venerdì 11 febbraio 2011

VENEZIA E LA FAVOLA USCITA MALE di Rossana Carturan

Un omaccione mi fermò all’entrata. Il suo occhio sprezzante mi fece intuire che c’era qualcosa che non andava. Non ero avvezza a certi riti e capii solo dopo un po’, grazie anche ad un suo cenno, che ero entrata a spalle nude. Uscii e chiesi a Giulio di sfilarsi la camicia. Mi mostrò un’espressione boteriana. Pensava fosse una perversione nata da chissà quale impulso immorale. Risi. Gli dissi che nella piccola chiesa, a braccia nude, mi era vietato entrare.
Affondò le rughe in uno splendido sorriso e mi accontentò.

Entrai in sordina, la maestosità della navata centrale, assolutamente inaspettata, era inquietante. Sola, immersa tra le raffigurazioni, l’abside, i colori impolverati, le miriadi di risposte, con cuoricini vellutati, foto di miracolati a testimoniare le grazie ricevute, aumentava il senso d’angoscia e di oppressione.
Giulio era fuori, a pochi metri da me, eppure sembravo catapultata in una dimensione irreale. Avanzai quasi sfregando i muri, avvolgendomi con le braccia.
In seconda fila, su uno degli inginocchiatoi vidi una sagoma. Mi avvicinai piano, continuando a consultare la guida. Era un barbone, aveva in mano un rosario e lo sguardo fisso alla navata destra. Incuriosita, sbirciai. Contemplava, continuando a sgranare, una statua. Quando fui vicinissima mi accorsi che non era una Santa, solo una scultura in marmo canoviano, rappresentante una fanciulla con un oggetto tra le mani. Volevo capire meglio cosa fosse, quando l’uomo mi bloccò.

- Non la tocchi, è una maledizione!

- Ridicolo! Maledizioni qui?

Abbassò la testa, come un fante nella sconfitta di waterloo. Il suo abito malconcio ed un cappellaccio rosso sul capo attribuirono l’idea del quadro francese riprodotto in un comunissimo libro di storia. Mi pentii subito dell’aggressione, così gli sedetti accanto. Speravo nell’assoluzione. Taceva, assorto nella disfatta. Tossii per sottolineare la mia presenza. Si distolse per un attimo e negli occhi umidi in un lieve borbottio mi mise in mano il rosario. La barba sudicia e incolta non celava la bellezza del volto e le dita affusolate si muovevano con eleganza. Mi carezzò il viso con una naturalezza disarmante. Iniziò a parlarmi in francese. Non capivo nulla, ma la grazia del suono inchiodò ogni mia sillaba. Inebetita, riuscii a chiedere malamente perché fosse spaventato da quella statua.
Si ritrasse subito, si alzò e claudicante uscì.

Confusa da quei pochi attimi, da quella notte veneziana che imprigiona magicità ignoranti, come un automa mi riavvicinai alla statua. L’oggetto in mano era uno specchio. Una ragazza, una vestale forse, con la testa china.
Un solo istante mi aveva stremato. Consultai svogliatamente la guida e la trovai. Un trafiletto seguito da una minuscola foto, riportava una storiella, una leggenda, per cui una giovane donna, specchiatasi davanti a Dio, divenne pietra.
Ve ne erano milioni di aneddoti simili, in ogni luogo, e questo non fraintendeva la comune banalità, eppure quell’uomo garbato e il suo terrore non bugiardo mi avevano scosso. Un’attrazione, tipica del mistero, mi spingeva sempre più verso la creatura di marmo. La osservai attentamente. Era scolpita male, le proporzioni degli arti erano in conflitto con il busto e la testa. L’artefice di sicuro non eccelleva nella sua arte, eppure era lì, tra i dipinti del Tintoretto.
Le fissai il volto. Una somiglianza straordinaria al clochard l’aveva. Non era un delirio o suggestione di quel luogo così diverso dai suoi simili, era vero. I visi sembravano la riproduzione l’uno dell’altro. Ero incantata da quella singolare coincidenza. La guida faceva risalire la scultura al 1800, per cui era assai improbabile che i due potessero avere qualcosa in comune.
Presi un po’ di coraggio, andai verso il portone e chiesi all’omaccione dell’entrata se ne sapesse qualcosa di più. Scosse la testa, mi disse solo che l’originale non era quello, bensì una copia fatta da un maestro locale, su commissione, alla fine degli anni 60 e che dopo l’esecuzione sparì maledicendola.
Pensai subito al vagabondo. Molto fiabesco, è vero, ma i conti tornavano, vista la sua presumibile età. L’omaccione, che nel frattempo si era reso più gradevole, intuì il mio pensiero e scosse nuovamente la testa.

- Non è lui. Lui è Antonio, da quasi vent’anni viene qui due o tre volte al giorno.

Mi narrò in breve la sua storia. Insegnante di lingue, ebbe una figlia che in età adolescente fu seviziata e uccisa da uno sconosciuto. Da allora si era lasciato andare, viveva in un cartone di fianco la chiesa e quando era sicuro di essere solo entrava per pregare, forse, sosteneva l’uomo che subdolamente insinuava anche altro. Sentii lo stomaco torcersi. Perché un uomo, reduce da un passato abietto, entrava a pregare una fanciulla pietrificata?
Era buio ormai, Giulio, stanco di aspettare, se ne era tornato in albergo. Salutai il custode ed uscii. Girai per le calli, in cuor mio speravo di ritrovare Antonio, anche solo per restituirgli la carezza. Inutile.
Per giorni lo cercai senza alcun risultato e così l’ultima mattina, prima di lasciare Venezia, presi la guida ed annotai a matita:
"La fanciulla è sempre lì, con la sabbia nelle vene di un compiersi disperato in attesa del devoto che le sleghi la speranza..."

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