martedì 17 novembre 2009

L’ISOLA di Aldo Ardetti


L’Isola non era un pezzo di terra circondato dalle acque ma il nome di un bar, il Bar Isola. Quando mi capitava di passare da quelle parti rivedevo sul marciapiedi di asfalto i segni delle sedie e dei tavolini che ogni mattina venivano portati fuori dal locale e ritirati la sera fino a che i marciapiedi del centro non furono rivestiti di marmi che nascosero ogni… traccia storica. Nei giorni bagnati qualcuno ci ha fatto scivolate spettacolari.
A casa, poi, è rimasto un regalo di Valerio e Gino, i proprietari del locale: una bottiglietta di Cinzano bianco definito speciale dalla casa. Chissà quanto varrà per i collezionisti di mignon. Parliamo di almeno 30 anni fa. E’ parcheggiata dentro un bicchiere abbandonato. Inizialmente la capovolgevo per far inumidire il tappo e mantenerne la funzionalità ma l’espediente non è servito: oltre ad evaporare metà del contenuto, il restante si è ossidato – il Vermouth da giallo pallido è diventato scuro – e il copri tappo, un cappuccio ricavato da sottile lamina di alluminio, mostra delle perdite ormai essiccate.
Il Bar Isola aveva due entrate o meglio, l’abitudine voleva che da una si entrasse e dall’altra si uscisse ma la regola non era tassativa. Sulla destra c’era un piccolo banco frigorifero e subito dopo la cassa. Più avanti – praticamente sul lato più lungo, quello principale – il bancone vero e proprio che finiva col la Faema dei cappuccini e caffè. All’angolo sinistro c’era il flipper – che allora era più meccanico ed elettrico che elettronico – con il quale si rivaleggiava per aggiornare il primato. La restante parete e la vetrina di lato all’altra porta, erano destinate alle esposizioni a seconda delle festività. Era situato in centro, e oltre agli abituè, entravano passanti occasionali. Soprattutto con il tempo uggioso.
I proprietari non erano più giovani ma avevano una vitalità invidiabile, soprattutto Valerio. Piccolo ma energico e senza paura. Serviva soprattutto quest’ultima con certi avventori. Visite antipatiche erano sempre in agguato. I due titolari avevano alle spalle mestieri differenti ma, non volendo stare fermi, avevano pensato a questa attività come investimento pur potendo andare tranquillamente in pensione e fare la bella vita.
La differenza tra cliente fisso e passante era che il primo poteva segnare e saldare il conto ogni settimana – possibilmente – e instaurare un rapporto amichevole coi titolari.
L’Isola sembrava il nome azzeccato per il ritrovo, il punto di riferimento per turnisti di fabbrica, cassintegrati, lavoratori a giorni alterni quando andava bene. Offri tu che offro io e finivano bottiglie di brandy e casse di birra. Ognuno poi, sembrava occupasse per affezione lo stesso posto, lo stesso angolo del bancone o del tavolino. Ma le abitudini perdevano efficacia quando il piccolo locale si sovraffollava. Estranei che cercavano di entrare nel gruppo, nel giro delle bevute neanche si trattasse di passatelle. Stranieri e anche gente proveniente dai paesi islamici non disdegnavano bere alcolici in terra straniera.
Sfidante di bevute un inglese, un bulgaro o rumeno; quest’ultimo non confessò mai la propria nazionalità. Erano i tempi della guerra fredda e dei profughi politici dell’est in transito nei campi di accoglienza prima della definitiva destinazione: Stati Uniti, Canada, Australia,… Tutti sembravano rincorrere il tempo o cercare di fermarlo a seconda del bisogno. A volte anche con i pettegolezzi e soventi litigi che duravano, questi ultimi, il tempo per il successivo bicchiere.
Il più simpatico degli indigeni era Nando detto Fortebraccio, segaligno ma forte come un boxeur e campione di bicchierate, che lasciava dietro di sé scie di profumo agrumato. Uomo di saloon amava ripetere: «Noi giocavamo con la creta, non con la plastilina», per ricordare la condizione sociale di provenienza con le corrispondenti possibilità economiche; una famiglia proletaria che si era aggiustata ma guai a dirgli imborghesita.
Sempre inattesa appariva Lorella – non più giovanissima – con un corpo da far invidia ad una trentenne. Abitava in un paesino sui monti e, per tastare la vita, scendeva in pianura per conoscere la città. Dicevano che vivesse facendo la prostituta e che spesso si appartasse nei gabinetti anche con persone molto più grandi di lei. Voci asserivano che accadesse anche in quello dell’Isola.
Accadde pure che Rosy, la figlia di Gino, rimanesse incinta. Nessuno seppe chi fosse il responsabile anche se un nome veniva fatto a bassa voce. La ragazza non lo confessò mai ai propri genitori.
Molti sapevano che aveva più di un amante – ragazzi e uomini sposati – e che alcuni di essi li ricevesse in casa mentre i suoi erano al lavoro. I genitori la fecero volare a Londra per non suscitare scandali e perché allora rappresentava l’unica via d’uscita per risolvere quel tipo di problema.
Un giorno entrò Peppe Carale con la sua spalla, un delinquentello come lui. Era il primo pomeriggio e il bar, semideserto, sonnecchiava. Angelo, appoggiato al banco, sorseggiava un caffè ancora bollente. L’episodio iniziò con uno scambio di battute e il delinquente, che si infastidiva facilmente e ormai sulla strada dell’ubriacatura, ordinò al suo compare: «Dagli un pugno sul naso a quello!»
Angelo rimase di stucco: «Ma come, eravamo amici da ragazzini, abitavamo nello stesso quartiere…»
Per fortuna il pugno non partì e l’aria ritornò serena.
Alcuni mesi più tardi Peppe Carale morì in un incidente automobilistico mentre era inseguito dalla Polizia.
Il Bar Isola non esiste più. Il locale è stato ristrutturato tante volte quante le attività commerciali che vi si sono succedute.
Era una piccola parte del palcoscenico della nostra giovane vita: un luogo del nostro spazio e del nostro tempo. Per alcuni un luogo per combattere la solitudine.
Rimane il ricordo – tra bagliori didascalici, voci e rumori lontani – in una storia di bar.

(pubblicato in data 17 novembre 2009)

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