lunedì 29 giugno 2009

LA PRINCIPESSA CON IL SINGHIOZZO Favola di Francesca Pichirallo e Pasquale Bruno Di Marco


«Hic! hic! hic!» Furono queste le prime parole appena nata e da allora la principessina, bellissima come tutte le principessine delle favole, non riusciva a farselo passare. Era una normalissima principessina delle favola, sedeva a tavola insieme al re e alla regina, andava a correre nel parco del castello (bello davvero, un castello da favola), giocava a moscacieca, a muffarialzo, a pallavvelenata, a mazzapicchio, e rideva felice e contenta come una principessa. Solo il singhiozzo non le passava mai ma ormai ci aveva fatto l’abitudine. E anche il re e la regina non ne erano troppo disturbati, era la loro unica figlia e nessuno avrebbe osato prenderla in giro, a quel tempo ci si metteva poco a far tagliare la testa a qualcuno troppo irrispettoso.
Ma gli anni passano anche per le principessine e anche lei diventò una principessa a tutti gli effetti, ossia un bel personale, una bella dote e quindi la necessità di un bel principe come marito. Ma qui cominciano i guai perché i primi pretendenti sentendola parlare in modo così saltellante a causa del perenne singhiozzo inventavano una scusa per tornarsene a casa e non si facevano più vedere.
Il re e la regina si resero conto che occorreva fare qualcosa e chiamarono il più importante cerusico del loro regno. Si presentò un ometto basso, capelli lunghi e bianchi, così come la barba, e grossi occhiali sul naso. Visitò la principessa, le auscultò la schiena, le fece tirare fuori la lingua, guardo con una grossa lente dentro gli occhi e dentro le orecchie ed infine sentenziò: il grave disturbo poteva essere curato con una dieta di due giorni a base di cipolle, da ripetere ogni due settimane.
La principessa, il re e la regina pensarono che due giorni non sono poi molti e quindi la poverina si chiuse in camera per due giorni, per non avere tentazioni, e mangiò la quantità prescritta di cipolle. Quando uscì dalla stanza corse dai genitori gridando di gioia.
«Sono guarita, sono guarita».
Il re e la regina le andarono incontro a braccia aperte ma quando furono a portata di fiato fecero una faccia disgustata e si tapparono il naso senza abbracciare la poverina.
La cura per disintossicare funzionò ma tornò anche il singhiozzo e pure più forte di prima
Il re e la regina chiamarono allora il più importante cerusico del regno confinante a ponente. Si presentò un uomo alto alto e magro magro, capelli a scodella rossi rossi, come la barba, e grossi occhiali sul naso. Visitò la principessa, le scruto le orecchie, le fece fare dei piegamenti sulle ginocchia, guardò con una grossa lente dentro gli occhi e dentro il naso ed infine sentenziò: il grave disturbo poteva essere curato con una dieta di una settimana a base di fagioli, esclusivamente fagioli.
La principessa, il re e la regina pensarono che una settimana passa presto e quindi la poverina si chiuse in camera per non avere tentazioni, e mangiò la quantità prescritta di fagioli. E di nuovo, quando uscì dalla stanza corse dai genitori gridando di gioia.
«Sono guarita, sono guarita».
Anche stavolta il re e la regina le andarono incontro a braccia aperte ma quando abbracciarono la figlia questa cominciò a fare una serie infinita di puzzette e allora fecero una faccia disgustata, si tapparono il naso e corsero via seguiti dal maggiordomo e dal gran ciambellano.
Per un po’ desistettero scoraggiati ma infine decisero di provare il più importante cerusico del regno confinante a levante. Si presentò un uomo grasso grasso, capelli a rasati, come la barba, e grossi occhiali sul naso. Visitò la principessa, le scruto le mani, le fece tossire, guardò anche lui con una grossa lente dentro gli occhi, dentro le orecchie e dentro il naso ed infine sentenziò: il grave disturbo poteva essere curato con una dieta di un mese a base di fragole, esclusivamente fragole.
La principessa, il re e la regina pensarono che un mese non passa poi così presto ma in fondo le fragole sono buone e neanche causano effetti disgustosi per l’odorato e quindi la poverina si chiuse in camera per concentrarsi meglio, e mangiò solo fragole per il periodo prescritto. Quando, dopo un mese, la principessa uscì dalla stanza corse dai genitori gridando di gioia.
«Sono guarita, sono guarita.»
Il re e la regina le andarono incontro a braccia aperte un po’ circospetti ma si bloccarono guardandola in faccia: aveva il viso coperto di macchioline rosse, e anche le mani, tutto il corpo. La principessa si guardò allo specchio e per la delusione ricominciò a singhiozzare.
Per fortuna almeno l’effetto delle fragole passò dopo poco tempo, ma il problema non era stato risolto, e ancora qualche giorno e sarebbe giunto un pretendente da un paese lontano e ricchissimo. Questo principe del sud si era innamorato della principessa vedendola in ritratto, e sebbene non conoscesse nulla di lei né del suo paese era deciso a sposarla.
Tutti erano preoccupati ma il gran ciambellano ebbe una grande idea: organizzare per l’incontro tra la principesse e il suo pretendente un ballo a corte durante il quale tutti, ma proprio tutti dovranno fingere di parlare in hicchese, ossia parlare singhiozzando come se quella fosse la lingua del posto. E allora tutti, ma proprio tutti si impegnarono ad organizzare la cosa, anche perché non ne potavano più di quella storia, e facevano le prove tutti i giorni per imparare a parlare bene con il singhiozzo, addirittura il musico di corte inventò per l’occasione il ballo del singhiozzo.
Tutto andò alla perfezione: il principe straniero rimase stupito dal modo di parlare di quella strana gente, ma dopo un po’ si abituò e non ci fece più caso. La principessa era più bella che nei ritratti che aveva visto e lui era sempre più innamorato. Il re e la regina gli parlarono, in perfetto hicchese, della loro figlia così bella anche se così delicata per il clima del loro paese. Il principe straniero si offrì subito di sposarla e portarla a vivere nel suo paese. Il re e la regina decisero di non perdere un minuto e l’indomani mattina si celebrò il matrimonio, subito dopo i due sposi salutarono tutti e partirono per il sud.
Dopo qualche tempo arrivò una lettera della principessa ai genitori in cui annunciava che ormai non singhiozzava quasi più e il marito, al quale aveva raccontato che stava perdendo il suo accento originario, ne era davvero contento.
E aggiungeva che erano così felici che avevano deciso di avere due bambini, o forse tre.

(pubblicato in data 29 giugno 2009)

lunedì 22 giugno 2009

EFFETTO DOMINO di Pasquale Bruno Di Marco


L’appuntamento era dietro casa subito dopo mangiato. Mario arrivò dieci minuti dopo di me.
«Ma che ti sei portato dietro tua sorella?»
Prima di rispondere serrò le labbra gonfiando la bocca come faceva ogni volta che si sentiva in difetto.
«I miei non vogliono che resti sola che combina un sacco di guai.»
«E che guai può fare una bambina di dieci anni?»
«Tu non la conosci, pensa che la settimana scorsa ha preso le medicine dall’armadietto del bagno, le ha pestate tutte insieme e le ha fatte mangiare al cane dei vicini. Quelli si sono incazzati con i miei.»
La osservai con attenzione, piccola, secca secca e con due codini neri ai lati della testa, non faceva una grande impressione. Era una delle solite balle di Mario. Sbuffai.
«Ma mica possiamo fare la missione con lei appresso.»
«Tanto questa non parla quasi mai e poi magari ci aiuta.»
«Ma se è una femmina di dieci anni.»
«Pure tu hai dieci anni.»
«Si, ma io sono maschio. Uffà, vabbè andiamo, però se la missione fallisce è tutta colpa tua.»
Volevamo introdurci nella “casa”, un edificio abbandonato ad un piano circondato da un muro scrostato e fatiscente. Passammo da una breccia sul lato opposto alla via principale e attraversammo il giardino incolto che sembrava la jungla di Sandokan vista in tv la sera prima. Io aprivo la pista spostando i rami e nel farlo mi accorgevo del tremore delle mie mani. Volgendomi indietro incontravo il volto pallidissimo di Mario, quasi incollato alla mia schiena. La sorella ci seguiva più distaccata, con aria assente, ma certo a lei non tornavano in mente tutte le storie che gli altri ragazzini ci avevano raccontato sulla “casa”, storie di diavoli, di streghe, di fantasmi, ma, soprattutto, di vampiri. La missione era appunto trovare la coppa d’oro che, secondo quel ciccione di Saverio, era nascosta là dentro e che raccoglieva i denti da latte che i vampiri cambiavano quando diventavano adulti. Chi li trovava poteva diventare invisibile, diceva Saverio. Mario invece, chissà perché, si era messo a sostenere che facevano volare chi se li metteva in tasca. Saverio si mise a canzonarci, poi ci ha sfidato a trovarla per dimostrare quello che dicevamo. E quindi eccoci qui: questa era la nostra missione.
Le porte e le finestre della casa erano tutte sbarrate, ma girando intorno notai che sotto il terrazzino di ingresso, sul cui parapetto erano allineati una serie di vasi di coccio pieni di scheletri vegetali, c’era una finestrella semiaperta.
«Da lì» sussurrai a Mario, lui annuì e mi spinse avanti.
Mi introdussi a fatica tanto era stretta l’apertura, il posto era buio e con quell’odore di umido e di polvere che ti riempie subito naso e gola. Mi mossi verso la porta della stanza, mentre Mario cercava di entrare come avevo appena fatto io, bisbigliando alla sorella che come al solito non rispondeva. Urtai qualcosa che, con effetto domino, fece crollare una serie di ombre nere causando un fracasso terribile. Mi bloccai, rimasi qualche istante immobile in ascolto e, quando sentii una voce cavernosa sbraitare da dietro la porta che stavo per raggiungere, mi si gelò il sangue. In preda al panico mi precipitai verso la finestra. Mario era già schizzato chissà dove e io mi arrampicai su oggetti marci e pieni di ragnatele cercando di uscire disperatamente. Intanto sentivo che qualcuno o qualcosa era entrato nella stanza, ruggendo. Mi infilai, anzi mi tuffai nello stretto passaggio della finestra. La luce del sole, finalmente.
Ero quasi completamente all’aperto e mi accingevo ad alzarmi per mettermi a correre quando mi sentii afferrare per una caviglia. Non ebbi il coraggio di guardare indietro, cercai di liberarmi scalciando ma inutilmente.
Mi sentivo tirare verso quella voce che rideva e bestemmiava. Le porte dell’inferno sembravano essersi spalancate dietro di me e io ci venivo risucchiato dentro. I capelli dritti in testa per il terrore parevano bucarmi il cranio, le mie mani disperate cercavano di afferrarsi all’erba che si strappava facilmente, ero perso, senza speranza, finito, stavo per urlare, quando un rumore secco ed improvviso spezzò quella risata demoniaca.
La presa sulla mia caviglia si allentò. Non riuscii a muovermi per chissà quanto tempo, tremando aggrappato all’erba. Poi, trovando il coraggio non so dove, decisi di girarmi e vidi la testa dell’uomo schiacciata da un pesante vaso di coccio. Alzai lo sguardo lentamente scorrendo il muro, centimetro dopo centimetro, fino al bordo del parapetto del terrazzino da cui mancava uno dei vasi. Al suo posto vedevo le spalle e la testa della sorella di Mario con uno sguardo che non ho mai saputo definire.
Da allora stiamo insieme, prima amici inseparabili, poi, un giorno, lei ha deciso che eravamo diventati fidanzati. Come adesso che ha deciso che tra tre mesi ci sposeremo.
Decide sempre lei.
Ogni volta io vorrei dire la mia e apro la bocca per cominciare a parlare. Ma lei mi fissa, seria, intensa, e io rivedo quello stesso sguardo che vidi sul terrazzino tanti anni fa e che ancora non so bene definire.
E non dico più niente.



(pubblicato in data 22 giugno 2009)

lunedì 15 giugno 2009

BATTAGLIA NAVALE di Pasquale Bruno Di Marco


La luce del sole entrava dalle finestre scorrevoli dell’aula e inteporiva l’aria rendendo ancora più soporifera la voce monotona del professore che espletava la sua funzione docente con annoiata meccanicità. Roteando il capo alla ricerca di qualcosa che mi impedisse di addormentarmi incontrai lo sguardo di Alessio B., un figlio di papa anzi in questo caso di generale o ammiraglio, uno che ci teneva sempre a mostrare la sua superiorità, sia con i compagni che con i professori. Veniva a scuola accompagnato da autista e, quando si degnava di rivolgere la parola a qualcuno, parlava sempre di onore e dignità e delle armi di suo padre, generale o ammiraglio. A me faceva un po’ ridere che uno di terza media si esprimesse così, ma, allo stesso tempo, mi metteva in soggezione. Un atteggiamento competitivo-compusivo, mi hanno spiegato dopo e comunque, in genere, Alessio B. vinceva le sue sfide. Un cucciolo della razza padrona chiosò mio padre quando gliene parlai. Coperto dalle spalle del compagno davanti, mi mostra un foglio con due quadrati bordati in orizzontale dalle lettere da A a L e in verticale dai numeri da 1 a 10. Chiaro: una sfida a battaglia navale. E’ l’ultima mania dello stronzo, ormai ha già battuto tutti. Sono uno dei pochi che manca. A gesti, senza farsi vedere dal professore, mi spiega che i compagni che siedono ai nostri lati faranno da garanti e verificheranno che nessuno bari. La flotta è quella classica: una corazzata da 4 caselle, due incrociatori da 3, 3 cacciatorpedinieri da 2, e 4 sommergibili da 1. Tentenno, un po’ per timore che il professore ci veda e ci punisca, un po’ per timore della sua abilità nel gioco. Ma non posso tirarmi indietro. E sia! Schiero la flotta sul riquadro di destra cercando di immaginare quali possano essere i posti più adatti. Comincia lui. Acqua. Poi io, acqua. Andiamo avanti così per un po’, finchè mi colpisce un incrociatore. Esulta in silenzio. Mi rifaccio, colpisco qualcosa. Lui continua, mi rendo conto che la sua è una tattica studiata a tavolino. Traccia con una serie di colpi delle linee, dividendo il campo. Io vado più che altro a culo. Continua a colpire i miei pezzi. Le cacciatorpediniere da 2 me le fa fuori quasi subito. Io vado spesso a vuoto, poi centro qualcosa e perdo tempo a finirla: è un incrociatore da 3 ma ci vogliono troppi colpi. Intanto lui si accanisce sulla mia povera corazzata. La mia rabbia si stempera immaginando il dramma dei minimarinai che cercano di scampare al naufragio in quel mare quadrettato. Continuo a colpire a vuoto per un po’, poi rintraccio le sue cacciatorpedieniere e ne affondo due in rapida successione.
E’ meno baldanzoso il bastardo, per un momento mi pare preoccupato, poi mi fissa di nuovo, truce, e, con un colpo preciso, becca uno dei due miei sottomarini superstiti. Situazione disperata: ho un solo sottomarino e l’incrociatore colpito all’inizio e che, evidentemente, vuole finire con calma. Lui due sottomarini e la corazzata.
Sparo una lettera e un cifra a caso: colpito. Cavolo, è la sua corazzata! Lui fa una smorfia ma poi si ricompone, sa che è in netto vantaggio. Cerca ancora il mio sottomarino per poi finire l’incrociatore. Io mi accanisco sulla corazzata. Lui, scientifico, non si scompone più continuando la sua ricerca. Ho segnato i suoi colpi vedo che restringe molto il campo di azione. Lui spara: acqua. Tocca a me: colpito il sottomarino! Si! sono in vantaggio io adesso. Gliene rimane solo uno!
Freme, io godo, ma subito mi gela con una combinazione alfanumerica che per me potrebbe essere la formula del più potente dei veleni. Ha affondato il mio ultimo sottomarino! E dai colpi tirati può capire la posizione del mio incrociatore danneggiato. Praticamente due colpi e mi affonderà tutto. Lui ha solo un sottomarino, ma è un’unica casella in un mare quadrettato che, mai come ora, mi pare sterminato. Lo sa, e ghigna luciferino. Sudo. Ho solo due colpi, due possibilità. Sparo il primo, guarda il suo foglio, si fa serio, poi si gira verso di me e, allargando il sorriso più beffardo che può, mi dice:
«Acqua!»
Poi lascia partire un colpo preciso sul mio incrociatore che ormai immagino in preda alle fiamme e in procinto di affondare in un gorgo tipo la nave di Achab. E lui è la balena bianca che ride con tutti i suoi enormi fanoni. L’ultimo colpo per me, poi sarà finita. Punto la matita su una delle caselle bianche, quasi sfondo il foglio, come se volessi infiocinare quel capodoglio ghignante alla faccia mia, e sparo. Lui non si muove, il compagno vicino, il garante, che lo stava spalleggiando fino ad allora sorridendo compiaciuto ogni volta che centrava un bersaglio, fa una faccia strana e si tira indietro. Lui non si muove e non parla. Allora mi alzò, sento che il brusio della voce del prof che ha fatto da sottofondo a tutta la battaglia si è interrotto, ma non mi interessa, metto una mano su foglio di Alessio B. e lo abbasso sul banco in modo da poterlo leggere. Il suo sottomarino superstite era proprio nella casella che avevo appena indicato.
«Siiii! T’ho fregato, bastardo!» mi ritrovo ad urlare.
Chiaramente finii dal preside. Tre giorni di sospensione e il rischio di non essere ammesso agli esami di terza media. Sudai per superarli. Alessio B. invece si ritirò dalla scuola, frequentò scuole private, accademia militare e via di seguito.
Quest’anno si candida come sindaco. Razza padrona.
Quasi quasi lo voto.


(pubblicato in data 15 giugno 2009)

lunedì 8 giugno 2009

LA NOTTE CHE SALVATORE… SALVO’(!) LA CITTA’


«Alle giostre! Alle giostre!»
Salvatore si affrettava con il suo carrettino carico di bruscolini. Le giostre attiravano gente e quindi buoni affari per lui che amava il suo lavoro di bruscolinaro. Ombrello sotto braccio, come sempre anche se era bel tempo, e cappello in testa, a passi brevi ma veloci, girò l’angolo della chiesa pronto a rispondere ai saluti di tutti, che Salvatore il sindaco lo conoscono tutti e tutti lo ascoltano quando espone le sue incredibili idee per abbellire la città facendosi grandi risate.
Rimase a bocca aperta di fronte a quello spettacolo inaspettato. Nessuno sulla giostra dei calcinculo, nessuno a fare la fila alla cassa, nessuno in giro a passeggiare, nessuno a chiamarsi l’un l’altro da lontano, nessun bambino a piangere per lo zucchero filato. Nessuno. Strizzò gli occhi Salvatore, incredulo.

«E’ uno scherzo, mi fanno sempre gli scherzi, si sono nascosti. »

Lui capiva quando gli facevano gli scherzi ma li assecondava lo stesso, perché lo scherzo è come una favola e, a quelle, Salvatore ci credeva. Mise il carrettino in quello che riteneva un buon posto per la vendita e cominciò ad affacciarsi agli angoli nascosti.

«Cucù! … cucù! .. .cucù!»

Al quarantottesimo cucù Salvatore si arrese: non c’era davvero nessuno. Si sedette, posò ombrello e cappello, sbuffò e si grattò la testa, questo scherzo proprio non gli piaceva. Si prese la faccia paffuta tra le mani e decise di aspettare.
Intanto avrebbe lavorato su una nuova idea per fare la città più bella e gioiosa.
Il suono meccanico della giostra che cominciava a girare su se stessa fece ruotare anche lui. Le luci si accesero mentre gli altoparlanti cominciarono a diffondere la musica.

«Bello, comincia la festa, ma la gente dov’è?»

Tutto accelerò improvvisamente, la giostra ruotava sempre più vorticosa con i sedili così allungati in orizzontale che quasi non si distinguevano più, e la musica, era tanto velocizzata, da venir trasformata in un suono indistinguibile.
Poi, di colpo, silenzio.
Un lampo condito con un “pof!” e due figure si materializzarono di fronte a lui.
La prima somigliava ad una lavatrice con i piedi, la seconda ricordava piuttosto un bidone aspiratutto. Avanzarono verso Salvatore che li guardò con curiosità più che con sorpresa, come quando il bidone cominciò a parlare.

«Salvatore, veniamo da un pianeta lontano e abbiamo viaggiato anni luce per arrivare qui e poterti incontrare.»

Momento di pausa.

«Questo è il grande ambasciatore… − qui si udì un suono irriproducibile − e io sono il portavoce-traduttore e mi chiamo… − altro suono irriproducibile, ma meno roboante – la nostra civiltà è tecnologicamente molto avanzata, le nostre conoscenze sono enormi, non c’è problema che non possiamo risolvere.»

Salvatore inclinò la testa di lato.

«Le nostre città gareggiano per superarsi in bellezza ed efficienza. Siamo praticamente in grado di fare tutto ma il nostro limite è la fantasia. E così ti spiamo da anni e ci siamo ispirati alle tue idee.»
«Le idee mie?»
«Certo. Ogni ciclo solare le nostre città si sfidano per realizzare opere che le rendano più belle. L’edizione scorsa abbiamo vinto ispirandoci alla tua idea dei fuochi di artificio che esplodendo facevano le immagini dei santi. L’edizione di questo ciclo solare abbiamo realizzato precisamente il tuo progetto del mare in città.»
«Si, ma il mare sopra, così quando cammini per strada e ti viene fame alzi una mano e ti prendi un pesce.» precisò Salvatore
«Proprio così è stato realizzato ed è stato un grandissimo successo. La nostra città ha vinto il titolo di nuovo grazie a te.»
«Bello… bello.»
«L’ambasciatore, in rappresentanza dei nostri concittadini, vuole ringraziarti realizzando le stesse cose qui nella tua città.»
«Qui? Nella mia città?»
«Si, realizzeremo quelle che hai già proposto e, soprattutto, tutte quelle che la tua fantasia suggerirà d’ora in poi. Le realizzeremo prima qui, sulla terra, e poi le esporteremo sul nostro pianeta.»
«Che bello come saranno contenti tutti i bimbi… gli amici.»
«No, loro no.»
«Ma siii! Ai bimbi piacciono i fuochi di artificio e il mare e…»
«Loro non ci saranno, li porteremo via insieme a tutti gli altri. Sono capaci solo di ridere alle tue idee, senza realizzarle e quindi non le meritano. Rimarrai tu, vero sindaco della città, e nessuno altro così potremo sperimentare liberamente tutto quello che la tua fantasia saprà inventare.»
«Solo io?...»
«Solo tu e nessun altro.»
« ...e gli amici?»
«Nessuno.»
« …e il compare?»
«Nessuno”
« ...e la comare?»
«Nessuno.»”
« ...e mi’ fratello?»
«Nessuno.»

Silenzio.
Salvatore fissò alternativamente il bidone e la lavatrice.

«NO!»
gridò, con la voce incrinata come stesse per piangere, e colpì con l’ombrello prima la lavatrice e poi il bidone
«NO! …i bimbi …gli amici …la comare ...mi’ fratello …e per loro che voglio fare tutto, è per loro il mare, per loro il cinema con la banda e la madonna con l’elicottero e i fiori che si gonfiano e diventano sedie…»

E continuò a colpirli con l’ombrello finché un raggio uscì dall’oblò della lavatrice paralizzandolo momentaneamente.

«Ehm …Salvatore un momento, forse troviamo un accordo.»

disse il bidone ruotando sul suo asse rivolgendosi sia all’umano che alla lavatrice. Cominciò quindi uno strano ballo emettendo i soliti suoni irriproducibili mentre girava intorno alla lavatrice. L’oblò di questa, intanto, si illuminava e continuava a cambiare passando da colori accessi e caldissimi a quelli freddi ed intensi.
Quando finalmente l’oblo della lavatrice si assesto su un lillà pallido, il bidone smise di girare e si rivolse di nuovo a Salvatore.

«Ascolta Salvatore, facciamo un patto: tu continuerai qui sulla terra insieme ai tuoi amici, ai bimbi, alla comare e al compare...»
«E a mi’ fratello!” fece Salvatore con tono deciso.
«…ad inventare nuove idee e noi avremo il diritto di sfruttarle sul nostro pianeta.»

L’oblo della lavatrice cambiò improvvisamente l’intensità del colore

«...in esclusiva!»

aggiunse il bidone ristabilendo la precedente.

«Stampo subito un atto, visto che sono un modello traduttore-notaio… ecco qui ora l’ambasciatore con suo laser lo sigla… e ora tu.»

Mostrò il foglio a Salvatore, che ancora arrabbiato, ci sputò sopra.

«Perfetto il tuo DNA in forma salivare va più che bene. Così il patto è sancito. Addio Salvatore.»

Di nuovo l’effetto precedente con le luci, la giostra e la musica che riprendono lentamente per poi accelerare ed intensificarsi e quindi, dopo aver raggiunto un livello quasi insopportabile, ritornare alla normalità.
Salvatore, che aveva chiuso occhi e orecchi, li riaprì piani piano ritrovandosi al centro della festa con la giostra dei calcinculo che girava piena di gente, gente in fila alla cassa, altri che passeggiavano, altri ancora che si chiamavano da lontano, qualche bambino che piangeva per lo zucchero filato. Si guardò intorno con gli occhi lucidi incantato dalla festa, finchè si sentì tirare per la giacchetta.

«Salvato’ me lo dai o no ‘sto pacchetto di bruscolini?»
«Si! Mille lire!»


(pubblicato in data 8 giugno 2009)

domenica 7 giugno 2009

NUOVI TERRITORI INESPLORATI

Introduzione


Onore a ‘Il Territorio’ che ha aperto alla narrativa, con la rubrica fissa ‘Il Racconto’, dandoci la generosa possibilità di pubblicare ogni settimana, una pagina letteraria affidata a Sergio Corsetti, cui và il nostro grazie.

Ognuno di noi ricorda bene quando ricevette l’invito ad imbarcarsi per questa avventura rivelatasi piena di soddisfazione letteraria e umana.
Bruno, ricorda quello del suo collega ed amico Sergio Corsetti. Adesione la sua, che lo ha reso protagonista, con racconti e illustrazioni di diverse uscite settimanali.
In tempi diversi, lui stesso ha innescato un circuito virtuoso di inviti, a scrivere od illustrare.
Senza pretese di garanzie solo fiducia verso chi con lui aveva già condiviso esperienze di scrittura anche a più mani.
Infatti a chi in questo periodo ha fatto una corsa all’edicola per trovarne una copia, sono diversi i racconti risuonati familiari, da noi letti e scritti negli anni con l’Anonima Scrittori, come tanti sono stati i racconti nuovi scritti per l’occasione.

P.A.R.A.D nasce dallo stimolo di continuare a condividere e partecipare ad un progetto comune, allo scopo di divertirsi e confrontarsi giocando con la scrittura.
Un piccolo gruppo di amici che al bar piuttosto che in piazzetta, casualmente s’incontra.
E per noi, Bruno, Daniela, Aldo Franca e Paola scoprirci compagni d’avventura ancora una volta è stato rassicurante, possiamo stare e fare bene insieme, sulla stessa barca per una stessa rotta a raccontare seppur con stili diversi – ma questo è un vantaggio per il lettore.
Parole da mettere insieme per raccontare la vita perché - nelle storie - anche la fantasia può avvicinarsi alla realtà.

Quando fai parte della storia, tutto è più semplice e umano di quello che sembra a guardarlo da fuori.
L’entusiasmo e la gioia sono immediati ed è così che Franca Aldo Daniela Paola e Bruno si fanno P.A.R.A.D. ciurma sulla nave della fantasia e dell’immaginazione, sempre col vento in poppa!

Ed ora, tutto raccolto in un libro.


Prefazione
di Sergio Corsetti
vicedirettore de “IL TERRITORIO”

Galeotta fu una battaglia navale. Una sfida alla ricerca di corazzate e fregate avversarie tra due giovanottoni di scuola media che si stavano un po’ sulle balle, conclusasi con un secco: “Sììì, t’ho fregato bastardo”. Così nascono i racconti P.A.R.A.D. nella rubrica settimanale de Il Territorio. Mi era giunto un commento positivo sul “collega”. Lo riportava entusiasta Maria Corsetti in redazione: “Ieri sera ho ascoltato bellissime e affascinanti storie raccontate in piazza San Marco da Pasquale Bruno Di Marco”. Sì, il mio “collega” di scuola. Da qui i complimenti prima e la proposta poi. Proposta non indecente, semplicemente quella di voler narrare storie affascinanti sulle pagine di un quotidiano. Da allora metodico, “svizzero” come sono solito dire, mi giungono i “pezzi” che posso gustare in anteprima. Racconti che hanno contribuito a farmi riscoprire il gusto per la narrazione fantastica, a uscir fuori dalle catastrofiche notizie di cronaca o di politica. Che hanno un po’ il sapore della nostalgia, che ti fanno tornare in mente il parente o l’amico che da ragazzino ti raccontava situazioni talmente inverosimili… da crederci ugualmente. Come quando lo zio Pippo, in passato emigrato in Argentina, restituì il pallone che il mare aveva strappato al bambino ingenuo che era in me inventandosi di sana pianta l’intervento dei suoi ex colleghi di oltre oceano. O le storie raccontate al bar. L’incipit era sempre lo stesso: ma la sai quella… come se si trattasse dell’ennesima barzelletta sui carabinieri. Abitudini perse nel tempo. Storie che non vengono raccontate più neanche ai bambini quasi si abbia timore a parlare di personaggi di fantasia.
Per non parlare, poi, delle illustrazioni. Vere e proprie chicche. Studiate per diventare un tutt’uno con la storia narrata, per arricchire il gusto della lettura. Quindici minuti di svago che ti consentono di giocare per un po’ così come nello spirito degli autori. Quindici minuti che ti possono far vedere il mare di sopra, in modo da prendere i pesci più facilmente come fa Salvatore il sindaco.
La narrazione è chiara, semplice, scorre lineare acchiappa il lettore, lo cattura. D’altronde non si sceglie casualmente “l’hicchese”.
Poi alla fine, come del resto capita anche a Salvatore il sindaco, resta il trauma del dover tornare alla realtà quotidiana. Tornare alle storture e alle ingiustizie. “Salvatò, me lo dai o no questo pacchetto di noccioline? Sì, mille lire” è il brusco risveglio.
La raccolta dei racconti sicuramente risulta gradevole e accattivante; riesce a sgombrare le nuvole. Venghino signori venghino, il motto della donna cannone, potrebbe diventare l’invito a leggere e a scoprire l’interessante gioco che P.A.R.A.D., Profumo, Acciarino, Rindi, Ardetti e Di Marco intendono regalarsi e regalare …come fosse un gioco.
“Nuovi territori inesplorati” in attesa di curiosi e giocherelloni esploratori di tutte le età.
Ps A volte si resta anche sconcertati come nell’ultimo racconto di Profumo: si era certi della presenza di Noemi a Napoli, sì proprio quella di papi Silvio, e la ritroviamo corrispondente di moda a Milano. Misteri della fantasia.