sabato 9 aprile 2011

NON SO SE SOPRAVVIVERÒ' A QUESTA VITA - cronaca 8 (reloaded)

Sono almeno due giorni che vengo qui in Biblioteca sempre con i soliti fascicoli. Questo che ho davanti parla dei rapporti che un senatore, ancora vivo, – mi pare di aver intravisto il suo simulacro aggirarsi da queste parti - ha tenuto con certe associazioni siciliane fino agli anni ottanta E’ il tomo uno, ho chiesto anche il due ma mi hanno detto che devo attendere un po’, devono cercalo, stranamente non è al suo posto e chissà dove è finito. Mah! Sono distratto in questi giorni, non riesco ad appassionarmi. Ogni tanto rivolgo lo sguardo verso il bancone dove dovrebbe essere Mandolina, saranno due giorni almeno che non la vedo, chissà dove è finita pure lei, sarà scappata col tomo due? Poi questa storia della realizzazione in appalto del Purgatorio mi lascia perplesso, anzi a dire la verità, mi inquieta abbastanza, ma ho promesso a Gabriele di mantenere la notizia riservata per ora.

Spunta Faust da dietro due angeli che chiacchierano seraficamente sottovoce. Si sbraccia per farmi capire che devo uscire. Esco. Tanto non riesco a concentrarmi.

Faust è sovraeccitato. Come al solito, in fondo. E’ uno che vive tutto con perenne entusiasmo. Ce ne vorrebbero di più come lui. Da prendere a piccole dosi, però.

“E’ fatta, tranquillo”

Si concede qualche attimo per godersi la mia espressione interrogativa. Deve riuscirmi particolarmente bene perché sembra in estasi.

“Il torneo di calcio a cinque! Si fa il torneo”.

La mia espressione non muta e lui se ne “spara” un’altra dose abbondante, forse vuole farsene una scorta per l’inverno.

“Non te ne avevo parlato già?Allora rimedio subito. Comincia domani il torneo di calcio a cinque con la prima partita a cui partecipa la nostra squadra, la Cornelius F.C. . Senti che formazione: io, chiaramente, in porta, che oltre la mole e il pelame ho anche un’agilità gorillesca, davanti formazione a rombo. Vertice basso, difesa, tu. Due sulle fasce, a destra Filippo Tommaso Marinetti a sinistra il marchese LaFayette. Vertice alto del rombo, attacco indovina chi? Dai indovina! No anzi lascia perdere che non indovineresti mai. Attacco: Spartacus, il gladiatore.”

La mia espressione deve essere ancora comicamente indefinibile perchè Faust decide di concedersene ancora un po’ beandosi di tanta faccia.

“Ho pensato a tutto, disposizione in campo, tattica, divise sociali. Tranquillo, il perizoma leopardato è opzionale. Seguimi: Spartacus è lo specchietto per le allodole, deve attirare su di se gli avversari, l’arma segreta sarà Marinetti sulla fascia. Corre come una locomotiva, non si ferma mai, anzi mentre corre fa pure i versi come una locomotiva : SPAFF, ZUM, SDENG SDENG. Ma non devi sottovalutare LaFayette, sotto quella parrucca da cicisbeo c’è un mastino che sembra Benetti dei giorni migliori. Capito? è un rombo dinamico il nostro!”

“Faust, ma io che c’entro? Non gioco a calcio dai tempi dell’oratorio. E figurati che neanche ci sono mai andato all’oratorio”.

“E allora? Sei un giornalista, no? Oltre a giocare, racconterai le epiche gesta della Cornelius F.C. dall’interno, la cronaca diretta dallo spogliatoio. Altro che interviste precotte. Racconterai l’epica scalata verso la vittoria, la fatica, l’eroismo, il sacrificio, l’agonismo esasperato, il sudore misto a sangue. Tutte quelle stronzate che voi giornalisti vi inventate per non far capire che non avete niente da raccontare. Che te lo devo insegnare io il mestiere?”.

“Qui l’unica stronzata che vedo è la mia partecipazione. Scusa ma io non capisco niente di calcio, non so cosa sia la diagonale, non conosco la differenza tra la ripartenza e il contropiede, mi è ancora misteriosa l’applicazione del fuorigioco. Come posso esserti utile?”

Qui Faust fa un lungo sospiro e si trattiene a lungo a fissarmi senza rispondere. Ma la sua espressione ora è seria, sembra quasi compatirmi.

“Ascolta. Questo posto è grandissimo, tra trapassati e simulacri di vivi c’è tantissima gente. Se vuoi ritrovare qualcuno l’occasione migliore è proprio questo torneo. E’ organizzato direttamente dall’ufficio del gran capo e tutti, ma proprio tutti vengono a vedere il torneo. Anche Mandolina verrà, ne sono sicuro”

“Mandolina? Chi? Quella che lavora qui? Perché se ne è andata? Che coincidenza! Quando mi hai chiamato stavo proprio realizzando che saranno un paio di giorni che vengo qui e non mi pare di averla incontrata”

Lo sguardo serio di Faust si fa più intenso.

“Amico mio – nuovo profondo sospiro – sei più grave di quello che pensavo. Sono ormai quindici giorni, quindici, che vieni qui, dalla mattina alla sera e, sebbene tu creda che nessuno se ne sia accorto, lo sanno tutti che stai sempre a fissare il bancone dove stava lei”.


lunedì 28 marzo 2011

DRAMMI AL LUPPOLO di Carlo Sperduti


In cui il termine “dramma” non è certo da intendersi come componimento destinato alla rappresentazione scenica ma come vicenda triste e dolorosa.
Uno
Il dramma di un uomo che entra in un pub e s’avvicina al bancone con l’intenzione di effettuare la più banale delle ordinazioni. Il dramma di un uomo la cui parola s’arresta sulla prima lettera della qualità di birra desiderata, l’unica gradita. Lo sbigottimento di un individuo al di là di un bancone che vede un cliente impallidire, interrompersi e allontanarsi senza aggiungere altro. Gli interrogativi di un individuo al di là di un bancone che vede un cliente scegliere il tavolo più defilato, sedersi lentamente e assumere un’aria tanto pensierosa quanto affranta quanto disperata quanto il dramma di un uomo che è stato appena mollato da una donna chiamata Chiara

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venerdì 18 marzo 2011

GRASSO BRUNO (parte 2 di 2) di Aristide Bellacicco

Una settimana dopo, ancora per il freddo, era andato a rifugiarsi nel posto più vicino, che era la chiesa di sant’Alberta della Misericordia, in via Lubecca. Il pastore Grucio, mentre officiava la funzione delle dodici, aveva subito notato dall'altare quell’uomo enorme e con la barba lunga che sonnecchiava su un banco della terza fila. Dopo la messa era andato a parlargli. Non aveva capito bene di cosa si trattasse, ma la spontanea distinzione di quel signore, i modi ducati e gentili e il riflesso di un’antica e particolare cultura che si sprigionava da ogni sua parola, l’avevano colpito.

Così, gli aveva offerto quella sistemazione provvisoria nella sacrestia, insistendo suo malgrado sul termine “provvisoria” e, nello stesso tempo, rendendosi conto che forse non sarebbe stata tale.

Aveva anche avuto un notevole diverbio col sacrestano, il quale proprio non capiva perché bisognasse trasformare la sacrestia in un dormitorio pubblico.

‘Ma no’ aveva replicato il pastore Grucio ‘è solo per una persona e provvisoriamente. Non ci darà nessun fastidio.”

Ma il sacrestano aveva insistito con atteggiamento caparbio e risentito, come se fosse un secondo padrone della chiesa con tutto il diritto di avere voce in capitolo. Allora Grucio aveva tagliato corto dicendo che se non gli stava bene poteva anche andarsene, con tutto che gli dispiaceva, ma la decisione spettava solo a lui e ormai era deciso.

Ora, Karolus era consapevole del debito di riconoscenza che aveva verso il pastore Grucio. Non solo per il letto e il poco cibo che desiderava, e nemmeno per quelle regolari consumazioni del vino da messa, ma per l’essersi esposto, per lui, alle critiche di molti parrocchiani benpensanti.. Nonostante le cautele del pastore e dello stesso Karolus, era inevitabile che un membro della comunità, entrando in sacrestia ad ore insolite, notasse la branda ripiegata e aspirasse nell’aria un odore allarmante, che non doveva esserci, qualcosa che rimandava alla strada e a una sporcizia trascinata lì da una presenza sorprendentemente estranea. Quando pure, per un occasionale ritardo o anticipo, non si imbattesse, di mattina o di sera, in quella figura enorme, deformata dal grasso bruno, spesso irsuta, male in arnese e non perfettamente lavata, che stazionava con imbarazzo in quell’angolo della sacrestia e sorrideva inchinandosi. Eppure, nel modo in cui diceva ‘buonasera’ c’era qualcosa che disponeva all’indulgenza e, forse, in modo misterioso, a una sorta di istintivo rispetto che spingeva le persone a replicare al saluto in maniera loro malgrado gentile e riguardosa.

Nonostante ciò, mai una volta Karolus aveva detto ‘grazie’ al pastore Grucio. Farlo, gli sarebbe sembrato volgare e umiliante. Bastava il silenzio, si diceva, e la gentilezza dei modi. Anche l’accettazione della tolleranza di Grucio, certo, e la reciproca condivisione di una tenerezza non sancita da regole.

Ma per ringraziare veramente serviva qualcos’altro, che avrebbe dovuto riguardare entrambi e forse tutti, o almeno una parte di tutti.

Un giorno, Karolus avvertì un mutamento in se stesso. Era una tendenza senza preciso indirizzo, come un accenno generico a un divenire offuscato che però, alla sua sensibilità di disegnatore e progettista di storie, la diceva lunga. Gli sembrava di ritrovarsi in una di quelle gloriose giornate del suo passato in cui percepiva il nascere di un nuovo personaggio, proprio come quando aveva concepito e disegnato le prime avventure di Maria Diotallevi. Una strana e confusa gioia lo invase. Subito dopo, si accorse che stava dimagrendo. Non che si pesasse, ma i calzoni gli andavano larghi, e chiese al pastore Grucio se poteva procurargliene degli altri.

‘Prova questi’ gli disse Grucio ‘e anche una giacca, ecco. Ma che ti succede? In quel cappotto ci navighi dentro.” Gliene trovò un altro, meno abbondante, ma dopo due giorni era largo anche quello.

Karolus gli disse che andava bene così. ‘E’ il grasso bruno, pastore. Se ne va. E’ normale’.

Continuò a mendicare, ma divideva il denaro raccolto fra le bevute di wisky e una parte che non spendeva. Quando fu sufficiente, attraversò la città fino a un grande negozio di pittura e colori dove si serviva quando era un importante disegnatore.

Il padrone del negozio non lo riconobbe. Rimase stupito che un barbone facesse richieste così precise ed esigenti. Quando Karolus volle vedere un aerografo, l’uomo si accigliò.

‘Perché non spende questo soldi per mangiare’ gli chiese ‘forse le farebbe bene.’

Karolus si guardò i calzoni e strinse la cinghia di un buco.

‘Fai presto, Edmund’ disse ‘io sono Karolus. Dammi questo benedetto aerografo.’

L’uomo chiamato Edmund impallidì.

‘Karolus? Ma che dice. No. Ma che dici.”

Poi lo riconobbe. Stava per lasciarsi andare alle parole, ma Karolus lo fermò.

‘Non è il momento, Ed. Dammi tutto e l’aerografo. Forza. Il grasso bruno sta scomparendo. Io esco dal letargo. Sbrigati.’

Nonostante non capisse nulla, Edmund fece ciò che Karolus gli aveva chiesto. Mise tutto in un grande busta di plastica.

‘Ma hai ricominciato a lavorare?’ chiese ‘Voglia iddio di sì. Karolus.’

‘Dio?’ disse Karolus ‘dio non c’entra. Almeno non credo. Ma senti, l’hai più visto F.? Hai capito chi. L’amico di Stromm. L’hai più visto?’

Edmund rimase in silenzio. Poi disse:

‘No. Si serve da Herling.’

Karolus rise.

‘Meglio così’ disse ‘è un incompetente. E poi è caro. Ciao Ed.’

Karolus scese nella stazione della metropolitana che era lì vicino. Scaricò il contenuto della busta davanti al muro che stava proprio di fronte alle biglietterie. Era bianco,vuoto, come se respirasse in solitudine aspettando un grande disegnatore di storie che lo liberasse dallo spreco di esistere.

Karolus riempì l’aerografo e cominciò.

“Le avventure di Marta Diotallevi” scrisse.

All’inizio la gente non ci fece caso, pensando che fosse uno dei tanti perduti che cercava qualche soldo. Ma molti si fermarono dopo le prime figure.

Guardavano.

‘E poi?’ disse uno.

Karolus continuò a disegnare.

Un funzionario della metro si avvicinò. Gli mise una mano sulla spalla.

‘Si sente male?’ domandò.

Karolus scosse la testa. Strinse di un buco la cinta dei calzoni.

‘Non mi interrompa’ disse ‘ il grasso bruno sta per finire.’

‘Ah’ diceva la gente, che era sempre di più ‘ e poi? Come mai Marta non si uccide? Certo, ecco. E poi?’

Alla decima scena Marta cominciava a scrivere un diario.

‘Ma sì disse la gente ‘ è così che bisogna fare. Non tacere nulla. Bravo. E poi?’

Marta Diotallevi faceva una cosa straordinaria, incredibile. La gente applaudì.

‘E poi ?’

Nessuno scendeva più verso i treni. Compravano il biglietto ma poi restavano a guardare la storia di Marta Diotallevi.

Il funzionario della metro fece un passo indietro.

‘Fantastico’ disse ‘Vuole qualcosa da mangiare?’

‘Sto quasi per finire’ disse Karolus.

La gente aspettò. All’ultima scena molti dissero ‘oh!’ e si fermarono a pensare alla propria vita.

Karolus lasciò cadere l’aerografo. Era così magro che quasi non si vedeva.

Cadde a sedere ai piedi del muro tutto disegnato.

‘Aspettate’ disse ‘manca ancora il finale.’

‘Forza’ disse la gente ‘finisci.’

sabato 12 marzo 2011

GRASSO BRUNO (parte 1 di 2) di Aristide Bellacicco

Karolus, un obeso ex - disegnatore di fumetti, durante gli ultimi mesi della sua vita abitò nella sacrestia della chiesa di Sant’Alberta della Misericordia, in via Lubecca.

Aveva una brandina sistemata accanto all’armadio dei paramenti e degli arredi sacri e poteva servirsi del bagno attiguo agli uffici parrocchiali. Era una sistemazione scomoda e quasi inverosimile, ma Karolus non se ne lamentava, perché gli era toccato assai di peggio. Per circa sei mesi era stato ospite non gradito dei vagoni della sotterranea, poi si era trasferito su remote panchine della stazione centrale e, per un certo periodo, aveva trascorso intere giornate a Villa Prussia, vagabondando di giorno e dormendo la notte su un improvvisato giaciglio di cartone.

Quella sacrestia offriva molti vantaggi a un uomo disposto ad accontentarsi di poco. Di notte era riscaldata, non ci veniva nessuno fino alle sette del mattino e, soprattutto, gli sportelli dell’armadio non erano mai chiusi a chiave. Quando il bisogno di bere lo svegliava in piena notte, Karolus poteva servirsi con discrezione del vino della messa, di cui c’erano sempre un paio di bottiglie sul ripiano più basso. Il pastore Grucio lasciava correre e persino il sacrestano, che vedeva Karolus come il fumo negli occhi, dopo un po’ aveva smesso di minacciarlo.

Alle sei e mezza del mattino Karolus si alzava, si lavava alla meglio senza spogliarsi e usciva attraversando la chiesa vuota. La regola era che non si facesse vedere fino all’ora di pranzo, quando mangiava qualcosa in piedi vicino alla brandina ripiegata e usava un paio di volte il gabinetto. Da quel momento, tornava solo verso le nove di sera, a funzioni concluse, e si metteva a dormire dopo aver ingoiato alla svelta un piatto di minestra o un panino che gli portava il sacrestano.

Ciononostante, non dimagriva. La sua enorme pancia globosa sembrava inattaccabile persino da quel regime fin troppo frugale e dalle lunghe ore che trascorreva camminando senza meta da un capo all’altro della città. Aveva raggiunto quel peso considerevole negli anni del successo e delle grandi mangiate e bevute con i colleghi e gli editori, quando il suo insaziabile appetito era diventato una leggenda, e poi era rimasto così a dispetto della rovina, dell’abbandono e del dolore.

Karolus era convinto che il grasso del suo corpo non avesse ormai nulla a che vedere con il cibo.

Mesi prima, su una rivista recuperata da un cestino della carta straccia, aveva appreso che nel corpo dei mammiferi esiste un tipo di grasso, chiamato “grasso bruno”, di cui si servono gli orsi e altri animali per sopravvivere durante il letargo. La cosa l’aveva molto incuriosito. Sebbene nella specie umana le riserve di grasso bruno siano ridotte a pochi residui , così diceva quell’articolo, cosa gli impediva di pensare che le sue traversie avessero provocato un sovvertimento metabolico tale da trasformare in durevole grasso bruno la spessa coltre adiposa che avvolgeva il suo addome?

Proprio così, aveva riflettuto Karolus con la rivista spiegazzata ancora in mano, io sono entrato in letargo tre anni fa, ho fatto un passo indietro nell’evoluzione e mi sono trasformato in un plantigrado o in una marmotta. Quel poco che mangio si converte in grasso bruno e rimane fisso al suo posto, mantenendo inalterato l’aspetto del mio corpo.

In effetti, l’intero andamento della sua vita sembrava confermare questa ipotesi.

In estate o in inverno, col sole o sotto la pioggia, Karolus passava le ore in un’infinita migrazione che aveva come unico scopo il procurarsi qualcosa da bere. Grazie alla carità del pastore Grucio, vestiva abiti appena meno che dignitosi, che però gli permettevano di entrare in un bar e di chiedere una grappa senza doversi piegare all’umiliazione di pagare in anticipo. Era solo un tipo male in arnese, come in città ce n’erano tanti. Quando mendicava, il suo atteggiamento spontaneamente distinto aveva un certo successo. Si avvicinava ai passanti con discrezione e gentilezza e diceva sempre la stessa frase:

‘Signore, mi perdoni. Non voglio importunarla. Lei non immagina quanto mi vergogni. Abbia pazienza e mi scusi. Grazie, grazie tante.’

Rimediava una decina di euro al giorno, che corrispondevano a sei bicchierini di grappa o a tre di wisky, a seconda dei bar. Per questo beveva quasi solo grappa, anche se preferiva lo scotch, di cui una volta era stato un notevole e pignolo intenditore.

Karolus conosceva a memoria i cinque o sei posti in cui era possibile ottenere un pasto caldo senza pagare. Nei primi tempi dopo il naufragio era andato spesso a sfamarsi in quei refettori dove suore e volontari distribuivano buon cibo in cambio di niente, e aveva addirittura pensato che sarebbe potuto andare avanti così per sempre. Naturalmente, lì si beveva solo acqua, e Karolus era disposto ad accettare questa inspiegabile violenza in ragione del fatto che chi non paga non ha diritto ad avere gusti o abitudini, è evidente. Ma una volta gli era capitato di trovarsi con il vassoio in mano davanti a un signore di mezza età che, maneggiando un bel mestolo nuovo, distribuiva maccheroni al sugo.

Era J.Stromm, il suo vecchio capo redattore. Si erano guardati negli occhi.

‘Karolus’ aveva mormorato Stromm ‘Karolus.’

Si era fermato col mestolo a mezz’aria.

Karolus gli aveva sorriso come niente fosse.

‘Stromm, che piacere. Ah, bene, vedo che hai deciso finalmente di salvarti l’anima. Ma che bello. Forza, dammi la pasta.’

Era andato a sedersi a un tavolo insieme a una mezza dozzina di signore e signori reduci da storie complicate e fallimentari, e lì era rimasto mezz’ora ad agitare la forchetta nel piatto senza infilzare nemmeno un maccherone. Nella scodella accanto, la carne e le patate si stavano freddando, al che il suo vicino di posto, un tale di una quarantina d’anni vestito con un eskimo e con occhiali da presbite, gli aveva detto che, se proprio non aveva fame, forse poteva rimediare lui, sempre che fosse d’accordo, è chiaro. Le persone che hanno fame senza che questa sia per loro una tradizione di famiglia tendono ad essere molto gentili, di solito, e Karolus gli aveva detto ‘prego, con piacere’, e se n’ era andato.

Non che non avesse fame (a quel tempo ne aveva sempre) ma non se la sentiva di mangiare il cibo servitogli da Stromm. Aveva vinto la tentazione di tornare a chiedergli come mai le avventure di Marta Diotallevi fossero poi state pubblicate a firma di quell’incompetente di F. (Marta, l’ultima e più bella invenzione del suo libero spirito di scrittore di storie a fumetti) ed era uscito per la strada pieno di idee di vendetta. Poi aveva mendicato per quasi un’ora con notevole fortuna, raggranellando il necessario per sei wisky, quella volta. Li aveva ordinati e bevuti in altrettanti bar, uno dopo l’altro, percorrendo lunghi tratti di marciapiede allo scopo distanziare i luoghi del godimento perché gli apparissero più desiderabili. Due giorni dopo aveva trovato quella rivista che parlava del grasso bruno e la sua visione della vita era profondamente cambiata.

Per prima cosa, aveva smesso di preoccuparsi del cibo. Ne ho abbastanza di mio, aveva pensato, sta qui, sulla pancia, come una fortificazione. Non devo più chiedere, e se sapessi come dividerlo fra gli altri, potrei addirittura donare. Grasso bruno, solido, a lenta consumazione. Altro che i maccheroni di Stromm.

Aveva trascorso due settimane solo bevendo e ricapitolando a memoria le avventure di Marta Diotallevi. Era addirittura riuscito ad inventarne altre due, straordinarie, ‘povero Stromm’ aveva pensato. Poi era andato a Villa Prussia. Era novembre. Da un cassonetto nelle vicinanze aveva estratto un paio di cartoni da imballaggio per televisori e ne aveva lacerato con attenzione i bordi per ottenerne due superfici abbastanza ampie da servirgli come letto una volta affiancate. In un supermercato si era procurato un rotolo di nastro adesivo col quale aveva unito i cartoni nel senso della lunghezza. Adagiato lì sopra, in angoli lontani e poco frequentati della villa, aveva dormito per notti e notti, rifugiandosi talvolta per il freddo nelle rovine di un padiglione abbandonato, finche una mattina il guardiano l’aveva trovato. Era venuta l’ambulanza, ma Karolus aveva rifiutato di farsi portare in ospedale. ‘Ho il grasso bruno’ aveva detto ‘è tutto a posto.’

Dietro l’ambulanza era arrivata la polizia, c’era stata qualche minaccia, gli infermieri insistevano insieme al guardiano (non può stare qui, ci vengono i bambini, questo ci resta secco, e se lo trovano i bambini?), ma i poliziotti sbadigliavano e così l’avevano lasciato andare via.

(continua)

sabato 5 marzo 2011

TEQUILA SUNRISE di Antonietta De Luca

Tra poche ore, di nuovo al lavoro. Le stoviglie in disordine sul tavolino circondato da sedie viventi solo la sera prima. Anche Norah Jones la guardava storto dalle pareti, mentre nel lettore girava ostinata la sua canzone.

Aveva giurato di non posare nuda per nessun motivo ed era bastato un qualunque turista dotato di reflex a soffiarle giù i veli, un po' di più appena del suo abituale Tequila Sunrise di fine serata. Faceva un gran caldo e Brian stava già per cominciare la sua giornata di osservazioni. All'alba le scriveva sempre due righe che riceveva regolarmente prima di andare a letto. Il sole era un piatto di arance, un frisbee che ruotava contro vento, il sole contava le ore alla rovescia.

- Posso entrare?

- Sì, Jim, vieni. Già fatto colazione?

- Ho già stampato qualche foto!

- Vedere, vedere...ma...queste...sono le....Isole Kerguelen! Non eravamo là ieri sera!

- Lo so, lo so, le ho montate sulle immagini di un viaggio di molti anni fa.

Sunrise era finita da un pezzo e la giornata avanzava a passi incerti. Quel che accadeva alle diverse latitudini del settantaquattresimo meridiano circa era sempre meno prevedibile. Ai tre gradi di Port aux Français, Brian non aveva caldo quanto lei, ma forse il desiderio di scaldarsi man mano che scendeva il sole sì, forse aveva voglia di uno specchio dove ritrovare la veranda esposta al mare.

- Fammi guardare meglio... Dov'eri qui?

- Qui ero a Desolation, l'isola più grande, ci ero andato per un reportage.

- Ma non ci abita nessuno lì!

- No, ma se ti interessa un paesaggio un po' più urbano, guarda questa.

Elly osservò a lungo le costruzioni della stazione di ricerca che accoglieva i ricercatori giunti lì da ogni parte del mondo a studiare gli oceani, i ghiacciai e le correnti. Sapeva che erano meno delle foche ormai estinte, dei pinguini, delle orche e degli uccelli marini, conosceva la forza dei venti gelidi e l'altezza impressionante delle ondate antartiche. Lo sapeva proprio mentre Jim pensava di averle scatenato un'emozione che li riguardava entrambi esclusivamente.

Al levarsi sempre più caldo e deciso del giorno, i dettagli divenivano più nitidi e il succo di frutta era finito. Le piacevano molto quelle immagini e lei, lei doveva averlo colpito davvero. Gli chiese di lasciargliele e le sparpagliò sul tavolo accanto al pc da dove lavorava per gli uffici di Free Source. Di tanto in tanto posava gli occhi sulla Val Studer, sul ghiacciaio Cook, sui fiordi dove andava a pescare Brian nel tempo libero. Quello là in fondo poteva essere lui...

A Notre-dame des Vents, la cattedrale sul Golfo di Morbihan sul quale affacciava la stazione di ricerca, nel frattempo, Brian studiava le carte nautiche per le previsioni meteo da inviare a New York.

Da quando era lì, non aveva incontrato nessuno come Sheila, era con lei che avrebbe passato la serata tra video e cognac: due amici di sempre. Abbastanza evidenti entrambi gli escamotage solo per sconfiggere il freddo.

Non sapeva esattamente perché avesse scelto la missione laggiù, forse la conoscenza, ma più un bisogno di ritrovare la sua libertà più profonda, quella smarrita tra rituali e abitudini, tra costrizioni e abrutimenti da civiltà piene solo di rapporti causa-effetto rovesciati.

- Lo ami ancora?

- Sì, certo. E tu?

- Naturale.

- E allora?

- Mah, direi che forse è solo che ogni atto d'amore deve essere libero.

- Cioè?

- Che se un atto d'amore non è libero, allora non è neanche d'amore. E io questo l'avevo un po' perso con Elly. Sto solo cercando me.

- Era tanto che non mi sentivo così in amicizia, sai, che non avevo occasioni di dialogo così sincero, diretto, senza remore.

Sospese il disegno che andava tracciando sull'ultimo foglio di un bloc notes di carta riciclata e sorrise, così, senza guardarla. Era così rilassata e lunare, si fidava ed era ormai vuoto il suo verre de cognac.

Al risveglio, un vortice bianco si avvolgeva sui tetti gonfiando le vele: cinquanta nodi, direzione New York. Sheila era ancora sotto la doccia, Brian alla radio a dichiarare l'allarme e sul tavolo in disordine, accennato appena nei lineamenti esotici, il volto di Elly a carboncino.

Dicevano tutti somigliasse a una donna di Gauguin. E anche in quel momento era alle prese con una cosa tipicamente pittorica: preparare cocktail per i gli amici invitati nel dopocena, indorarsi l'abbronzatura di fard, vestire un abito leggero, lungo e coloratissimo. Seminando libri dalle copertine vivaci per casa, la donna dimenticava malinconicamente il sole rosseggiante pronto a passare ad occidente il testimone del giorno e la concitazione della veglia di un'altra avventura di rotazione del pianeta.

...perché se la vuoi fare buona la Tequila Sunrise, devi concentrarti solo su di lei, la bevanda più famosa del Messico. E con le giuste dosi di succo d'arancia, di sciroppo di granatina e di agave, basterà decorare con una ciliegia al maraschino quanto di più dissetante una cultura sappia realizzare dentro un semplice bicchiere highball con ghiaccio. La fotografia che osservavi in mattinata sarà ormai solo un'immagine di cristallo e l'effetto sunrise sarà garantito.

Dopo la tempesta, rimasero solo l'architrave e poche parti di mura infrante, la temperatura era così bassa che anche gli abiti che portava indosso durante il comunicato radiofonico andavano ancora bene. Erano perfetti anche solo per pensare di poter ricostruire tutto in un solo giorno, così, quando fosse tornata lei, sarebbe stata ancora la veranda soleggiata di sempre, il suo corpo, quello in seppia ritratto da Jim, il suo viso, quello dai lineamenti a carboncino rimasto sul tavolo tra le dita di Sheila.

Era stata la prima a accarezzarla al suo arrivo a Desolation, a guardarla con tenerezza aiutandola a incarnarsi dopo la sua vita su carta. E mentre le due donne si abbracciavano al sole calante, i due uomini lavoravano al sole nascente.

Il disco suonava nel lettore sfumando in granatina il gusto di storie di storie nella fine d'inizio della stagione superstite: erano, per le donne e per gli uomini, le aurore e i tramonti, un sorso senza vento di Tequila Sunrise.

sabato 26 febbraio 2011

RACCONTI DA SALOTTO

Di un Facebook. Di un click di Rossana Carturan

Ticchettava sulla tastiera quando lo sguardo si posò distrattamente sulle mani. Le fissò, non si era accorto che delle piccole macchie scure erano affiorate. Il segno dell’età, pensò.

Con un gesto istintivo le tirò indietro. Vecchio, disse tra sé, o ancor peggio anziano.

Sì, perché anziano ha qualcosa di definitivo, vecchio invece è qualcosa che puoi cambiare, rinnovare, almeno lo speri.

Spostò il pensiero e continuò a contemplare quella miriade di nomi e cognomi che continuavano a ballonzolare davanti ai suoi occhi e che premevano per avere la sua amicizia. Non aveva idea di chi fossero o cosa volessero, eppure si rapportavano come amici di sempre, confidenti nel buio di quel sistema dalla veste limpida, ma ancor più putrida, chiamato Facebook. Tutti ne parlano male, chi con sofismo, chi con ipocrisia, rifletté, ma nessuno si allontana.

E’ come una malattia esantematica, ti dici: spostati, se no mi contagi. E poi sei sempre lì.

Si alzò un momento, prese un bicchiere di vino, tornò a sedersi e pronunciò a bassa voce: Il vino. Cosa c’è di più fedele del vino? Non bara lui, quando è con te non può alterarsi, non può corrompersi e soprattutto non ti chiede mai l’amicizia. Lui la ha e basta.

Un’altra lucina rossa in basso al monitor segnalava: Veronica X ha fatto richiesta…

Un click ed io e questa bella ragazza siamo amici- continuò – un click e trent’anni di differenza si annullano. Un click e sono sostenitore di cause mondiali. Se tutto fosse in un solo click potrei porre fine a questo orrendo senso di abbandono che devasta la mia, già precaria, stabilità; e magari con un click potrei far sparire le macchie o anche qualche anno, perché poi in fondo a me servono anni in più e nessuno se ne accorgerebbe, proprio come qui. Un click che non frega niente a nessuno!

Ci sono click facili, click che costano poco e click che non partono. Proprio come questo. Continuo a clicckare ma il rifiuto non parte. Eh già, perché poi in fondo siamo un mondo positivo, dove basta considerarsi buoni per essere creduti- bevve un altro sorso continuando a fissare il monitor e scorrendo la lista degli amici - Tutti belli! Tutti con quel qualcosa in più che in giro non trovi. Io no, io mi metto lontano, voglio che quando aprano su di me per scoprire la foto, si avvicinino con il muso al monitor per capire che espressione ho. Voglio che mi stiano lontano.

Ritornò a guardarsi le mani, provò a strofinare illudendosi che quelle macchie fossero indice di uno sporco momentaneo. Invece no, erano lì, perfette, immobili, a imbrattare il proprio tempo.

Sorrise con gli occhi umidi e ciccando su un nuovo amico, sbuffò : un altro minuto e poi vado.

Il bilboquet di Re Sole. di Angelo Tozzi

“Ascolta, Louis, non è possibile. Quello che chiedi non si può fare! Sei un re ma a tutto c’è un limite.”

Charles, era l’unico che poteva dare del tu a Louis XIV. E, soprattutto, era l’unico che aveva il permesso di dirgli no. Nessuno sapeva perché.

“Ma io lo voglio!” urlò Louis, battendo a terra i tacchi.

“E fatti un bagno, almeno una volta nella vita! Puzzi come un caprone!”

“Sentite chi parla... voi puzzate come una putain d’antan, con tutto il profumo che vi spruzzate dalla mattina alla sera.”

“Lo fai anche tu. Quelle parrucche... lasciamo perdere.”

Ovviamente, queste discussioni avvenivano in privato. Ma il tu ed il no, Charles li usava davanti a tutti. E Louis usava il lei, sempre.

“Non cambiate discorso. Io voglio il bilboquet! Io-voglio il-bilboquet! Lo-voglio-e-basta-il-bilboquet!” cantilenò Louis, ritmando con il battito delle mani.

“Ti dico che non si può! Mon Dieu! Oltretutto, lo trovo anche infantile e non adatto a un Re.”

“Ora mi dà del Re? Non ha il permesso.”

Charles fece un inchino “Mi hai stufato. Vado a déjeuner.”

“Faccia come le pare ma io lo voglio! Lo esigo, lo pretendo, devo avere quel bilboqueeeeeeet! E’ mio!”

Senza più nessun controllo, Louis cominciò a ballare.

“Non lo avrai mai, non p-u-o-i a-v-e-r-l-o! N-o!”

“E io invece l’avrò.”

Ormai era una vera fissazione quel bilboquet. Gli erano stati presentati i modelli più fantasiosi e preziosi ma lui diceva no, licenziando tutti con un gesto svogliato della mano. Voleva quello e solo quello.

Occorre una piccola spiegazione su cos’è un bilboquet.

E’ una specie di piccola tazza a cui è legata, con una cordicella, una sfera di diametro adatto a entrare nel foro. I materiali utilizzati sono i più vari, perfino l’avorio. Il gioco consiste nel lanciare in aria la sfera, per poi cercare di farla entrare nel foro della tazza. Il tutto si esegue con una sola mano. Facile a dirsi. Ma difficilissimo a farsi.

Questo era ciò che voleva Louis XIV. Però non lo voleva di legno, né d’oro e diamanti. Lui voleva il bilboquet con la tazzina di bronzo e la sfera d’oro. Solo che la sfera era un uovo. Esattamente, quello della famosa gallina.

“Io l’avrooooooooo!”

sabato 19 febbraio 2011

NON SO SE SOPRAVVIVERO’ A QUESTA VITA - Cronaca 6 di BdM

Avevo passato il pomeriggio in Biblioteca, a sfogliare le prime pagine della documentazione che avevo richiesto su i misteri d’Itala ed era stato tutta una serie di ovvie conferme alternate a scoperte stupefacenti. E chi se lo sarebbe mai aspettato che la nota soubrette fosse implicate nel traffico mondiale di sostanze radioattive? Tutti pensavamo che quelle fossero semplici pajettes.
Mandolina aveva già un appuntamento per quella sera, e Caravaggio già mi squadrava torvo, così mi ha proposto di contattare una sua amica per una serata in un locale.
Il simulacro della Brunetta dei Ricchi e Poveri organizzava un’uscita a quattro e aveva bisogno di un accompagnatore per Mata Hari. Hammurabi, un tipo silenzioso ma simpatico e mooolto generoso a sentire lei, avrebbe completato il quartetto. Appuntamento davanti al locale “Apocalipse Bau”, il cui proprietario era ovviamente cinofilo e cinefilo.
La brunetta era un ciclone di parole, mentre Mata tutto un gioco di sguardi e ammiccamenti e Hammurabi, dopo un grugnito di saluto, si è chiuso nel suo personaggio di statua vivente o quasi.
Almeno mezz’ora per entrare, si era formata una coda. Coppi e Bartali si erano incontrati sull’ingresso e ognuno dei due voleva cedere il passo all’altro. “Prima tu, prego” “Ma no, prima tu” “Io non oserei mai passarti davanti” “Figurati se io ti costringerei a guardare il mio di dietro”. Alla fine sono riusciti a coordinarsi per entrare contemporaneamente anche se con una certa fatica.
Il locale era pieno di gente e di una luce forte e calda, molto accogliente, ma che almeno all’inizio non mi permetteva di capirne le dimensioni. Ci siamo seduti al bancone, piuttosto largo che sembrava svilupparsi in lunghezza senza fine con una schiera di barman a servire da bere. Con una certa sorpresa mi accorsi che sarebbe stato il simulacro della Sharapova ad occuparsi del nostro servizio.
Stavano allestendo il palco per la band che avrebbe suonato e la Sharapova ha cominciato a servirci. Causa lo spessore del balcone era costretta ad allungarsi per porgerci le bevande e ad ogni allungo emetteva il suo famoso gemito – “Ah!” – che ha reso così popolare il tennis tra schiere di maschi che prima avevano sempre snobbato la racchetta e il suo mondo.
La brunetta parlava, parlava e ogni tanto prendeva la mano di Hammurabi, che al contatto cominciava a sorridere addolcito e un po’ beota, per poi, quando le mani si staccavano, tornare nel suo personaggio di statua. Mata, oltre a comunicare con lo sguardo, ogni tanto cercava di emettere delle frasi di cui però riuscivo solo a percepire il suono, tanto erano sospirate a mezza bocca, ma non ne afferravo il senso. Guardandola negli occhi però era facile capire l’intenzione. Piuttosto “burrosa” la Mata, forse perché anche quassù è vietato fumare nei locali, e non solo l’praticamente dappertutto, e il suo bocchino - dotato di una sigaretta finta, quelle fatte di chewingum - non le bastava come surrogato e, quindi, aveva finiti tutti i salatini e stuzzichini vari. Da bravo cavaliere provvedevo a chiederne ancora alla Sharapova così che questa, sempre impeccabile nel servizio, si allungava con l’effetto collaterale già descritto, rendendomi dolce la serata.
“Bello il locale, vero?” chiedeva conferma la brunetta ogni cinque minuti.
“…..” concordava Hammurabi
“Non male anche se ho visto di meglio” per una volta scandiva nette le parole la Mata.
“Ah!” si allungava la Sharapova
“Bello sì, venite spesso qui?” il mio sforzo per tener viva la conversazione.
E la Brunetta cominciava a fare l’elenco di tutti i locali che frequentava con annessa classifica suddivisa per generi, qualità del servizio, gente che li frequentava ecc. ecc. . L’annuncio dell’inizio del concerto ha interrotto quel fiume di parole.
La band era quanto di più eterogeneo potessi immaginare: alla voce Vittorio Alfieri, Ritchie Blackmore alla chitarra, W.A. Mozart alle tastiere, alla batteria uno vestito da Spiderman, al basso Madre Teresa di Calcutta. L’inizio fu mozzafiato: la voce di Alfieri veniva trascinata in alto dalla chitarra virtuosissima di Blackmore, e sostenuto dalla sezione ritmica intensa e pulita, il tutto nell’atmosfera armonica e magica costruita dall’Hammond di Amadeus. Sorpreso dall’attacco del concerto ho sorriso verso la Brunetta, proponitrice della serata. Questa mi ha ricambiato con uno sguardo che mi ha stupito a sua volta, tipo “speriamo bene”. Troppo incuriosito mi sono avvicinato a lei non badando allo sguardo in tralice di Hammurabi e le ho chiesto il motivo.
“Se quelle due teste matte non si mettono a sperimentare, va tutto bene”
Ha risposto lasciandomi con i miei dubbi, ma ho lasciato cadere la cosa anche perché la Sharapova continuava a servirci sempre gratificandomi col suo gemito che, ora coperto dalla musica, mi gustavo guardando il movimento delle labbra. Quando se n'è accorta mi ha sorriso. Da quel momento non ho più badato a quello che succedeva nel locale, guardano solo lei e continuando a scambiarci sorrisi. Almeno fino a quando la baraonda non mi ha svegliato al mio sogno ad occhi aperti.
Sul palco succedeva l’incredibile. Madre Teresa aveva strappato la chitarra di mano a Blackmore e aveva cominciato un assolo col distorsore da brividi, il batterista si era completamente denudato ad eccezione della maschera e di un tanga leopardato, Mozart, dopo aver legato Alfieri allo sgabello del pianoforte, si era impossessato del microfono e rappava. Il pubblico in delirio, soprattutto quando Teresa ha cominciato a fare salti tipo Pete Townshend e uno vestito con una toga, Caligola mi hanno detto dopo, è salito sul palco e si è tuffato sul pubblico. Adesso era Teresa a rappare e Amadeus con l’altro microfono le faceva un tappeto ritmico a rutti , il batterista abbandonato lo strumento si improvvisava cubista danzando sull’organo Hammond, mentre Blackmore tentava di accompagnare in sottofondo con l’ocarina. Tutto il locale ballava e un gruppo di martiri dei primi cristiani, con tanto di leone al seguito, è salito sui tavoli danzando freneticamente seguito da un altro gruppo composto da carmelitane scalze che quando sono state invitate a scendere dalla security hanno detto di no perché qualche scalmanato aveva rotto dei bicchieri e loro non volevano ferirsi.
Nella bolgia il nostro quartetto si è perso di vista. Io non mi sono disperato, anzi. Ho pensato che valesse la pena aiutare a metter a posto e, magari, aspettare la Sharapova. Lei ha apprezzato il mio gesto e quando le ho chiesto se potevo accompagnarla a casa, m’ha guardato negli occhi e m’ha risposto:
“Ah!”