sabato 8 gennaio 2011

MITI....

FETONTE di Luca Baldini

In casa non si parlava mai dei Nonni e quel poco che si diceva lo sussurravano le sorelle mentre in cerchio pestavano le veccie.
Nonno Iperione e nonna Teia, si bisbigliava, erano fratelli!
Del nonno si raccontava pure che durante la guerra tradì i suoi fratelli e addirittura si schierò con Crono contro Zeus.
Elio, il papà, aveva già avuto altre due mogli, Perseide e Rodo, che insieme gli avevano dato dieci figlie tra cui Circe e Pasifae.
La mamma Climene invece era figlia di Oceano e di Teti ed era nata qui.
Durante la sua gioventù ebbe anche lei turbolenti amori, prima fu data sposa a Giapeto e poi sposò a suo figlio Prometeo.
Dopo che in Caucaso il figlio amante trovò la terribile fine e dopo che in agosto anche la sorella Perseide sparì, fu presa da Elio.
A lui dopo tante femmine generò un figlio maschio bello come il sole: Fetonte.
La Egle, la Astride, Dioxippe e la Elie, la Febe, Fetusa e la Lampezia, le sorelle più grandi allevarono il fratellino in giochi e coccole.
Ma Fetonte stravedeva solo per il padre che era per lui un vero dio.
Il suo desiderio più grande era condurre il carro che ogni giorno il padre guidava intorno al mondo.
Elio che amava il figlio quando fu abbastanza grande acconsentì ma lo avvertì: non troppo alto né troppo basso, figlio mio.
Fetonte partì e subito sentì nelle braccia la forza dei cavalli che trainavano il sole, si emozionò sciogliendo le briglie per lasciarli correre poi volle frenarli, ma era la prima volta, era inesperto e le bestie, già irrequiete, invece si infiammarono, prima salirono al cielo bruciandone la volta su cui rimase una scia bucherellata di luci color latte e poi, quando lui spaventato tirò forte le redini, scartarono bruscamente verso il suolo facendolo avvampare.
Distrusse tutta la Libia prima di risalire e correre via verso nord incapace a arrestare la corsa del suo carro.
Zeus per fermarlo non esitò a fulminarlo con una saetta.
Colpito Fetonte fu sbalzato dal carro dai cavalli che ripresero la corsa di sempre. Cascando nel vuoto come una stella cadente si inabissò nelle acque del Po a Crespino tra Ferrara e il mare, le sorelle impaurite piangevano lacrime di ambra e mentre disperate affondavano le mani nel fango della riva si trasformarono pioppi argentati lungo le sponde del fiume che aveva inghiottito e spento lo splendente fratellino.
Lì un’iscrizione ricorda
HIC SITUS EST PHAETON
CURRUS AURIGA PETERNI
QUEM SI NON TENUIT MAGNIS
TAMEN EXCIBIT AUSIS

Qui giace Fetonte,
auriga del cocchio di suo padre;
anche se non seppe guidarlo,
egli cadde tuttavia tentando una grande impresa.




A CENA CON L’OLIMPO di Rossana Carturan

Era stato così ogni giovedì. Era iniziato tutto per gioco, una sera e poi il rito si era ripetuto con semplicità e facili consensi. D’improvviso però tutto si era fermato e nessuno sapeva perché.
E così decisi io per loro. Dovevamo tornare insieme, anche solo una sera. Preparai tutto.
Donne, anime così diverse che da tempo avevano in comune, tra mille emozioni e dubbi, una passione: L’amicizia.
Non amavo truccarmi molto ma decisi di coprirmi il volto con un velo di cipria, forse a celare quegli anni prepotenti che si insinuavano insistentemente. Gli specchi non ingannano, lo sguardo lucido primeggiava e nonostante la matita continuasse a spingere per definire serenità, una ruga non ne volle proprio sapere. Il suono deciso del campanello mi annunciò l'arrivo di L. La più giovane tra noi, bella, suadente e geniale. Le ultime notizie la davano sposata con uno svedese, un tipo loquace ed energico che aveva incontrato ad un corso sulla potenzialità emotiva dell’arpa birmana.
Mi ricomposi ed aprii la porta. Un sorriso e l’abbracciai. La sua tranquillità spazzò via il disagio. Quando il campanello suonò ancora, con un gesto mi anticipò, precipitandosi ad accoglierle.
N., la più resistente, occhi fintamente severi e gambe lunghe tenute in pantaloni fasciati, a rafforzarne il rigore. Dietro scorsi F., minuta, con il cipiglio sempre liricamente distratto. Scivolando in frasi di convenienza, ed in teneri sorrisi, attendemmo le altre. Fu un attimo e di nuovo il campanello trillò. Ero sicura, non avevo dubbi che fosse lei. La percepii dietro l’uscio, riconobbi il tono giocoso. Aprii la porta. Sempre bella da commuovere, A., con una voce mascolina e colorata da essere discorde su quel volto dai tratti armoniosi. La seguivano S. e R. L’una ferma sulla sponda di un fiume antico, che sa raccontarti solo pensieri autentici; l’altra attratta dalla sua stessa, feroce, sincerità. Le guardai una ad una, sembrava di essere al convegno delle Muse. L, proprio come Afrodite, generata dalla spuma del mare raffigurava la dea della bellezza e dell'amore, ammorbidendo con la sua grazia ed il suo acume indiscutibile, qualsiasi sofferenza; N., Artemide, protettrice di tutte noi, coordinava ognuna, in un eterno compromesso, mordendo scherzosamente chi ostacolava il cammino F., mostrava invece la fierezza di Atena, la dea della guerra che portava alla vittoria delle arti e dei mestieri.; S. che incarnava l’espressione più morbida di Vesta, Dea del focolare, proponeva un fuoco accudente che invogliasse le commensali ad una saggezza familiare; e poi A. la nostra Demetra, Dea del grano e dei raccolti, la sensualità carnale, tangibile come la terra, indubbia come il frutto di una semina che esplode in ogni gesto. E poi R., che altro poteva essere se non Gea, dea della Madre terra, colei che da sola riuscì a generare il cielo più bello, proprio come i suoi desideri. E poi io che, come Giunone, della mia abbondanza ne feci un’amarezza. Mentre si narravano eventi divertenti, capii. Era chiaro. Ci eravamo fermate perché c’era stato un momento in cui Eros aveva dimostrato di essere davvero figlio del caos, e non poteva assentarsi da quella tavola pur volendolo, perché anche se senza Dioniso avevamo svestito la bellezza del vino, vagheggiava la sua prepotenza e non ne eravamo uscite indenni. Avevamo scoperto che Apollo incantava con la sua musica non solo le ninfe dei boschi e che Eracle era necessario anche solo per tirar su una cassa d’acqua; ovvero avevamo avuto coscienza, tutte quante, che per quanto fossimo dee di un Olimpo, l’uomo aveva manifestato in ognuna di noi la propria prepotenza, modificando umori, passioni e proponendo brecce diverse, oltre a quella gioia quasi fastidiosa a cui non si riusciva a rinunciare. Ma ora no, ora sedevamo di nuovo lì, tra dentiere e bastoni, tra capelli tinti e trucchi colanti, tra occhiali e apparecchi acustici (solo il mio), fiere di essere noi e assolutamente decise a non fuggire più alcuna esibizione.

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