venerdì 4 febbraio 2011

TOCAI UNGHERESE di Aristide Bellacicco

Gunther mi aveva parlato a lungo di quel vino. Me ne aveva addirittura scritto. La sera del mio arrivo a Berlino est, nel dicembre del 1988, ne vuotammo insieme tre bottiglie a cena.
- Questi vitigni – mi spiegò Gunther – hanno attecchito che è una meraviglia. Si direbbe che la campagna attorno a Budapest sia lo loro seconda patria. E’ un vino internazionalista, se mi passi l’espressione.
Gunther era un gentiluomo comunista, romantico e disperato. Credo che negli ultimi anni si fosse messo a bere su serio e che i discorsi sul vino avessero preso il posto di tutto ciò che in lui, via via, era diventato silenzio.
Quando riempiva i bicchieri – sempre prima il mio – commentava le sfumature del bianco e dell’aroma come se quel bicchiere fosse ogni volta unico. Stava molto attento a non versarne nemmeno una goccia sulla tovaglia.
- Il vino – diceva – non deve lasciare tracce né sulle tovaglie né sulle persone. Deve entrare e uscire come se avesse la chiave di casa, senza sforzo. Credimi Angelo, tutta la vita, senza un po’ di delicatezza, non è che uno sgorbio.

Dopo cena mi invitò a fare un giro per la città.
- Ma non prendiamo la macchina – mi disse – se ti va andiamo in autobus. In macchina c’è sempre qualcuno che sta a sentire. E poi con l’autobus è più divertente.
Girammo fino all’alba su autobus vuoti, attraversando Berlino est in tutte le direzioni. Credo di aver visto posti dove i comuni visitatori non erano mai arrivati. Gunther mi indicava portoni, case di abitazione, palazzi immensi nelle periferie e piccole costruzioni apparentemente senza importanza, disseminate un po’ ovunque.
Sapeva tutto su tutto.
Nel frattempo, non la smetteva di parlare del vino. Anche su quello sapeva tutto.
- Il tempo passa – mi disse a un certo punto – e guasta ogni cosa. Solo il vino, quello buono, col tempo migliora. Non è solo questione di invecchiamento, questa è una sciocca ipocrisia umana. E’ un processo attivo, invece: il vino riflette su se stesso, e corregge le proprie imperfezioni. Non lo fa mica per noi, il vino non sa nulla degli uomini che lo berranno. Ma è nella sua natura, non può fare altrimenti.
Lo guardai.
- E noi invece sì – dissi.
- Noi invece sì – disse Gunther.

Alle cinque ci fermammo esausti a bere un caffè in un bar che aveva appena aperto.
- Ma non ti va un bicchiere? – mi chiese Gunther.
- E perché no – risposi – Cosa può cambiare, ormai?
Ordinò ancora una bottiglia di Tocai ungherese.
Lo bevemmo lentamente, un sorso alla volta, fino a quando fuori si fece chiaro.
Faceva freddo e cominciò a nevicare a fiocchi sottili.
- Ma sei sicuro? – gli chiesi alla fine
Alzò le spalle.
- Di cosa? –
- Che lo fanno a Budapest. Sei sicuro?
- Così c’è scritto sulle etichette – mi disse – Bisogna crederci. Io, almeno, devo crederci. Ma tu sei libero di pensarla come vuoi.
- E’ un peccato, Gunther – gli dissi – un vino così buono. E’ un peccato.
Lui recitò qualcosa in tedesco. Sembrava una poesia. Era triste.
Poi batté un pugno sul tavolo.
- E’ tutto un peccato – disse - Sessantotto anni. E adesso tutto il vino andrà a male. Quanto ci vorrà per farne dell’altro?
Avevo voglia di dirgli qualcosa di duro e lo feci.
- Anche ammesso – dissi – che qualcuno si rimetta a coltivare le vigne. Quelle famose vigne.
Gunther mi guardò con la faccia scura. E mi fece una carezza sulla guancia.
- Esatto – disse in italiano – anche ammesso, mio caro. Quelle famose vigne.

1 commento:

  1. per favore, voglio che i miei scritti presenti su questo blog vengano eliminati. Grazie.

    aristide bellacicco

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