lunedì 28 settembre 2009

INVIA E RICEVI di Daniela Rindi


L’orologio appeso alla parete scarica i suoi secondi. Nella sala d’aspetto non c’è più nessuno. Sulle pareti stampe Impressioniste, probabilmente quelle regalate con l’inserto del quotidiano qualche anno fa. Il portatile aperto sulle ginocchia, in ricezione quarantasette mail. In fondo al corridoio sulla destra una scrivania e una segretaria, in quest’ordine. È attenta a scrivere su una vecchia agenda nera. Il computer, che pure esiste affianco a lei, è spento.

Elisa apre i messaggi di posta: pubblicità, inviti notifiche, eventi, richiesta d’amicizia, quasi tutta roba che arriva da FB. L’anti spamming non è sufficiente ad abbattere questo mostro. Di lui nessuna notizia. I lunghi capelli ricci le scivolano davanti al viso, nello scostarli si bagna la mano. Inizia a scrivere una mail, mentre il ticchettio dell’orologio a muro logora il tempo, oltre che l’anima. Entra una donna che saluta educatamente e si siede nella poltrona di fronte. Avrà una cinquantina d’anni, dieci meno di lei, è ben vestita e troppo truccata. I rossi capelli corti sono schiacciati da un cappellino, che sicuramente fa chic ma è demodé. Contenta lei.

È griffata dalla testa ai piedi, il mocassino Tod’s le fa pensare ad un grande prato all’inglese, a due Labrador, a una piscina rivestita di mosaici, a una cameriera filippina e ad un marito cornuto. Un’ ambientazione degna per quelle scarpe, dove le vede muoversi leggere, avidamente a loro agio. La signora prende elegantemente una rivista dal tavolino, accavalla le gambe e s’immerge nella lettura non degnandola di altri sguardi. Eppure ne avrebbe bisogno ora.

Sospende la mail e si connette a FB, ci casca sempre. Immagini, un capannone, una casa sul mare, applicazioni, scenografie, tavolate di amici, foto di bambini sorridenti. Sembra che le veda per la prima volta. Tira fuori un fazzoletto dalla borsa e si soffia il naso. Scrive sulla Bacheca: “Non è tutta colpa mia” e Condivide. Controlla nuovamente la posta, ancora nessun messaggio. Prende il cellulare in mano… nulla, scorre su Messaggi Inviati, rilegge mentalmente. Meglio Cancellare, Selezionare tutto e cancellare per sempre.

La signora di fronte alza finalmente lo sguardo su di lei, ma adesso è troppo tardi. Istintivamente fa ricadere i capelli sul viso.

«Scusi se mi permetto… va tutto bene?»
Le parole della donna la fanno sobbalzare, non se l’aspettava.
«Tutto bene grazie… »
«L’attesa non aiuta… »
«Già…» risponde ma una morsa le chiude lo stomaco fino a farle male.
«Io ci sono già passata. »
Continua la donna, a questo punto invadente.
«Anche io se per questo, ma ogni volta è diverso» risponde Elisa stizzita.

Riapre la mail e riprende a scrivere. Le sue dita affondano lente sulla tastiera, quasi pesassero tonnellate. Guarda ancora l’orologio, è solo passata mezz’ora. La segretaria ad un certo punto si alza, attraversa il lungo corridoio ed entra nella sala d’aspetto.

«Chi di voi è Paola. P.?»

Ma come, siamo solo noi due e non ha in mente i nostri nomi? Elisa si sofferma per un attimo sul pensiero dell’efficienza sul lavoro della maggior parte degli assunti a tempo indeterminato. La signora di fronte alza la mano come per rispondere ad un appello.

«Il dottore si scusa, ma non ha ancora ricevuto gli esiti dei suoi esami dal laboratorio e la prega di prendere un altro appuntamento.»

La signora con i capelli rossi, il suo ridicolo cappellino e la montagna di gioielli si alzano rumorosamente di scatto, afferrano la borsa e se ne vanno frettolosamente borbottando frasi incomprensibili tra i denti. Anche quelli finti.

La segretaria la guarda negli occhi e la segue impassibile. Per Elisa il dottore c’è, è pronto… almeno lui. Controlla ancora una volta la posta, nessun nuovo messaggio. Il cellulare tace. La porta dello studio si apre e appare un dottore in camice bianco, con occhialetti poggiati a metà sul naso, un piccolo binocolo sulla testa e naturalmente tutto abbronzato.
«Signorina S. , prego… si può accomodare.»

Elisa rimane impietrita sulla poltroncina con il computer ancora aperto sulle cosce. Fissa il dottore e il dito cala al rallentatore su Invia. Un attimo ed è fatta, una vita sparita, bruciata, cancellata. Chiude il computer e si alza.

«Al diavolo! Facciamoci questo Botulino… almeno sono dieci anni di meno!»
(pubblicato in data 28 settembre 2009)

lunedì 21 settembre 2009

ESSERE UNO di Anna Profumo


Questo è il periodo peggiore dell’anno. Inutile tentare la fuga, tutti malati di momentaneo buonismo. In batteria ti fermano, salutano e fanno auguri. Chiedono come stai, cosa hai fatto in questi anni, e appena provi ad accennare a qualcosa, cominciano a raccontare le disgrazie di mezza famiglia, tanto per farti sentire fortunato, solo qualche raffreddore negli ultimi tre anni. Saluti facendo: «Tanti auguri di salute a tutti». Sei lì e ascolti cortese, chiedendoti “Dove, la selezione della specie ha sbagliato?”
Tutto concertato, pochi giorni di solidale consumistico Natale.
Tornati a casa chiudono avidamente la porta e si imbottiscono di pillole per il colesterolo, gocce per l’ansia, pasticchette per il cuore e dimenticano il mondo.
Guardo con la mia faccia innocua tutte queste persone che corrono.
Aspetto lei, sono tre giorni che aspetto, comincio a preoccuparmi. La puntualità non è il suo forte ma non ha mai tardato più di due ore. Sono davanti al portone di casa sua. Qua sotto non ci sono bar, se ci fossero sarebbe più facile. Fingo di aspettare qualcuno. Devo stare attento, la gente mi guarda. Do a intendere di parlare al telefono, scendo e mi avvicino ad un portone. In genere smettono presto di diffidare ci fanno l’abitudine. Non ho un aspetto minaccioso, appaio distinto, innocuo. Quelli che incrocio più spesso li saluto, come se abitassi in zona. La gente dopo un po’ non ci fa’ più caso. Si danno sempre una spiegazione – Il padre di quella del terzo piano; qualcuno pensa l’amante della brunetta del quinto, quella che a cinquant’anni và in giro ancora con le minigonne; per altri sono l’amico di quella che porta fuori il cane e tutte le mattine compra un pacchetto di Gauloises dal tabaccaio in piazza. Per loro divento ben preso routine e io gratificato dall’attribuzione di tutte queste amicizie femminili, mi ringalluzzisco. Soprattutto gli anziani, non avendo molto da fare mi guardano dal balcone o quando escono col cane. Le vecchie così affacciate sembrano provate, le pervade una certa tristezza. Non riesco a farmele piacere, sento che incarnano la fine, non vedo futuro in loro, spente, lagnose, pesanti come se la gravità fosse accanita su loro.
Ancor più evidente quando gli passano accanto i giovani, argento vivo che rende precario il loro equilibrio. Sembrano barchette sul mare calmo a cui sfreccia vicino un motoscafo. Cominciano ad ondeggiare in balia di chissà quali correnti. E l’invidia le spinge a borbottare. Non le capisco. Un uomo come me sente la morte come sorella. Sollevatrice dalle angosce. Non mi piacciono le vecchie.
Lei non arriva, tornerò domani.
Ecco, oggi va meglio, torna presto dal lavoro. Ha gusto per molte cose. Mi piace quel suo modo di camminare, anche carica di pesi. Torna dal negozio con la borsa di tela, a volte ne ha anche due o la cassa d’acqua, tutto quel peso trasportato con dignità africana. Ai miei tempi non avrei fatto quest’esempio, le donne portavano pesi sulla testa per chilometri e sembrava che la fatica non le riguardasse. Sembravano sfiorare il suolo tanto il loro passo era leggero.
Lei me le ricorda. L’ho notata per il suo modo di vestire, si distingue, non c’è niente di lei che sembri alla moda o di tendenza, eppure si distingue. Non è di sicuro una delle tante copia-veline televisive che si vedono in giro e che piacciono tanto ai mosconi di oggi. Anzi se volete, fuori moda per i tempi che corrono, troppa carne intorno alle ossa, ma per uno dei miei tempi è un piacere per gli occhi.
Sa stare al posto suo. L’ho ascoltata raccontare all’amica del suo lavoro, non ho capito bene cosa faccia, ha una squadra a cui da ordini e comanda degli uomini. Dice che è difficile. Sa dei commenti che fanno sulle sue poppe e sul resto.
Bestie, ai tempi miei ci facevamo la corte alle donne. Non c’era malizia, le rispettavamo. Era bello corteggiarne una, ragazza o sposata che fosse, era un dovere scambiare due parole farle un complimento in amicizia, accompagnarla se andava sola per non farle accadere nulla di male.
Ai miei tempi le donne si spaccavano la schiena come ha fatto mia moglie allevando i figli e andando a servizio per arrotondare il mio stipendio. Ricordo le sue mani, il nero sotto le unghie anche se le strofinava fino a farle diventare rosse.
Questa è una signora, come tante donne oggi. Le mani sono curate, pittura le unghie con un lucido naturale niente di sgargiante. Sono belle le mani delle donne oggi. Se penso a una carezza, penso a certe signorine dei tempi miei. Morbide manine senza calli.
Il volto ovale assume un taglio duro con i capelli lunghi legati stretti in una coda alta. Veste abiti neri a cui concede il colore di un foulard o di una sciarpa. Queste mi hanno colpito.
Foulard e cravatte, ne ho una vera passione, mia moglie non capiva perché spendessi tanti soldi per una cravatta. Ero capace di lucidare per anni le stesse scarpe, fino a consumarne la tomaia pur di conservare i soldi per comprare quella che mi piaceva. E che figurone ci facevo quando andavamo a ballare, il barone mi chiamavano. Mi piaceva avere l’attenzione della sala, la sua bella figura che volteggiava tra le mie braccia ed i miei foulard. Per questo apprezzo chi ha gusto nel coprire il collo. Lei ha un bel collo da coprire. E io continuo a spendere soldi per coprire il mio.
Voi pensate che debba essere un po’ innamorato di lei, tanto ne parlo. Sciocchi, chiaro che mi piace ma non è come pensate.
Seduto accanto al suo gruppo di amici li ascolto programmare la serata, non ha un ragazzo è sola. Meglio, tutti imbecilli. Con due non ne fai uno buono.
Lei dice di no, con le amiche insiste, hanno tante qualità vanno incoraggiati. Dice che le donne di oggi li spaventano.
Stronzate, sono dei mollaccioni. Un invettiva in piazza mi verrebbe da fare. Ma si è mai visto? Ma che credono sia la vita? Una città dei balocchi eterna. Poi si lamentano di quel dolore e noia che sentono. Questi rimandano la vita, soffrono convinti che sia così che si deve fare, si fanno scappare gl’anni così. I sogni li fanno ammuffire questi coglioni.
Meno male che ho avuto tutte femmine. Per digerire i loro mariti c’ho messo anni ma almeno si impegnano, si danno da fare per i figli. In tanti anni ho capito, come disse Biagi - il giornalista - «Il momento del coglione capita a tutti.»
«Aspettiamo che passi.» Questo dicevo sempre alle mie figlie.
Che ci sto a fare ancora qua sotto? Solo. Per farle compagnia. E lei non sa neanche che esisto. Penserà anche lei che sono un suo vicino, ha cominciato a rispondere al mio saluto. Buongiorno e buonasera. L’altra sera l’ho vista che scendeva con le buste dell’immondizia, fa la differenziata, brava ragazza. Ho avuto un colpo di genio, al volo ho raccolto le buste lasciate a terra, la lattina di chinotto e il pacchetto di carta che quel cretino con il suv ha lanciato in terra prima di sparire dietro l’angolo. E mi sono avvicinato ai secchioni. Lei mi ha visto che raccoglievo il pacchetto da terra. «Non lo farebbero tutti, lei è fuori dal comune, complimenti per il gesto». Così da vicino la vedo meglio, gli occhi dello stesso colore della madre. Resto un po’ impacciato, lei se ne accorge e mi sorride. Una macchina si avvicina, lei fa’ cenno che arriva.
«Arrivederci» saluta lei. «Arrivederci» dico io.
«Piccola mia», avrei voluto dire invece. Mi accarezzo il foulard, stasera lo avevamo dello stesso colore.
(pubblicato in data 21 settembre 2009)

lunedì 14 settembre 2009

LA MADRE DEL RAGIONIERE UMBERTO Storia di città virtuali e di fantasmi di Aldo Ardetti


Abito in un quartiere semicentrale e quando mi chiedevano in quale zona, rispondevo: «Al Colosseo», per la forma semicircolare del palazzo che ricorda l’anfiteatro Flavio. Anni fa era terra di elettrodotti nella nebbia, di stagni gracidanti e orti di cicorie; poi c’hanno costruito un grande centro commerciale e tirato su pure due grattacielo uno dei quali risulta essere il più alto d’Italia per cui, quando mi chiedono dove abito, adesso dico: «Vivo nel quartiere Manhattan», il quartiere dei palazzi moderni che non suscitano ricordi né alcuna memoria storica.
Nel centro commerciale operano tutte le attività possibili: studi di professionisti e uffici di società di servizi ma è diventato anche una città che la gente raggiunge per fare compere, per trascorrere il tempo davanti alle vetrine, portare i bambini – i propri figli – a degustare gastronomia macdonald.
E’ un paese virtuale anche per vecchi.
I pensionati si siedono sulle panchine – possibilmente ai lati, distanti tra loro – senza guardarsi, senza parlarsi, senza girarsi … muti e solinghi in un mare di triste solitudine, con gli occhi che cercano nel vuoto.
Eppure una volta ci si vantava del territorio, delle gite ‘fuoriporta’ al mare, ai laghi, sui monti – e tutto a portata di mano, ad un tiro di schioppo.
E’ evidente che, da queste parti, il paradiso terrestre non è più considerato, non va più di moda.

Ci si incontrava abitualmente nel tardo pomeriggio, in prossimità delle scadenze fiscali.
Tutta la vita aveva fatto il ragioniere.
Ora si manteneva in esercizio arrotondando la pensione.
Quel pomeriggio entrò in casa e si diresse sudaticcio verso la sua sedia.
Aveva il viso imperlato di sudore e leggermente in affanno. Se la faceva a piedi – nonostante fosse quasi più largo che alto – per mantenere in forma sia la mente che il fisico, diceva.
Veniva da lontano, da un nuovo quartiere periferico col quale la città si espande verso il mare.
Dopo aver parlato di numeri e fatto di conto, l’incontro veniva concluso con la discussione di un argomento salottiero e delle notizie dell’ultima edizione del tiggì.
Con me si trovava bene perché, ripeteva, ero un buon cliente: non ero parsimonioso come altri; e di qualcuno faceva anche il nome.

Quella volta avvertii continue esitazioni nel suo parlare che di solito era chiaro, sicuro e ragionato.
Lo avevo notato altre volte come se Umberto, questo il suo nome, volesse confessare qualcosa che non riusciva a nascondere, che gli pesasse in un angolo profondo della coscienza.
Non tardò a prendere coraggio per far tracimare ulteriori parole.
«Cre-credo di vedere mia madre.»
«Vedi tua madre? Mi hai sempre detto che l’hai persa anni fa.»
«Sì, ma ti dico che l’ho vista.»
«E in quale sogno sarebbe avvenuto l’incontro?» risposi ironico.
«Sogno? La vedo al mercato settimanale.»
«La vedi o l’hai vista?»
«La vedo da tempo. Non è la prima volta.»
«Umbe’ – venne spontanea l’esclamazione confidenziale – ti rendi conto di quello che stai dicendo? Vuoi impressionarmi o ti si sta avariando il cervello?»
«Nooo-o, l’ho vistaaa! Era lei, mi ha sorriso e mi ha salutato con la mano. Mi faceva così... » e imitò con la mano il movimento dei tergicristalli delle automobili.
«E tu... ?»
«Sono rimasto come paralizzato, imbambolato.
Poi le ho fatto un cenno di fermarsi ma è sparita nel fiume di persone. Aveva l’aspetto di come la ricordavo.
Non parla, si limita a sorridermi. Solo in una occasione mi è passata vicino, superandomi. Ho avuto la sensazione che trapassasse il mio corpo per girarsi verso di me dopo qualche metro. Probabilmente per mostrare il viso e farsi riconoscere.»
«A ragionie’, con tutto il rispetto ma è assurdo quello che sto ascoltando.»
«Capisco, ma ti assicuro che non sono andato fuori di testa. Tu non vuoi credermi. Il tuo scetticismo non ti permette di credere ma si tratta di mia madre. Per me è un evento eccezionale, importante. E’ tornare indietro nel tempo e mi dà certezze, sicurezze per il futuro.»
« ...io devo credere per farti contento?»
«Volevo che tu sapessi! Solo questo, raccontarlo a qualcuno per non tenere per me questo segreto così pesante ma straordinario. Forse anche per... »

Non volle finire la frase ma immaginai cosa desiderava dire e notai lo sforzo per completarla mentalmente.
«Adesso cosa intendi fare?» chiesi.
«Nulla, mi basta credere in quello che ho visto e sapere che continuerò a vederla. Pensare che qualcosa continua dopo di noi.»

Capita anche a me di andare al mercato.
Ci sono cresciuto con gli stracci americani ammonticchiati sui banchi. C’è un reparto apposta.
Mi aggiravo nella babele di mercanzia mentre si erano presentati pioggia e vento, quando venni urtato da una donna di una certa età.
Il fatto si ripeté e non seppi trattenermi:
«Signora, che diamine!»
«Mi scusi ma non sapevo come attirare la sua attenzione.»
«Bastava rivolgermi la parola, cosa vuole da me?»
«E’ bravo il mio Umbertino?»
«Umbertino?»
«Il suo amico ragioniere.»
«Ma se ha più di settant’anni.»
«Lo so e tra un po’ mi verrà a trovare.»
«Scusi, non vorrei essere scortese, ma lei chi è?»
«Non è importante. Mi raccomando, me lo saluti.»
«Perché non lo fa lei stessa?»
«Non mi è permesso.»
«Scusi non capisco, proprio non afferro.»
«Non si preoccupi, riferisca. Umbertino mi conosce molto bene. Oh, sì, mi conosce molto bene.»
Dopodiché la donna si dileguò in gran fretta.

Quando rientrai in casa mi diressi verso la doccia lasciando tracce con i miei vestiti.
Indispettito dalle parole e dal comportamento strano di quella donna, desideravo tornare alla mia realtà facendo finta che nulla fosse accaduto.
Infine, seduto in poltrona mi concedevo un abbandono rilassante cercando – inutilmente – di scacciare pensieri, domande e risposte che transitavano veloci e incontrollate.

Dopo qualche giorno Umberto tornò per consegnarmi i moduli compilati, pronti per essere inoltrati.
Con mano tremolante mi mostrò una fotografia.
«Questa è mia madre.»
Restai senza respiro, immobile con gli occhi e tutto il resto del corpo.
«Questa persona io l’ho vista al mercato e c’ho anche parlato.»
«Davvero, e cosa ti ha detto? Raccontami.»
«Mi ha chiesto di te, di salutarti. Sapeva che ci conosciamo.»
«Ora sei convinto che ti ho detto la verità? Non mi sono rincoglionito – disse proprio così – e non devo preoccuparmi di quello che può pensare la gente.»
«Tutti abbiamo bisogno di vivere anche di fantasia e spesso trasferirci su qualche nuvola», pensai tra me e me non volendo cedere nonostante tutto.

Umberto andò via soddisfatto con il compiacimento e l’orgoglio che in quel momento poteva mostrare.
Un martedì – giorno di mercato settimanale – mentre il sole era a mezzogiorno e abiti e tessuti chiari appesi ai tendoni amplificavano la luce dalla quale le retine del popolo di avventori cercavano di difendersi, Umberto stramazzò a terra.
Cadde con il braccio teso e la mano aperta come a indicare qualcosa. Sul viso era abbozzato un sorriso misto a sorpresa e meraviglia.
Così Umberto aveva raggiunto sua madre.
E questa è una storia vera.

(pubblicato in data 14 settembre 2009)

lunedì 7 settembre 2009

UN RICORDO SOPITO di Pasquale Bruno di Marco


Spengo la luce, sto per alzarmi dal tavolo di lavoro e tornare a casa, quando un ricordo mi affiora alla mente improvviso, netto, senza nessun motivo apparente. Le immagini si stagliano nitide nella mia memoria, quasi si impongono.
Rimango seduto e rivivo la scena, come fosse un film, fotogramma per fotogramma. Del resto fare film è da sempre il mio lavoro.
E’ stato venti anni fa, esattamente venti anni fa.

Rivedo la segretaria di allora che mi annuncia questa persona che voleva propormi una idea. Già allora il mio ruolo era quello di valutare le proposte per le nuove produzioni e concessi qualche minuto.
Quello strano tipo, piuttosto anonimo e vagamente sovraeccitato, voleva parlarmi di quella che, secondo lui, sarebbe stata un’idea eccezionale per un film, un colossal tipo catastrofico-antascientifico.
Piuttosto scettico, gli chiesi di esporre brevemente il plot che ero atteso per una riunione e quello, con uno sguardo allucinato, cominciò con la descrizione della prima scena: alba su New York, panoramica sullo skyline della città in controluce sul cielo rosato e in sottofondo una musica serena e rassicurante.

«Magari la Rapsodia in blue di Gershwin, come la scena iniziale dell’ultimo film di Woody Allen»
ironizzai cercando di smontare quell’aria mistica che aveva assunto infastidendomi non poco.
Quello senza scomporsi, rapito dalla sua visione, continuò a descrivere come, improvvisamente, un jumbo sarebbe entrato nell’inquadratura con un rombo spaventoso andandosi a schiantare contro la torre nord del WTC.
Una enorme esplosione infuocata, pochi secondi e un altro jumbo avrebbe centrato l’altra torre. Altra enorme palla di fuoco.
Urla, fiamme, folla impazzita per strada, traffico nel caos.
Mentre i due edifici crollavano rovinosamente delle voci fuoricampo, tipo edizioni speciale del telegiornale, avrebbero annunciato di altri aerei contro il Pentagono e magari contro la Casa Bianca.
Gli chiesi se, nella sua visione, la Pan American avesse dichiarato guerra agli USA ma lui di nuovo non raccolse continuando a descrivere la sua visione apocalittica, insistendo in modo maniacale sui dettagli del crollo delle due torri.
Allora, brusco, gli feci notare che la sua idea era totalmente inverosimile.

«Ma caro amico, lo sanno tutti che, a causa degli incidenti verificatesi in passato, le torri sono state progettate per resistere agli impatti aerei, altrimenti nessuna assicurazione li coprirebbe e poi, mi scusi, ma chiunque, anche uno sprovveduto è a conoscenza del fatto che gli Usa hanno la flotta aerea migliore del mondo a proteggere il proprio territorio. Non consentirebbero una cosa del genere.»

Ma quello continuò a esporre quello che solo la sua mente, che a questo punto mi sentivo di definire malata, vedeva farneticando di terroristi arabi in versione suicida, neanche fossero dei kamikaze giapponesi, di un presidente Usa che da mezza figura diventa il capo indiscusso di una nuova crociata, di demolizioni controllata di edifici, di complotti e cospirazioni, di dichiarazioni di guerra ad un paese straniero accusato di possedere fantomatiche armi di distruzione di massa.
E di scene di bombardamenti notturni con l’oscurità segnata da riflettori e proiettili traccianti e di battaglie nel deserto con i pozzi di petrolio in fiamme sullo sfondo.
Bloccai il suo delirio e, calmo ma risoluto, gli dissi che lui era totalmente pazzo e che io non avrei più ascoltato quelle farneticanti follie, totalmente infondate e assolutamente non plausibili.
Mi aspettavo una reazione violenta.
Mi aspettavo urla e strepiti e, mano sul telefono interno, ero pronto a chiamare gli addetti alla sicurezza.
Quello invece tacque e mi sorrise.
Restò così tranquillo qualche minuto poi mormorò:
«Tra venti anni»
Quindi si alzò pacato, aprì la porta, chiuse e andò via.
Mai più rivisto.

Un ricordo completamente sopito che mi sale alla memoria in maniera così prepotente e lucida.
Proprio ora.
Chissà perché.
Sarà che sono passati esattamente venti anni.
Sarà che adesso il mio ufficio è al piano 87° della torre nord del WTC, ma sento una sensazione di angoscia serpeggiarmi dentro e mi manca l’aria.
Tremo.
E’ la stanchezza, decido.
Meglio che vada a riposare prima che sia io ad impazzire sul serio.
Domani è già 11, ho tanto lavoro da fare.



(pubblicato in data 7 settembre 2009)