lunedì 24 agosto 2009

ORGOGLIO di Daniela Rindi


“Una nube di fumo, tutti che scappano, non si vede nulla, i lacrimogeni della polizia, la paura, io per mano a mio padre cercando una via d’uscita”.
Stavano reprimendo una manifestazione all’arena di Milano. Avrò avuto non più di dieci anni. La mia vita inizia lì, appesa a quella mano, il ricordo più chiaro della mia infanzia, appena sbocciata. La memoria successiva slitta alle elementari, alla scuola “Ruffini”, famosa per essere affianco al grande affresco di Leonardo “Il Cenacolo”, ma allora non c’erano ancora le file dei giapponesi fino a Corso Magenta. La maestra Gigliola Fusi mi teneva in considerazione, non perché la più brava, ma perché la più bizzarra. Sapevo stupirla. Una volta diede un compito: riempire due facciate del quaderno di "o". Stavo in casa, davanti alla televisione, non ne avevo voglia; mia madre non era certo attenta ai miei compiti, erano altri tempi, i figli erano in mano alle istituzioni, di cui gli adulti si fidavano ciecamente. Non come adesso con i genitori allertati da presunte o reali accuse carnali. Ero poco interessata alle tristi “o” e volevo vedere i cartoni. Mi misi a disegnarle sempre più grosse, fino ad occupare tutta una pagina, quattro “o” in un’unica facciata. Il giorno seguente a scuola subii la prima umiliazione; il mio quaderno fu gettato in aria in mezzo alla classe. Avevo esagerato. Silenziosamente lo raccolsi e mi rimisi al posto. Avevo capito che c’era un limite all’accettazione dei diversi, non dovevano andare troppo sui coglioni! Ne feci tesoro.
Fui promossa in quinta rispondendo a tutte le domande e portando a termine lavori manuali, quale un pallosissimo rosario in creta e un ricamo a punto croce, che ho ancora appesi nella camera della mia infanzia. A pieni voti, riscattandomi, mossa dall’orgoglio. Da lì alle medie fu un salto. I miei genitori avevano la mente aperta, tanto aperta da fidarsi di un esperimento didattico al Conservatorio di Milano. La scuola si sarebbe unita, in via sperimentale, all’Istituto dei Ciechi del Conservatorio e il caro maestro Abbado sarebbe stato a guardare, come uno scienziato crudele. Entrai timidamente, indossando una triste gonna di loden, che mia madre amava tanto. Già il primo giorno mi accorsi della mancanza di regole; fui immediatamente presa in giro, perché vestita troppo bene. Il primo quadrimestre la mia pagella aveva dei bei voti ma un giudizio pessimo sulla mia persona:
«La ragazza non è inserita, fatica a socializzare, anche se ha buoni rendimenti».
Presi in mano la situazione, alla lettera. Abbandonai i rendimenti e mi dedicai al lavoro di leader. Le lezioni, gestite da me, finirono per essere un gioco a nascondino e l’ora d’italiano un giro a bottiglia. Le insegnanti si susseguirono, alla ricerca di chi sarebbe riuscito a sottomettermi. Per non parlare dei non vedenti, vittime innocenti, ai quali schiacciavo i puntini del brail per non farli più leggere, finendo con lo spintonarli giù dalle scale. A livello personale fu un successo. In tempo breve fui colei che poteva comandare di infilare un cucchiaio nel culo al secchione della classe. Secondo quadrimestre: «La ragazza ha avuto un calo di rendimento. Il suo inserimento è però completo, mostra chiari segni d’attitudine al comando».
Non fu un esperimento riuscito, come scuola, ma il mio orgoglio ne uscì ancora vincitore. Il resto fu un disastro.
Ma fu lì che conobbi Giulio Comello, capelli lunghi biondo platino, costantemente spettinati, jeans a zampa, maglioni larghi; una pippa a scuola, chi di noi non lo era a quell’età, a parte il secchione del cucchiaio. Giulio era bello e dannato; un leader! Ci intendemmo subito, ma era troppo convenzionale accettarsi. Agli occhi degli altri non potevamo amarci, dovevamo essere di tutti, concederci, non eravamo autorizzati ad essere una coppia, era antipolitica, faceva fascista. Ci amavamo facendo finta di niente, soffrendo la mancanza d’intimità. Alle feste dovevamo baciare tutti indistintamente, per non mostrare preferenze, distaccati, per essere superiori, ma soffrivamo da morire osservandoci fare lingua in bocca, con degli sconosciuti. Ogni manata, ogni palpata nell’intimità, una tortura; ogni sorriso, un equivoco. Sapevamo di amarci, ma non era quello il tempo e il luogo. Era figlio di un attore, questo me lo avvicinava ancora di più. Io ero figlia di un impresario teatrale, sempre in tournée e troppo assente per aver voglia, una volta tornato a casa, di mettere la testa nei miei problemi e di una madre sempre e solo accompagnata da bicchieri di Lambrusco e dischi di Aznavour. Una sera, mentre io e mio fratello eravamo a letto, sentimmo un botto nel bagno. Era caduta sbattendo la testa sul bordo della vasca: aveva le mani insanguinate e lo sguardo stravolto dal dolore. Matteo ed io, la guardammo nascondere la vergogna e la perduta dignità. Ci cacciò via in malo modo. Ancora adesso odio Aznavour.
Giulio fece una festa nella sala prove di suo padre. Tutta la classe partecipò. Giocammo ad uno strano gioco, tipo palla prigioniera. La fila dei maschi al centro doveva catturare una delle tante femmine che tentava di raggiungere la sponda opposta e s’invertiva. Io facevo di tutto per cascare tra le sue braccia, per essere presa, catturata, per godere di un momento d’intimità ammesso, o anche solo mascherato. Lui faceva lo stesso, fino a che una voce gelosa tra gli invitati: «Scusate, ma se Giulio voleva fare una festa solo con Elisa, poteva avvertirci!»
E tutto finì. Giulio non avrebbe rinunciato mai al suo ruolo di leader, e poco dopo mi lasciò. Fu difficilissimo per me, incassare il colpo. Tutte le mattine lo vedevo in classe flirtare con le altre, indifferente al mio cuore attorcigliato. Un giorno, però, intuii la verità. Mentre eravamo in cerchio a cantare tutti insieme una canzone di Battisti, La canzone del sole, incrociai il suo sguardo; aveva continuato ad osservarmi da lontano, era ancora innamorato! Approfittai subito della situazione e come la perfida Medusa lo marmorizzai, fidanzandomi col suo migliore amico, Nicola. Mi trasformai nella perfetta innamorata, sempre attaccata a lui, ostentando baci scandalosi e attenzioni da geisha, esibendomi in provocazioni di ogni genere, un metodo efficace per guarire il mio orgoglio ferito. Giulio non venne più a scuola. In questo modo, forse, mi stava mostrando la sua indifferenza. Mi sentii una stupida, come avevo potuto sperare di riconquistare uno come lui con dei giochetti da bambina! Lo avevo perso.
La mia vita cambiò, avevo dei solchi profondi nell’anima, come i miei sensi di colpa. Mi diedi alla politica, come può fare una quattordicenne, con la convinzione scaturita più dall’appartenenza ad un gruppo, che personale. Erano gli anni di piombo, Milano era una pentola a pressione. Bastava un niente per farla esplodere. Avevano appena ammazzato Fausto e Iaio. Andai a quella grossa manifestazione, motivata dalla rabbia, dallo sdegno, dal disprezzo. Tanta gente, tanto fumo, tanta polizia che librava nell’aria i manganelli come fossero birilli da circo. Io che scappavo cercando di mettermi in salvo. Fu lì che vidi tendermi una mano, era Giulio, bellissimo, con un fazzoletto sulla faccia, brandiva un grosso bastone di legno. Mi guardò negli occhi, mi afferrò forte e iniziò a correre, facendosi largo a bastonate. Il cuore mi batteva impazzito. Riuscimmo a superare le camionette infernali, dove a caso venivano rinchiusi i nostri compagni e ammazzati di botte. Continuavamo a correre, via da lì, senza più fiato, per poterci ritrovare, abbracciare, finalmente amare davanti a tutti. Un sibilo, non so da dove, mi passò sopra l’orecchio, improvvisamente il silenzio intorno, mi immobilizzai, il corpo di Giulio che si accasciava al rallentatore. Io che continuavo a stringerlo. La mia vita finiva lì, appesa a quella mano, il ricordo più chiaro della mia adolescenza, per sempre spezzata.
(pubblicato in data 24 agosto 2009)

lunedì 17 agosto 2009

LA DACIA DI MARIJA di Aldo Ardetti


L’aria umida e piovigginosa creava luccichii e gelidi riverberi di luce. Il quartiere Sholkovkaija si svegliava con il rumore del viavai quotidiano sui marciapiedi di asfalto rattoppato. Gli imbocchi della metropolitana entravano nella terra, nella città sotterranea.
Dal mercato si alzavano voci di richiamo. Al cielo salivano pennacchi e nuvole di fumo. Il vapore delle fabbriche periferiche e dei grandi impianti di riscaldamento per gli appartamenti condivisi nei palazzi lungo le ulitze e i bul’var, avvolgeva la città dove viaggiavano bottiglie di birra e vodka che, ad alcuni, avrebbero fatto compagnia durante la lunga giornata.
Quell’angolo della sua città osservava Marija dal balcone del suo appartamento, negli spiragli concessi dal fogliame delle betulle mentre pensava con trepidazione all’orto della sua dacia. Da quando era andata in pensione preferiva partire prima dell’estate e prolungare la permanenza in campagna fino all’inizio dell’autunno.
«A contatto con la natura respiro meglio» ripeteva.
Le piaceva il lavoro nell’orto dove raccoglieva i prodotti tirati su con tanta passione contadina e che a Mosca, al mercato Sholkovskij, costavano un occhio.
«Meno male che ho questa casetta» e ringraziava Konstantin, il marito defunto che gliela aveva lasciata.
Minuta ma forte ed energica, Marija approntò valigie, zaino, sacchi e scatoloni che contenevano il necessario per i primi giorni, soprattutto generi di difficile reperibilità come pane e zucchero. Portava con se barattoli di conserva e altri da riempire dopo la raccolta degli ortaggi e delle bacche del generoso bosco.
Quando tutto si presentava ben confezionato, raggiungeva la stazione Saviolovskij per un viaggio che doveva durare tutta la notte: primo tratto parallelo alla linea Mosca-San Pietroburgo per poi deviare – treno non privilegiato – verso nord-est, ed attraversare le sterminate campagne dei kolkoz e sovkoz e lande ammantate di nebbia. Il treno si fermava in ogni stazione, anche in quelle quasi inesistenti, tanto breve era la sosta e tanto in fretta il solitario capostazione salutava l’ultimo vagone che spariva nella notte nera e desolata.
Marija non riposava bene, non riusciva a chiudere occhio per vigilare sull’appetibile carico alimentare, alla luce scialba delle lampade del corridoio che si oscuravano al continuo passare di irrequieti passeggeri. Aspettando l’alba che l’avrebbe accompagnata a destinazione, affrontava il viaggio ben infagottata per respingere il residuo freddo russo. Di notte, con i finestrini velati dai fiati, non riusciva a distrarsi, così portava alla bocca piccoli pezzi di pane con pesce e verdura per sostenersi e far trascorrere il tempo.

Alla stazione Chvojnaja scese coi numerosi e pesanti bagagli che richiesero tempo e fatica. Sul piazzale, alle spalle del caseggiato, l’attendeva il parente che si era precipitato a soccorrere la congiunta. Esisteva un servizio di autobus ma per il bagaglio e per evitare lunghe e solitarie attese, Marija preferiva avvisare in anticipo e imbarcarsi su quel furgone sul quale, in quella decina di chilometri da percorrere, era difficile evitare un fastidioso singhiozzo.
Attraversarono un bosco di betulle, di salici piangenti e chiazze d’acqua nel terreno accidentato, abeti, pini le cui foglie aghiformi lacrimavano latice e gocce di rugiada, tremule e mirtillo e l’èrica con le bacche blu sotto un tappeto colorato dai boléti e dall’agàrico delizioso.
Marija arrivò alla sua dacia, il suo rifugio circondato da betulle e pioppi, ciliegi selvatici, cespugli di lilla, viburno e uva spina. Spalancò porte e finestre e iniziò a rassettare non prima di aver offerto un bicchierino al provvidenziale chauffeur. Mettendo da parte la stanchezza riempì d’acqua il samovar e accese la stufa per far asciugare l’ambiente. Decise di preparare una sostanziosa e fumante zuppa di carne e verdura e, mentre la assaporava, iniziò a pensare ai giorni a venire, al lavoro da fare ora che il disgelo aveva liberato la terra, mentre osservava la piccola ed unica icona posta a guardia della casa.
Murcik, il gatto dal pelo bianchissimo d’angora, con un paio di balzi s’era sistemato in un cantuccio sopra il forno. Se ci fossero state le figlie, Olga e Dar’ja, il grammofono con l’altoparlante a tromba avrebbe inondato le stanze di antiche arie slave; ma le ragazze avevano preferito restare a Mosca, in attesa della bella stagione, con la permissiva babushka Masha.

Marija, in un viaggio precedente, aveva portato anche tre galline allevate con mille attenzioni e cure sul balcone della casa moscovita. Le aveva date in custodia a dei parenti del villaggio affinché diventassero grandi. Avere galline in campagna era sempre stato un suo sogno, un desiderio che ora aveva realizzato ma, con quel tempo, anche le gallinelle si nascondevano, non davano le sospirate uova, si comportavano in maniera strana e mangiavano male, inappetenti.
«Si vede che i primi giorni hanno mangiato troppi vermi e adesso non li guardano nemmeno» ragionava dubbiosa e preoccupata.

Con il sopraggiungere del caldo il lavoro nell’orto procedeva con soddisfazione. Non così si poteva dire delle galline. Avevano un’aria malaticcia e Marija cominciò a disperarsi: «Ho paura che dovrò separarmi da loro. All’inizio si sono riprese così bene, piene di energie. Tutti si meravigliavano per come erano belle.»
Il terzo giorno, dopo le meraviglie dei vicini, una si ammalò; poi toccò alla seconda e così pure alla terza, la gallina più tranquilla. Quest’ultima non in maniera grave. Tutto iniziò quando alla gallina più vispa apparvero dei foruncoletti sulla cresta. Pensò si fosse raffreddata e iniziò a curarla spalmandole un unguento alla tetraciclina che usava lei stessa. Le ferite cominciarono ad asciugarsi ma la cresta diventò dura come il legno e ogni volta non poteva guardarla senza che le sgorgassero copiose lacrime. Murcik assisteva malinconico nel vedere la padrona demoralizzata ma non poteva riferire suggerimenti, una qualche soluzione che pure doveva aver pensato, dare una... zampa d’aiuto.
La stessa cosa accadde con la seconda gallina che, con il becco, si ferì gravemente strappandosi tutta la pelle delle zampe.
«Non so che malattia sia questa» si domandava disperata la donna.
Cominciò a far mangiar loro dell’ortica pensando che una aumento di vitamine risolvesse il problema, ma diventarono ancora più brutte.
Non avendo altri rimedi non le restò che pensare ad una sorta di malocchio, un maleficio per il quale provò magici scongiuri. La situazione precipitò: «Sono sfortunata con le galline» sentenziò e, dopo qualche giorno, restò sola.

Dopo lo zappettio nell’orto, Marija si inoltrava nel bosco calpestando il muschio che ondeggiava sull’acqua paludosa. Rincasava con cesti colmi di funghi, cercati anche tra il lichene bianco dei cerbiatti, che essiccava o in salamoia conservava nei barattoli; in altri finivano le squisite marmellate di mirtillo e di ribes.
Sopraggiunse l’autunno e Marija si preparò per il viaggio di ritorno. Portò con se le preziose conserve che in città avrebbero fatto risparmiare e sopportare meglio il rigore del clima invernale.
Qualcosa, come ogni anno, regalò o dette in consegna ai parenti. Parte la nascose in casa o la interrò. Ma queste sono illazioni di alcuni vicini e del sottoscritto.
Marija tornò a Mosca pensando alla successiva primavera, soddisfatta dei frutti e dei prodotti abbondanti del suo orto e del bosco ma con una spina nel cuore, una delusione che le procurava un acuto dolore. Dal balcone della sua casa i suoi pensieri perforavano il vuoto mentre un altro giorno moriva chiudendo il sipario sulle lunghe ombre della sera.
(pubblicato in data 17 agosto 2009)

lunedì 10 agosto 2009

ROVESCIO IMPROVVISO di Pasquale Bruno Di Marco


Viene giù troppo forte. Costretti dalla pioggia violenta all’intimità umida dell’androne di un palazzo per uffici, in attesa di poter uscire. La donna con il vestito chiaro fissa la strada, lo sguardo perso nei pensieri e un leggero sorriso sulle labbra. Occhi scuri grandi, capelli lunghi, le si indovina un corpo formoso sotto i vestiti leggeri inumiditi.
Gli uomini le girano intorno, spesso a contatto, piacevolmente costretti dalle circostanze e dalle dimensioni del luogo. Nessuno parla, apparentemente tutti seguono rapiti e intimorito lo spettacolo della pioggia assordante che violenta la strada.

«E’una giovane madre – pensa l’uomo con gli occhiali - passandole vicino ho sentito per un attimo l’odore di talco, come quello che usava mia moglie con nostro figlio. Sicuramente sta pensando al suo bambino, lo immagina che fa i capricci dolcemente rimproverato dalla nonna e non vede l’ora di tornare a casa.»

«Lo conosco quel sorriso – pensa l’uomo con l’impermeabile nero – un sorriso da santa. Un sorriso che dice casa e famiglia. Ma se poi vai a scavare, chissà cosa scopri. Ne ho conosciute come te, che ti credi. Conosco il tipo. Sono sicuro. Sei la segretaria di un professionista e, sicuramente, anche l’amante.»

«Lo stesso profumo – pensa l’uomo con l’ombrello – e anche la stoffa del vestito che sento a contatto con la pelle della mia mano è così simile. Un po’ le somiglia. Anzi il sorriso è proprio come il suo. Quel sorriso che mi ha conquistato inesorabilmente. Quanto tempo è passato?»

La pioggia insiste cadendo con la stessa violenza. Il rumore forte costringe ognuno nell’isolamento dei propri pensieri, lo spazio minimo che li avvolge costringe i corpi in una intimità casuale e inevitabile.
L’uomo con gli occhiali sposta il peso del corpo da una gamba all’altra sfiorando la donna.

«Mi piace sentirlo così vicino, questo odore di talco. Mi ricordo che poi le rimaneva addosso quando il bambino si addormentava e io potevo riavvicinarmi a lei. I nostri corpi vicini. Come adesso sono vicino a questa donna. E poi lei si concedeva a me. Da quanto non lo facciamo più? Da quanto tempo non sento un contatto così intimo? Grazie a questa pioggia che ci costringe qui dentro. Però, forse, non dovrei sfiorarla così ma proprio non resisto.»

L’uomo con l’impermeabile si sporge per controllare la strada urtando leggermente la donna e subito scusandosi con voce sommessa ma decisa.

«Adesso ti sono vicino, così vicino che sento l’odore della tua pelle. Ho accarezzato per un momento i tuoi fianchi e tu hai avuto un brivido. Vedo anche un luccichio nei tuoi occhi. Lo sapevo, sei una donna calda, appassionata. Una donna che vive per la passione fisica. Riesco a immaginarti a letto quando ti scateni e diventi una tigre del sesso, sbrani gli uomini con le tue voglie, instancabile. Le conosco le femmine come te.»

L’uomo con l’ombrello ha il volto rivolto verso l’esterno ma con gli occhi cerca il viso della donna.
Ne cerca lo sguardo per poi ritrarsi se per caso lo incontra.

«Perché mi hai lasciato? Perché te ne sei andata? Non capivo quello che dicevi quando mi hai abbandonato. Oddio. La odio e la amo ancora. Mi sento vibrare dentro. Lo senti anche tu, anche tu che sei così simile a lei? Anche tu mi faresti soffrire come ha fatto lei? Donna sconosciuta, io sento che potrei amarti e odiarti, come odio e amo lei. »

La pioggia sembra calare di intensità.
E’ solo un attimo ma la donna, decisa, apre l’ombrello ed esce incurante degli schizzi d’acqua che la bagnano mentre la tempesta si scatena di nuovo.
I tre uomini si ritrovano tutti e tre a guardarla, l’uomo con gli occhiali fissandola intensamente, l’uomo con l’impermeabile sorridendo, l’uomo con l’ombrello scuotendo lievemente il capo.
Per un istante si guardano tra loro come se si accorgessero solo allora di aver condiviso un momento di intimità con quella sconosciuta. Nessuno dice nulla rinchiudendosi di nuovo nei propri pensieri. Solo una volta giunti a casa si accorgeranno di non avere più il portafogli.



(pubblicato in data 10 agosto 2009)

lunedì 3 agosto 2009

TRAUMA di Aldo Ardetti


Di nuovo aveva sognato di cadere nel vuoto e poi una piccola mano carezzargli la fronte fino a scivolare sulla guancia sfiorandola appena, beneficiando così di una eccitazione al solletico. Non voleva aprire gli occhi per timore di sgradite sorprese; piuttosto cercare un orientamento mentale, approfittare di quel dolce momento ritardando il completo risveglio che, quando avvenne, gli occhi si dischiusero lentamente turbati dalla luce asettica, antipatica disturbatrice.
Le carezze della piccola mano erano sparite e fu quasi certo di aver sognato, di essersi sbagliato quando, superato un primo disorientamento accompagnato da una sensazione di vuoto, aveva preso coscienza della situazione e del posto. Non riusciva a muoversi: sentiva tutto il corpo indolenzito, bloccato. Altre volte, in quella immobilità, un freddo antico che lo avvolgeva dalla testa ai piedi. Non realizzò quanto tempo fosse trascorso e iniziò, con l’aiuto del ricordo, a fare un viaggio a ritroso: la strada che lo aveva condotto su quel letto. In un bagliore vide le viscere in cui era precipitato; la curva a destra leggermente in discesa e il fiume che, alle chiuse sotto il ponte, mormorava nel buio. E, dopo l’errore, la paura totale, la disperazione passiva. D’istinto – seppur inutile e sciocco – aggrapparsi allo sterzo mentre l’auto piombava nel baratro squarciando le acque. Poi il nulla.
Con fatica riuscì a riprendere sonno e nuovamente si sentì carezzare il viso. Era la piccola mano che lo sfiorava e, toccandolo appena, creava un alito, un leggero e fresco soffio gradevole ai sensi.
Chi sei? Cosa vuoi?
Passi e un frusciare d’attorno gli procurarono un leggero sussulto. Una suora vestita di bianco controllava che tutto fosse a posto cercando di non scuotere il letto. Una suora con un passato difficile: era stata una donna di strada. Quante volte si era sentita chiamare puttana ma poi aveva scelto il velo, una conversione che le aveva dato quella serenità che non aveva mai vissuto.
«Scusi, chi c’era prima di lei. Ha visto uscire qualcuno?»
La suorina rispose negativamente con la testa.
«Da quanto tempo sono qui, come ci sono arrivato?»
«Questa notte. Stia calmo, non si agiti! Deve ringraziare Iddio se è ancora vivo. E’ proprio il caso di dire che è stato ripescato in tempo. Le è stata fatta la TAC e non è stato riscontrato nessun trauma cranico, solo alcune cicatrici, qualche escoriazione, qualche ematoma. Ha perso un po’ di sangue ma è bastato un flacone di plasma... – e dopo una pausa accompagnata da un lungo sospiro –Ma saranno i medici a dirle tutto.»
Quindi aggiustò la piega del lenzuolo sulla coperta, rimboccò e aggiunse:
«E’ stato fortunato, uno svenimento che le poteva costare caro. Lei deve avere la pelle dura!»
Mentre il paziente asseriva con un cenno di sorriso traboccante di orgoglio, al passato prossimo si aggiungeva un altro particolare: la bambina. Dove era la bambina, perché non gli era venuta subito in mente? Come aveva potuto non pensare alla sua assenza?
E la percezione di caldo e freddo continuava la sua intermittenza secondo il grado di agitazione.
«La bambina, la mia bambina. Dio, è salva, la mia bambina è salva?» e si disperò mentre combatteva per respingere brutti pensieri di un tragico destino.
Se fosse accaduto l’irreparabile, gli sarebbe rimasto un marchio incancellabile nella mente e nell’anima.
Nel frattempo era entrato il primario con i suoi dottori di reparto. La suora si fece da parte e cercò di evitare sguardi indagatori infilando con discrezione l’uscita e assicurando la chiusura della porta per il giro delle visite mediche.
«Non si agiti! Di sua figlia le daremo notizie prima possibile.»
esordì il primario che, già dal corridoio, aveva sentito la richiesta.
«Come sta mia figlia, s’è fatta molto male?»
«Adesso stia calmo. Le ho detto che le faremo sapere. Capisco la situazione ma… »
e lasciò cadere ulteriori rassicurazioni.
Più si obbligava a ricordare, più lo abbracciava la sofferenza. Provò un senso di solitudine e di totale abbandono che sono propri dell’impotenza, dell’aver procurato un danno e di non poter porvi rimedio. Una sensazione di sconforto perché era costretto ad arrendersi. E allora si sciolse in un pianto, una esplosione di lacrime violenta che si abbatté sulle responsabilità, creando un senso di colpevolezza e di rimorso.
Passò altro tempo, altri giorni e altre notti di sofferenza in quell’oceano di malore interiore. Quella piccola mano era rimasta sospesa tra il nulla e l’aldilà fintanto che il padre potesse riconoscerla. Solo per quello.
Il sipario poteva chiudersi e quella mano sparire nel fiume, dentro l’acqua che aveva corrotto la purezza del suo sangue. Nessun cambiamento, tutto era già scritto, nessun miracolo e l’adolescenza solamente un futuro impossibile.
Di nuovo la suora varcò la porta della camera.
Questa volta le mani erano due, grandi e rugose e gli stringevano forte le braccia mentre dalla finestra si vedevano i tenui colori ingrigiti della sera e entrava il profumo della linfa di foglie spezzate di agave. All’orizzonte il sole lanciava gli ultimi dardi di calore e di luce prima di sciogliersi completamente nel mare.


(pubblicato in data 3 agosto 2009)