilmente – di scacciare pensieri, domande e risposte che transitavano veloci e incontrollate.

Dopo qualche giorno Umberto tornò per consegnarmi i moduli compilati, pronti per essere inoltrati.
Con mano tremolante mi mostrò una fotografia.
«Questa è mia madre.»
Restai senza respiro, immobile con gli occhi e tutto il resto del corpo.
«Questa persona io l’ho vista al mercato e c’ho anche parlato.»
«Davvero, e cosa ti ha detto? Raccontami.»
«Mi ha chiesto di te, di salutarti. Sapeva che ci conosciamo.»
«Ora sei convinto che ti ho detto la verità? Non mi sono rincoglionito – disse proprio così – e non devo preoccuparmi di quello che può pensare la gente.»
«Tutti abbiamo bisogno di vivere anche di fantasia e spesso trasferirci su qualche nuvola», pensai tra me e me non volendo cedere nonostante tutto.

Umberto andò via soddisfatto con il compiacimento e l’orgoglio che in quel momento poteva mostrare.
Un martedì – giorno di mercato settimanale – mentre il sole era a mezzogiorno e abiti e tessuti chiari appesi ai tendoni amplificavano la luce dalla quale le retine del popolo di avventori cercavano di difendersi, Umberto stramazzò a terra.
Cadde con il braccio teso e la mano aperta come a indicare qualcosa. Sul viso era abbozzato un sorriso misto a sorpresa e meraviglia.
Così Umberto aveva raggiunto sua madre.
E questa è una storia vera.

(pubblicato in data 14 settembre 2009)