domenica 30 maggio 2010

LA STRADA di P.A.R.A.D.



«Assassini!» urla il folle.
«Cavolo, già le otto!», invece sono ancora le sei. Tutte le mattine ci dà la sveglia, affacciandosi al balcone e benedicendo la comunità con il suo personale saluto, come un muezzin dal minareto. Gli siamo affezionati, ha conquistato il perdono di tutti quelli che abitano in questa strada. Già dalla mattina, lungo il marciapiede, spunta qualche sedia a cui se n’aggiungono altre durante il giorno, tanto che il marciapiede alla fine sembra una scacchiera. I due punti di raggruppamento sono in chiara concorrenza tra loro. Si trattano con cortesia e rispetto apparente, ma in realtà sono due compagini che si dividono lo stesso terreno, pronte entrambe a fare fuoco al primo sgarro. Il malinteso è sempre in agguato. Non è strano ritrovarsi un sacco della spazzatura rovesciato volutamente in giardino, o peggio un gatto morto appeso sull’uscio di casa, normale routine per noi della strada. Nei punti in cui si formano questi raduni spontanei, si celebra il sacro rito della condivisione, soprattutto quello dei cacchi altrui. Il forestiero che si trova a passare da quelle parti è scrutato con sospetto, studiato per capirne le intenzioni. L’altro giorno, mentre entravo in casa, ho visto una donna suonare al citofono di fronte e il vicino uscire e fermarsi a chiacchierare con lei. Sono uscito dopo una decina di minuti e mi sono accorto che tutti i vicini erano affacciati alla finestra con gli occhi puntati su di loro. Sembravano condor in attesa di sbranare una carcassa. La malcapitata sarebbe stata argomento tra gli argomenti della prossima adunata. Qui si fanno dei film incredibili, nell’arco di otto ore puoi passare da eroe a coglione. La tua credibilità e rispettabilità dipende dagli umori del vicino. Io non mi impiccio di solito. C’è solo un momento che non mi perdo mai: l’apparizione della vicina, una ragazza ucraina, che con questa calura estiva ogni giorno si dà appuntamento davanti al tubo di gomma. Una doccia in giardino in reggiseno e perizoma. Per lei è naturale, o almeno voglio crederlo, perché rimango per un quarto d’ora a pulire la stessa finestra. Mezz’ora dopo è sul balcone a stendere la biancheria, poco più vestita, e mi tocca pulire anche la finestra di fronte. In estate ho sempre i vetri più splendenti di tutta la strada. Oggi il pensionato spazza il cortile davanti ai garage e raccoglie 14 viti piccole, 2 grandi, 16 rondelle, 4 chiodi, 6 bulloni e 3 graffette arrugginite; le mette in fila e urla a tutti che potrebbero bucare una ruota. Nessuno risponde mai. Stasera, mentre le sedie di plastica e le sdraio di tela rientrano nelle rispettive abitazioni, quattro ragazze vicine di casa, tutte separate, si dirigono verso una macchina parcheggiata. Parlano a voce alta, anche se sono a meno di un metro l’una dall’altra. Ci tengono che tutta la strada sappia che stanno andando in un nuovo locale di tendenza appena aperto sulla spiaggia, tanto per stasera i figli sono affidati ai nonni, alle televisori e alle playstation, non necessariamente in quest’ordine. I padri, questi strani inevitabili incidenti, orbitano intorno agli affari loro e non possono essere presi in considerazione. O non vogliono. Quella seduta al posto di guida annuncia a voce squillante che da poco se lo è ripreso in casa dopo la separazione, ma che adesso quasi quasi lo caccia di nuovo. Le amiche ridono, anche loro con un volume sufficiente per farlo sentire a tutti. Tanto qui tutti sanno tutto di tutti. Le pareti delle case sono sottili, le liti, come le riappacificazioni sono patrimonio comune. Più le liti però. L’altro giorno lei chiedeva i soldi a lui, che ha cominciato ad alzare la voce. Non capiva perché fosse necessario spendere tutti quei soldi per il figlio. Era il loro regalo di maturità per il ragazzo, uscito col massimo dei voti, aveva spiegato lei. «Embe’? Ha fatto il suo dovere» aveva risposto lui. Ogni tanto qualcuno prova ad alzare la voce anche con me, nascosto nel suo appartamentino, perché sanno che può essere pericoloso prendersela con una montagna di muscoli. Vengo dalla Romania e la gente qui mi chiama Cezar. Non è il mio vero nome, quello è rimasto al mio paese insieme a vecchie storie. Pochi sono gli amici. Per vivere e mandare un po’ di soldi ai miei, faccio tutti i lavori che posso. La donna che dorme nel mio letto si chiama Loretta, è italiana e fa l’estetista, ha un negozio qui nel quartiere. Tempo fa andai da lei perché volevo cancellare due tatuaggi, uno sul braccio ed uno sulla gamba. Lei si è offerta di farmi anche la ceretta, dicendo che gli uomini con i peli sulle spalle perdono metà del loro fascino. Dalla sua piccola tivù mi ha mostrato gli atleti dei mondiali di nuoto. «Guarda che fisici, neanche un pelo. Ma te li immagini con la schiena coperta di peluria?». No, non me li immaginavo, in realtà non ci avevo mai pensato. Mica sono un campione di nuoto.
Ho guardato i suoi occhi: neri e profondi di una bella donna. Adesso è la mia donna. Ha deciso di curare il mio aspetto, piccole cose: una camicia a tinta unita piuttosto che a quadri, il giubbotto marrone piuttosto che blu con righe bianche sulle maniche, niente più berretto di lana e calzini bianchi. Ora la gente non si scansa più come prima. E questo un po’ mi dispiace. Fa molto caldo stanotte, mi alzo, tanto non riesco a chiudere occhio. Mi metto comodo sulla sedia a sdraio che entra a stento sul balconcino e mi godo il fresco e l'umidità notturna, il buio, il silenzio... Quasi ci starebbe bene una sigaretta, ma ho smesso di fumare e mentre penso agli affari miei, o anche a nulla, vedo quel coso peloso e antipatico della vicina frugare nella siepe. La cosa mi incuriosisce, anche se non so perché. Mentre rientravo per cena ho colto una conversazione tra i vicini. Parlavano del folle dal buongiorno assassino. Qualcosa a proposito di dosi aumentate, ma inutilmente. Ho sentito parlare di familiari assenti, casa di cura, ospedale psichiatrico. Me lo aspettavo da tempo. Peccato, da domani dovrò mettere la sveglia.

venerdì 21 maggio 2010

SCUSA, MA TI VOGLIO SPOSTARE di Ande Di Luna


Anna lo diceva sempre al suo spazzolino ogni mattina, mentre, tra il profumo, lo yogurt, lo specchietto e le chiavi della macchina, cercava di districarsi dalla trappola domestica che si ostinava a trattenerla dalla corsa al lavoro. Femminista. Postmoderna.
A volte dimenticava l'esordio e cancellava 'Scusa'. E intanto lui era finito in terra, primo di una scia di oggetti pronti a tracciare verso l'emancipazione il tragitto del nuovo giorno.
Le sette e mezza.
Via, una saetta, per non arrivare tardi, per non arrivare presto, a colpi di infrazione al Codice. Stradale, civile, penale. Subito una canzone ad aprire altri orizzonti, luoghi senza ostacoli, distanze prive di materia, fotografie tutte da comporre e tutte a colori. In un attimo, le nove. Radio Radicale in ufficio. Strano.
Le disse il capo che doveva partire, seguire altrove un nuovo progetto, per un po'. E sul lungofiume città sulle sponde al crocevia tra religioni più o meno laiche.
Non conosceva le lingue, non aveva forza abbastanza per la sua valigia, nemmeno avrebbe potuto difendersi, se si fosse trovata in difficoltà. Pensieri: tutti lì, dietro la pianta sempreverde sulla scrivania. Meglio tacere, restare a osservare quello stato di calma apparente in cui tutto sembrava possibile ad Anna, ai suoi movimenti misurati, ai passi sul ritmo della sua serenità. “Scusa, ma ti voglio scortare”, le avrebbe detto. Doveva, invece, tornare in sede. Senza di lei. Le dodici e mezza. In Italia. Le nove e mezzo. Alle...Mauritius, tanto per dirne una.
Prenotare il volo non stava a lei, la segreteria era molto efficiente. Un pranzo veloce a breve, per non appesantirsi. Studiare ancora un modo nuovo di ignorarsi tra i corridoi. Lavarsi i denti nel bagno aziendale.
“Scusa, ma ti voglio spostare”, disse Fabio alla foglia di insalata sbriciolata tra gli incisivi mostrandole, con aria minacciosa, il filo interdentale, ma pensava, in fondo, che era tutt'altro quel che voleva decollocare dal contesto genitale: il capo di Anna, per esempio, avrebbe voluto appenderlo sulla trave della gru più alta, vicina alla vetrata del grattacielo, durante uno di quei nubifragi che fanno piazza pulita di automobiliste e di bambini nei parchi sull'Appia, quando si abbattano sulla capitale facendo un ebbro slalom tra gli alberi; il capo del governo, per esempio, lui e tutto il suo stuolo indeterminato di popolo e di servi; il maestro della scuola di salsa, lui e quei suoi sculettamenti così gratuiti e graditi alle donne. Grrrrrrrrr.
Le diciassette. Anna aveva già spostato tutto. Ogni piano della sua libreria mentale vedeva già ogni nuova cosa al suo nuovo posto. Mancavano, intorno, solo il meridiano e il parallelo giusto. La destinazione, l'avrebbe saputa solo il lunedì. Il quotidiano in borsa pronto all'uso durante la fila alla cassa del supermercato. Strisce rosse, manchette, campagne di pubblicità sociale, una giornata internazionale celebrata come ogni anno. Qualche telefonata c'era stata, senza dubbio, spesso mentre guidava. Parole di troppo, manovre azzardate, affrettate, urla talvolta, oggetti volanti, spintoni. Una stabilità matronale le scuoteva costantemente ogni coriandolo di sé dentro l'invisibile, piccolo e dispari cerchio simbolico che portava ancora a futura memoria. Tina Modotti tra le pagine, pagine firmate ormai persino dai magistrati del Csm.
Le sei e un quarto, l'orario verbalizzato in calce alla denuncia. Lo stesso del volo che la segretaria le aveva prenotato per Port Saint-Louis, che coincidenza.
“Scusa, ti posso aiutare?”, le aveva domandato un tipo in aeroporto. E intanto la polis immaginaria si rifletteva nel suo sguardo senz'ombra, né lividi.
Più, mai.
Il suo corpo, la sua casa, la sua memoria, tutto il suo tempo, i libri, i film e la musica. Ma soprattutto lui. Era Fabio che voleva spostare.
Anna lo diceva sempre anche al suo spazzolino ogni mattina, mentre, tra il profumo, lo yogurt, lo specchiatto e le chiavi della vita, cercava di districarsi dalla trappola domestica che si ostinava a trattenerla dalla fuga dal delirio. Maschilista. Premoderno.
A volte dimenticava l'esordio e cancellava “Scusa”, ma era lui che voleva spostare. E intanto era finita in terra, la vita, ultima e prima d'una scia di briciole pronte a tracciare verso la prigionia il tragitto della schiavitù.
Le sette e mezza. Alle Mauritius, però.

sabato 15 maggio 2010



IN VIAGGIO di NAIMA


In auto, sulla via del ritorno, dopo un fine settimana passato fuori, con ancora il profumo del vento tra i capelli e le guance arrossate dal sole. Fa caldo. Lui, alla guida, è concentrato sulla strada, accende lo stereo senza guardare, è un gesto meccanico, non bada veramente a ciò che gli altoparlanti diffondono. Lei, reclina il capo all'indietro sul sedile e si rilassa beata. Non si parlano, ognuno è immerso nei propri pensieri; sono vicini fisicamente ma con la mente distanti, è come se viaggiassero soli: sono le anime ad aver preso strade differenti, chissà quanto tempo fa, fino a non riconoscersi; ciascuno dei due potrebbe fare a meno della compagnia dell’altro in qualsiasi momento, eppure sono insieme.L'atmosfera tuttavia è serena. La musica invade l'abitacolo dell'auto e fa da colonna sonora al paesaggio. Lei conosce questo brano molto bene e ne segue con la mente ogni nota, ogni sfumatura, la musica le procura un'emozione che si espande per tutto il corpo, è completamente immersa nei suoni, ne fa parte. Un brivido sottile e piacevole le increspa la pelle."Hai la pelle d'oca, hai freddo?" Le chiede un po' incredulo, visto il caldo che fa. "Sì - risponde lei - un brivido di freddo, forse l'effetto del vento sulla pelle accaldata...".Strano che l’abbia notato. Lui si accontenta della risposta dimenticandola pochi attimi dopo. Non si parlano più di nuovo: tra loro solo la musica. Lei torna a rilassarsi, poggia il capo sullo schienale, chiude gli occhi ed assapora il brivido di piacere che la percorre: sorride fra sé e sé: "...è la musica - pensa - semplicemente la musica...".


WIRELESS di Anna Profumo
Si connette anche oggi è una presenza rassicurante. Appare in basso, di lato, nel video del portatile.Una finestrella lo annuncia: pc-carlo, vuoi connetterti?.Lo ignoro come sempre, come quel giorno che l’ho scoperto intrufolarsi tra i file del mio computer.
Gli piace partecipare così della mia vita e predilige la corrispondenza e-mail.Per caso: ero in chat con una ragazza che frequentavo, completamente rincoglionito, la conoscevo da pochi giorni e per me tutto quello che diceva appariva la cosa più importante al mondo.
Aveva appena scritto qualcosa scatenandomi dentro un momento di tenerezza. Digitai con la tastiera alcune parole zuccherine che sparirono nel momento in cui stavo per schiacciare invio. All’inizio non ci feci caso, pensavo ad un errore di connessione, ma al decimo tentativo vidi la freccina del mouse che si muoveva veloce, io non avevo impugnato il mouse.
Pestavo sulla tastiera nel tentativo di fissare quelle parole importantissime, ma continuavano a sparire. Ingaggiai una sfida di velocità. Non riuscivo a dire alla donzella che l’avrei accompagnata volentieri alla festa dell’amica. Per me in breve divenne una questione di principio, mi sentivo un cavaliere medioevale impegnato in un torneo di destrezza. Avanzavo indomito e quello con un colpo di spugna mi rispediva al punto di partenza. Andammo avanti così per una mezz’ora credo. Il tempo era divenuto un fattore secondario. Dovevo inviare il mio prezioso messaggio, rassicurare la ragazza e scatenarmi in tutta una serie di gesti inconsulti che mi avrebbero scaricato.Lui continuava ad essere veloce. Io scrivevo ed inviavo. Lui più veloce. Io scrivevo ed inviavo. Lui più veloce.Oggi forse riuscirò vincitore.
Sarebbe stato meglio telefonarle, di quella ragazza, non ricordo più il nome..


MUSCHIO E CANZONI di Aldo Ardetti
Arrivò il sospirato diploma e la voglia di una vacanza, di andare all’avventura dopo le letture beat sulle panchine della piazza. Sì, ma il money? Non ti preoccupare aveva detto Mario, rassicurandomi. E così riempimmo gli zaini rimediati a Porta Portese e, sul Raccordo anulare di Roma, iniziò il nostro on the road. In Toscana ci sfamammo con la frutta dei campi, soprattutto con le more dei gelsi. Non udimmo abbai o colpi di doppiette. Riuscimmo a raggiungere il confine con l’Austria. Al Brennero attraversammo il confine in treno fino a Innsbruck dove, per curiosità, avrei controllato le piastrelle rosse della stazione ferroviaria descritte in un famoso romanzo. C’erano ancora quelle. Alle mie spalle sentii fischiettare ’O sole mio ma la persona, dall’aria paesana, decise di non darmi ascolto. Abbandonai l’impresa deluso. Mi sentii tradito.
Lo stomaco iniziava a lamentarsi e anche la vescica. Chiedemmo del bagno in un negozio che vendeva kartoffeln ma ricevemmo un nein e uno sguardo inceneritore: italienisch. Allora decisi di risolvere il problema in maniera semplice e sbrigativa. Mi guardai intorno e, scrutato il mercato coperto, mi diressi verso un angolo che assicurava riparo.
L’autostop per München non funzionò e – capita l’antifona – battemmo in ritirata, tornammo in patria. Ci fermammo in un campeggio di Firenze, lungo la salita che porta a Piazzale Michelangelo, dove fummo accolti da Azzurro cantata da Celentano. Il juke-boxe suonava quel disco a ripetizione. Gli ospiti – soprattutto gli stranieri – non ne potevano più.
A Innsbruck, qualche mese più tardi – in un angolo del mercato coperto – ci sarebbe stata la raccolta di vero muschio per il presepe del vicino Natale. “Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo per me…” cominciai a cantare insieme alla figlia di un militare americano della Nato di stanza in Germania.

sabato 8 maggio 2010


PUBBLICITA’ OCCULTA di Andrea Coffami

Io lavoro per una casa editrice. Mi chiamo Giovanni ed ho i peli sulla schiena. Il mio lavoro è un partime dal lunedì al giovedì, dalle 7 del mattino alle 10 e dalle 12 alle 14. Nelle due ore di buco non passo fare nulla di che, ma sono libero e mi godo la mia libertà. Di solito mi appoggio in libreria e mi leggo i romanzi a puntate. Dico a puntate perché mi leggo ogni giorno una ventina di pagine dello stesso libro. Entro alla Feltrinelli, mi sorseggio un the e mi sfoglio le pagine di qualche classico, tutti libri che poi non compro, tanto stanno lì, come se fosse una mia libreria personale, meli leggo pian piano ma senza acquistare mai nulla, li considero miei. Il mio lavoro consiste nel prendere la metro, arrivare al capolinea, uscire dal vagone, prendere la stessa metro ma in direzione opposta, arrivare all'altro capolinea, cambiare linea metro ed arrivare al capolinea della seconda linea metro, uscire dal vagone e ritornare indietro. Così ogni giorno dalle 7 alle 10 e dalle 12 alle 14. Naturalmente non devo fare solo questo, io lavoro per una casa editrice, una di quelle “famose” di quelle che “vendono”, di quelle che hanno autori che vanno in tivvù, quindi, una volta in metro mi devo ricordare di tenere bene in evidenza il libro che sto leggendo, solitamente mi affidano le nuove uscite. È pubblicità subliminale. Devo essere come un attore: devo saper piangere se il libro è drammatico, devo ridere fino alle lacrime se il libro è comico, devo spaventarmi ed ogni tanto chiudere il volume (come se fosse posseduto dal demonio) nel caso si tratti di un romanzo horror, devo mettere in evidenza la mia erezione se sto leggendo un libro erotico, devo iniziare a parlare di luoghi comuni e malcostume italiano con il malcapitato vicino, se sto leggendo un saggio politico di qualche giornalista televisivo. È un lavoro semplice e redditizio che mi permette di vivere decentemente. Siamo parecchi a fare questo lavoro, solo nella mia casa editrice ne siamo una decina. Quindi: quando vedrete un ragazzo che nella metro è immerso in qualche lettura e sembra pure soddisfatto di quello legge, pensate pure tranquillamente che si tratti di un pubblicitario.



IL BINOCOLO di Daniela Rindi

Togliere il binocolo dalla custodia e seguire attentamente le istruzioni.
Regolare la distanza fra gli occhi. Consigliamo di usare il polpastrello della mano destra. Togliere i coperchi, operazione indispensabile, e regolare il binocolo con entrambe le mani muovendo l’unità lentamente. Effettuare la regolazione guardando attraverso il binocolo fino a quando il campo visivo diventa un unico cerchio.
Portare il soggetto a fuoco, consigliamo la prima cosa che vedete davanti, che non sia troppo vicina, però, altrimenti il binocolo non serve. Guardando attraverso il binocolo con entrambi gli occhi, girare la rotella per la messa a fuoco fino ad ottenere la messa a fuoco ottimale del soggetto.
Decidere prima cosa si vuole vedere: un paesaggio, un animale, una donna, un affare allettante, la scelta è varia, è questione di gusto personale e usare l'oculare sinistro per mettere a fuoco. Girare la rotella per la messa a fuoco guardando con l'occhio sinistro attraverso l'oculare sinistro e mettere a fuoco fino a vedere chiaramente il soggetto desiderato. Naturalmente la stessa operazione la potete eseguire con l'occhio destro, se siete orbi del sinistro. Girare il comando di regolazione diottrica guardando con l'occhio destro attraverso l'oculare destro, fino a che lo stesso soggetto non sia a fuoco. Una volta terminata l'operazione della messa a fuoco, godere tranquillamente del soggetto avvistato. Non c'è limite di tempo, luce permettendo. Allungare il binocolo alla persona al vostro fianco, questa dovrà ripetere l'operazione partendo dal punto 1. Passare le istruzioni.
Avvertenze particolari:se il binocolo dovesse cadere, raccogliere i resti, buttare nella spazzatura e acquistare nuovamente. Per una corretta conservazione: dopo l'uso, riporre l'oggetto nella sua custodia originale.



LA TINTA di Pasquale Bruno Di Marco

Allora, aprire i contenitori, mescolare il prodotto, applicare, …attendere… risciacquare… è la prima volta che uso ‘sta tinta… mah! quella ha insistito “spendi troppo per capelli, ti porto prodotto da mia terra buono e costa poco”… machittelacchiesto! Io poi non riesco a dire di no… speriamo che non bruci… e che non dia prurito… altri due minuti… … che sensazione curiosa… tolgo l’asciugamano… sembra tutto a posto… il colore non è granché… mi sarebbero piaciuti un po’ più scuri… toh! mi è sembrato che siano diventati più scuri… non è possibile… eppure… vabbene, allora li vorrei proprio neri… azz! so’ diventati neri corvini… che fica ‘sta lozione! Un’altra prova: rossi!… so’ diventati rossi da non crede’… ancora: biondo! Che fico!… Un’altra prova: ricci! dai!… adesso li vorrei lisci, lisci, liscissimi! Troppo fico: i capelli a comando! Metto un po’ di crema… oh una ciocca s’è allungata e ha preso la crema… ci riprovo: spugna!… troppo fico! Faccio una prova, vado in cucina, mi siedo e ...dai! I capelli sparecchiano, lavano i piatti e mettono a posto… e io mi posso rilassare. Anzi, magari mentre fanno le pulizie io ripasso quei passi di danza che proprio non mi vengono. Metto il cd e vai con la musica, ma che?… I capelli mi avvolgono e mi fanno muovere a tempo con la musica e i passi perfetti! Fico! Oddio, pure troppo, invece di una ballerina mi sembra di essere una marionetta. Però sono contenta, si festeggia, faccio una cena, mi piace troppo cucinare. E vai: pasta con le sarde! No! I capelli fanno tutto loro, non riesco a fare nulla, uffà! Preparo il secondo… No! Ancora i capelli che mi anticipano. Non vale, così non mi piace. Io che faccio?

Ciao, sei tornato.
Dai, non fare quella faccia, per favore. Sto così male tutta rasata? Va pure di moda, no?
Si, si, colpa di quella tinta... non mi piaceva come erano venuti i capelli… troppo…invadenti!
NO, non la buttare!
Magari… quando mi ricrescono i capelli… ci riprovo!