domenica 27 giugno 2010

...venghino, siori, venghino...


SABATO 3 luglio 2010I° EDIZIONE DEL FESTIVAL ARTISTICO-LETTERARIO "PALCHINPARCO"(Via Campoleone Tenuta 7, Aprilia, Latina)In un’amena località dell’agro pontino si svolgerà una piccola Woodstock casereccia musical poetico letteraria immaginifica, una “all day long”, dalla mattina alla sera, da trascorrere sdraiati sul plaid ad ascoltare, esibirsi, mangiare, bere e divertirsi.Lo scopo principale di PALCHINPARCO è quello di promuovere la letteratura italiana, dimostrando che esistono numerosissimi autori, per vari motivi non ancora noti o poco noti al grande pubblico, che svolgono con passione un’intensa attività letteraria e che percorrono con grande coraggio, dato che nel nostro paese l’ambito “artistico” in generale e quello letterario in particolare sembrano essere relegati a un ruolo del tutto marginale, il cammino della scrittura, raggiungendo in molti casi traguardi qualitativi notevoli e, proprio per questo, da valorizzare e incoraggiare. PALCHINPARCO vuole dunque essere un primo tentativo di dare più visibilità a questi autori e alle loro opere. Come suggerisce il nome dell’iniziativa, però, PALCHINPARCO non vuole limitarsi al solo campo letterario: vuole infatti promuovere anche le attività, non meno preziose e importanti, di musicisti, artisti dell’immagine e attori che si alterneranno su un palco in mezzo a un giardino. Saranno dunque ospitati laboratori di scrittura per bambini e ragazzi, dimostrazioni di arte orafa e pittorica, concerti, performance teatrali, proiezioni video. Faranno da sfondo campi di grano appena trebbiati, alberi da frutta, cani e gatti.Se sei interessato scrivi un messaggio di posta elettronica a:palchinparco.info@gmail.com specificando il genere artistico in cui ti vuoi cimentare.

sabato 26 giugno 2010

UNA FAVOLA di Anna Profumo


Questa è la storia di un lungo viaggio che iniziò un giorno, ma non ancora concluso.

La ragazza aveva nella testa grandiosi sogni, nel cuore un immenso amore, nel ventre tanto spazio e ai piedi una lunga strada. Il destino la portò via dal paese di nascita per trascinarla oltre il mare, in una nuova terra dove il sole invece di sorgere sull’acqua vi tramonta.

Non sapendo bene come vi fosse giunta, ma come capita a molti, pensando di arrivare da un'altra parte scoprì ben presto la particolarità del luogo. Si trovava espressa nell'inscrizione incisa sulla pietra del palazzo principale del paese, tra un sole ed una luna stava scritto:

BENVENUTI NELLA CITTÀ DI DOLCETERRA,
QUI LA NORMALITÀ È STRANEZZA

In realtà Dolceterra sembrava un piccolo paese dove tutti si conoscono, dove vive gente cordiale e sorridente. Con quelle persone, Francesca questo era il suo nome, si sentì tra amici. La calda accoglienza solleticò in lei il buonumore e la fiducia. Arrivò a pensare, in un attimo, che tutto fosse possibile in questo bizzarro paese. Respirando forte e a fondo scoprì un caratteristico profumo: frizzante e resinoso. E mentre guardava il sole lasciare il cielo davanti se, alle sue spalle la sera si accendeva di tante piccole luci e una falce di luna.

In breve dimenticò da dove veniva e cosa e chi aveva lasciato. Incontrò persone perse e quelle mai trovate. Piovvero piogge mai piovute e splendettero soli mai sorti. Si avverò ciò che non era mai accaduto e ciò che si avverò potrebbe non essere accaduto. Certo a pensarci il luogo era bizzarro.

Posso solo dire che mi raccontò che lei era felice. Fu madre di quattro figli ma a volte di uno solo, a volte maschi a volte femmine, un giorno avevano vent'anni a volte sentiva il loro primo suono. Ognuno con personalità e carattere: ingegnosi, romantici, irosi, curiosi, vivaci o tristi ed affettuosi. Le stavano intorno come i pianeti al loro sole.
Il loro padre come loro: la mattina uscendo la stringeva e baciava un forte e rude contadino; a mezzo dì alla sua tavola si sedeva un fine ed educato signore; il pomeriggio la trascinava fuori, per mostrarle idee rivoluzionarie, un ingegnoso inventore; delle volte un dolce poeta le sussurrava parole d’amore; verso sera, sotto il pergolato, un simpatico canterino la aiutava a mettere in tavola saporiti e abbondanti piatti per la tavolata di amici e la notte un appassionato pirata la trascinava in una danza travolgente che li lasciava sfiniti tra le lenzuola.

E tutte queste normali stranezze accadevano, come accade ancor oggi, che i fiumi scorrano verso il mare.

Tutto sembrava non poter andare in modo diverso perché in modo diverso poteva sempre andare, non c'erano domande solo possibilità.

Ma un giorno, partorita dai pensieri, apparve la sua quinta figlia. Avvertì una piccola morbida mano intrufolarsi nella sua, abbassando lo sguardo vide una piccola nuova creatura che le sorrideva e con occhi intelligenti la salutava. Attraverso un bagliore emerse un fresco germoglio.
La chiamò Zoe. La piccola era leggera e trasparente, mancava di consistenza. Poi quando piangeva e chiamava mamma, Francesca la stringeva e carezzava tentando di consolarla. In poco tempo si trovava li a stringere se stessa. Disperata da quell'impotenza Francesca era afflitta.
Senza preavviso, in quello strano mondo perfetto s'era intrufolato un perché: «Perché Zoe era così?».

Intorno a questo dubbio, tutto il mondo di Dolceterra si fermò. Furono solo Francesca e la bambina per giorni, mesi.
Fino a che guardando il volto della bambina, nel suo sguardo come in uno specchio, vide se stessa bambina che domandava: «Dove andranno a finire tutte le possibili possibilità che non saranno possibili per me?». E poi: «Chi vivrà al mio posto la copia del mondo che si riflette nello specchio, e quello che si riflette nello specchio che si riflette nello specchio?».
Zoe era venuta a prenderla nel sogno in cui si era nascosta e riportarla nel mondo e alla realtà a cui doveva tornare.

Ora si sveglia in una città il cui nome non ha importanza. Una grande città in un mondo ancora più grande dove sembra non possa mai succedere nulla, ma ogni tanto qualcosa succede. Francesca è cordiale con la gente, conosce tutti.
Mi dice che ancora oggi, dopo tanti anni, non può fare meno di volgere lo sguardo al sole che sta per uscire da questo cielo, mentre alle sue spalle la sera si accende di piccole luci e di una falce di luna. Ogni tanto la incrocio all'ingresso, aspetta la giovane nipote. Mi dice che somiglia al nonno, suo marito. Dice che i miei occhi le ricordano Zoe, e dice anche: «Noi ci rispettiamo e ci vogliamo bene e quando c’è il rispetto è tutto e basta» e resta ferma a sorridermi finché non mi allontano.

Era amore quel germoglio che ha intravisto un giorno, amore per la vita che chiede realtà.

La storia di Francesca lo conferma. Proprio qui, dove sembra non possa mai capitare nulla, esiste quel barlume che è il motore ed insieme il fondamento della vita. Come lei tanti altri hanno fiducia in quello che si ripete da sempre: nel sole che illumina i giorni e nella luna che rischiara le notti.

Quanto a me, pensando alla sua storia, ogni tanto mi viene da sorridere a un uomo che si avvicina e sembra essere forte e rude o fine ed educato oppure a un dolce canterino demenziale

Ho fiducia, nel vivere ciò che non si può ripetere, in quella che tra tutte le possibilità possibili è la sola che si realizza.
Il biglietto per un viaggio esclusivo.

venerdì 18 giugno 2010

ALDUCCIO di Aldo Ardetti


Se non avete fretta di voltare questa pagina vi racconto una bella favola, la favola di Alduccio.
Succedeva che metà foglio lo colorava di verde e l’altra metà di azzurro: la terra e il cielo. Per questa preparazione, che rappresentava l’idea di base, consumava metà dei rispettivi colori pastello. Non mancava qualche nuvoletta bianca e un sole che riscaldava il pianeta coi suoi raggi che toccavano la terra. Più in basso due alberi verdi e un viottolo che arrivava proprio davanti all’uscio di una casa col tetto rosso, due finestre (proprio ai lati della porta di ingresso), un camino che fumava – però in un’altra stagione – quando c’erano nuvole grigie e il sole con fatica faceva capolino e il prato era pieno di fango e gli alberi spogli: rami nudi che sembravano braccia imploranti levate al cielo. Così riempiva il foglio Alduccio quando aveva estro artistico – diciamo quando ne aveva voglia. Gli piaceva disegnare: lo stesso soggetto in stagioni diverse. Non era interessato alle altre materie e la scuola l’avvertiva come una costrizione perciò continuava a portare a casa note e brutti voti. I genitori, che erano stati invitati diverse volte per un colloquio, non sapevano più che pesci prendere, a che santo votarsi, come far capire al loro figliuolo l’importanza della scuola, l’importanza della conoscenza per affrontare la vita. Soprattutto il padre aveva perso la pazienza e, nonostante la giovane età del figliolo, decise di prendere provvedimenti drastici: l’avrebbe portato a lavorare con sé per fargli conoscere la fatica.
L’uomo era un giardiniere molto conosciuto e stimato per la sua bravura. Inoltre aveva le mani d’oro che gli permettevano di svolgere altri lavoretti per far vivere dignitosamente la famiglia.

“Alduccio, svegliati, è ora di alzarsi!” urlò il padre avvicinandosi alla testa poggiata nell’accogliente e caldo cuscino. Il ragazzino si girò lentamente stiracchiando le braccia e sbadigliando vistosamente.
“Buongiorno babbo.”
“Si fa colazione e poi si va. Dovrebbe essere una bella giornata!”
Alduccio assentì con la testa e con un “Va bene” bugiardo.
Uscirono di casa e sulla faccia e alle narici arrivò l'aria pungente ch’è delle prime ore del mattino. Il giovane seguì il padre su per la salita della collina che, di minuto in minuto, diventava sempre più erta. Intorno regnava il silenzio totale: un silenzio che cominciava a dare fastidio. A testa bassa tirava dietro i passi del genitore. Aveva voglia di fare tante domande ma con la coscienza ferita ci rinunciò con la convinzione che, quando commetti un errore, quando non ti comporti bene, non hai più diritti compreso quello di chiedere…
Superato lo sperone di una curva, di quella che era poco più di una mulattiera, vide in lontananza, su un rilievo roccioso, un grande casale. Sembrava un piccolo castello. Rimase per qualche attimo a bocca aperta, poi lo sguardo del genitore lo sollecitò a proseguire.
Incontrarono uomini intenti ai lavori nei campetti del bassopiano che conoscevano da tanto tempo il giardiniere al servizio dei padroni della zona e non chiesero spiegazioni sul piccolo accompagnatore ancora tramortito dal sonno e con l’andatura dimessa. Sapevano che si trattava di scuola di vita, un metodo adottato da tutti con i propri figli e nipoti quando dimostravano, seppur piccoli, eccessiva mancanza di impegno e responsabilità.
Arrivarono in quella grande casa sulla cima del monte. Attraversarono un grande cortile interno; infine raggiunsero un meraviglioso giardino, orgoglio dei padroni e del giardiniere che da anni curava con amore e professionalità.
Alduccio non aveva mai visto un giardino protetto da una recinzione così singolare: un muro altissimo; sembravano mura di una cinta difensiva ma senza i merli e il parapetto che serviva a proteggere i soldati di vedetta sul cammino di ronda. Non trovava nessuna spiegazione, nessun motivo razionale mentre la curiosità lievitava: perché un muro così protettivo, cosa c’era dall’altra parte?
Il perimetro delle mura di cinta non poteva essere aggirato perché tre dei quattro lati – i lati che guardavano la valle – poggiavano precisi sul bordo di un precipizio. Allora si mise a studiare la situazione dall’interno.
Essendo molto antiche, le mura erano larghe e irregolari e, in alcuni punti, le pietre erano consumate, senza calcina e franate. Pensò di allargare una falla fino ad ottenere uno spiraglio. Ci mise qualche giorno ma riuscì nell’impresa giacché al padre non interessava tanto quello che faceva, quanto l’essere sacrificato a stare in quei luoghi per tutto il giorno dovendo capire il sacrificio, sapere che per ottenere uno è necessario dare mille.
Alduccio riuscì a bucare la parete e vide quel foro pieno di celeste, il colore del cielo. Mentre nelle orecchie sentiva il rumore del tagliaerba e il pensiero andava ai padroni di quella specie di maniero – che non avevano, per la verità, una buona reputazione – lentamente si avvicinò alla parete non senza provare disagio e timore. Quando iniziò l'impresa si preoccupò di non sporcarsi troppo e soprattutto di non ferirsi. Non ebbe la curiosità compulsiva di guardare subito oltre.
Nonostante l’imperfezione del foro riuscì a infilarci dentro la testa compreso il collo. Quello che sembrava l’azzurro del cielo si scoprì un riquadro con una cornice fatta da un leggero velo di nebbia –come un passpartou. Fu allora che il silenzio fu riempito da una voce lontana che gli sembrò riconoscere: era la voce del suo maestro che spiegava alla classe, ai suoi compagni. Il suo banco era vuoto: risultava assente. Allora sentì gonfiarsi le vene del collo e il respiro farsi difficoltoso. Subentrò l’affanno fisico e un disorientamento generale. Avvertì un senso di colpa fargli compagnia e il piccolo cuore subire un dolore inusuale. Non aveva mai sofferto di aritmie, per quello che ne poteva sapere o capire. Si sentì un estraneo per i suoi compagni che adesso considerava fortunati, felici di imparare stando insieme. Lentamente l’immagine andò dissolvendosi e mai si sentì più solo.

Fu svegliato, madido di sudore, da una mano che gli scuoteva la spalla.
“Alduccio, svegliati, è ora di alzarsi” urlò la madre premurosa.
Fece colazione con gusto e appetito, poi preparò la cartella e salutò mentre si avviava alla porta.
Prima di uscire si voltò e gli scappò un sorriso che non seppe trattenere e che la madre raccolse con soddisfazione e affetto.
Il ragazzino era rasserenato, aveva fatto un brutto sogno, ma aveva capito. Era contento di tornare a scuola, ci tornava come non era mai successo, con entusiasmo. Quel giorno il maestro avrebbe spiegato tante cose interessanti.

domenica 13 giugno 2010

TOM di Daniela Rindi

Elisa sfoglia nervosamente il quindicinale degli annunci cercando sotto la voce “Lavoro Offresi”. Da quando si è separata dal marito è diventata un’ossessione, oltre che una necessità primaria. “Cercasi neolaureata”…no, “Cercasi donna sotto i trent’anni”…no.
“Cercasi signora con bella presenza, spigliata, automunita per lavoro di rappresentante in importante multinazionale”…eccolo! Elisa prende in mano il telefono e compone subito il numero.
“Buongiorno, chiamo per quell’annuncio, l’offerta di rappresentante…sì ho l’auto, ma quale sarebbe il prodotto?...un elettrodomestico all’avanguardia?...sì so cucinare, ma non è la mia passione, sa… il tempo non basta mai…ottimo?...ah va bene, se è proprio quello che cercate …ci vediamo domani alle 10…grazie mille…”
Deve fare dimostrazioni porta a porta di un robottino tuttofare e la qualità primaria che bisogna possedere non è una laurea, una specializzazione, un curriculum dignitoso, ma un banalissimo “non saper cucinare”. Niente di più facile per una che riesce a mangiare la pasta al forno di prima mattina pur di non mettere su il caffè, o che riesce a cucinare nel forno anche il fegato.
Due giorni dopo Elisa è già in macchina con il suo bell’apparecchio nel cofano diretta al primo appuntamento. Non ha molta affinità con la toponomastica, si perde facilmente e non ha nessun senso dell’orientamento per cui, visto che la maggior parte dei suoi possibili acquirenti sulla lista ricevuta dalla ditta, vivono nell’hinterland , si è procurata un satellitare, un TomTom. Lo ha scelto per il nome evocativo e simpatico e ha già selezionato una calda voce maschile, che non la fa sentire più sola di quello che è.
La giornata autunnale è piacevolmente tiepida e soleggiata, di buon auspicio. Elisa ha impostato la sua prima via sul TomTom. La sta guidando perfettamente, segnala i punti di rifornimento, gli apparecchi per il controllo della velocità e l’ avverte delle svolte sempre per tempo. Incredibile la precisione. Questi apparecchi sono proprio l’invenzione che fanno per una come lei, che ha sempre e solo avuto come punto di riferimento la strada di casa sua. Gli occhi sul mondo che lei non ha mai avuto. Chissà, se avesse scoperto prima Tom, forse non avrebbe perso un marito dopo 18 anni di matrimonio.
Tom l’ha appena fatta arrivare al casello, paga e la voce della signorina del fast-pay chiede cortesemente di aspettare la ricevuta, poi sempre soavemente ringrazia e augura buon viaggio. “Certo che le sanno scegliere bene queste voci registrate, sembrano esseri umani in carne ed ossa.” Pensa Elisa sorridendo. Riprende il viaggio affidandosi nuovamente alla calda voce di Tom. E, dopo una buona mezz’ora di macchina, Elisa si ritrova nuovamente al casello di prima. La voce del fast-pay, sempre eroticamente gentile, le ricorda ancora la ricevuta e le augura buona prosecuzione.
“Perché sono ancora qui? Com’è possibile? Ci dev’essere qualcosa che non va…”
Elisa indirizza nuovamente il TomTom, forse inavvertitamente ha dato un comando sbagliato e si è impostato per il ritorno al punto di partenza. Elisa riprova e riparte. Dopo un’altra mezz’ora di viaggio l’auto viene riportata allo stesso casello, davanti alla medesima cassa. La voce di Tom che dice: “Destinazione raggiunta.”
“Ma come destinazione raggiunta? Ma se sono di nuovo alla stessa uscita?”
Inutile domandare al fast-pay, è solo una voce programmata, qui non c’è nessun essere umano che ragioni col cervello suo, pure quel tizio dell’Anas fermo laggiù sembra che faccia prendere solo aria alla sua divisa. Elisa scoraggiata decide di rinunciare al suo primo appuntamento e di fare un salto al negozio dove ha acquistato Tom. È ancora in garanzia, quindi l’inserviente può revisionarlo e capire dove Elisa può aver sbagliato. Il ragazzo del negozio, un bel tipo, simpatico e cordiale esamina subito l’apparecchio comunicandole in breve la corretta funzionalità. Anche le impostazioni sono state inserite correttamente, neanche lui capisce cosa può essere successo.
Suggerisce ad Elisa di riprovare con un altro indirizzo e ripartire. Elisa - rinfrancata dalle sue parole - decide di ascoltarlo, in macchina prende un nuovo indirizzo e dà le coordinate a Tom, il quale intercetta subito il satellite e inizia a guidarla con la sua calda e suadente voce. Dopo altri quaranta minuti di viaggio imbocca nuovamente la corsia del solito casello. La voce femminile del fast-pay annuncia il buongiorno, chiede l’importo dovuto, ricorda la ricevuta e saluta nuovamente.
Elisa va su tutte le furie, non è possibile, questa storia sta diventando ridicola! Decide di tornare a casa e di collegare il TomTom al computer. Forse ha solo bisogno di un aggiornamento, può essere che sia impostato su una vecchia mappa stradale che vede l’uscita dalla città solo da quel casello. In fondo le vie cambiano in continuazione e ci sono blocchi per i lavori in corso ovunque. Al computer esegue le operazioni seguendo le istruzioni alla lettera ed effettivamente sembra che Tom avesse bisogno di nuove coordinate.
Il mattino seguente, lasciate a scuola le bambine, riprende la sua marcia in direzione di un nuovo cliente. Tom riprende la conversazione con lei, guidandola per le strade della città, per ora senza nessun problema. Solo all’ultimo momento Elisa si rende conto di essere nuovamente davanti allo stesso casello, con la medesima voce femminile che le dà il buongiorno.
“Non è possibile! Ha fatto tutti i controlli dovuti, gli aggiornamenti necessari, non è pensabile ritrovarsi ancora qui!”
La voce di Tom continua a ripetere: “Destinazione raggiunta.”
“Ma come?” urla Elisa dall’abitacolo della macchina, “torniamo sempre allo stesso punto! Come fai a dirmi che siamo giunti a destinazione? Brutto scemo di un Tom!”
E comincia a tirare pugni sull’apparecchio, furiosamente, strillando, in piena crisi isterica. “Disgraziato! Traditore! Sei peggio del mio ex marito! Tutti uguali voi uomini!”
Elisa piange. Il mondo le sta crollando addosso, la babysitter deve pagarla anche oggi e lei non ha ancora venduto nulla, peggio, non è riuscita nemmeno ad incontrare il suo primo cliente. Si lascia andare ad un pianto liberatorio. Il dolore. Il rancore verso l’uomo che amava. L’uomo che l’ha abbandonata. Non riesce a fermarsi. Non si cura nemmeno della fila di macchine che si è formata dietro di lei, dei clacson che suonano. Elisa non sente più nulla.
“Psss…Elisa…Elisa!”
“Chi è?”
“Sono Tom, il tuo navigatore.”
“Sto impazzendo, sento le voci come Giovanna D’Arco.”
“Non stai impazzendo, io funziono benissimo e tu sei stata bravissima.”
“Allora perché mi hai sempre riportato a questo casello?
“Innanzitutto perché mi sono innamorato.”
“Innamorato? Di chi?”
“Di me,” risponde la voce della cassa fast-pay del casello, “ci scusi signora, non volevamo farla disperare. Tom ed io ci siamo innamorati dal primo momento, dalla prima volta che abbiamo ascoltato le nostre voci.”
“Non potevamo stare lontani,” riprende Tom, “e poi c’era un altro motivo per tornare in questo posto.”
“E quale…”
Elisa non riesce a finire la domanda che l’uomo in divisa dell’Anas bussa al suo finestrino facendola sobbalzare.
“Signora, se ha un problema alla macchina deve comunque spostarsi da qui.”
Elisa tira giù lentamente il finestrino per scusarsi e per tentare di spiegare la situazione, ma quando alza lo sguardo rimane senza parole. Il controllore pure. Nessuno dei due riesce più a parlare, ma solo a fissarsi intensamente negli occhi. Non esiste più nulla attorno a loro. Finché la voce di Tom rompe il silenzio.
“Non volevo rovinarti l’esistenza. Tutt’altro. In bocca al lupo Elisa!”


Tratto da “Il Bit dell’Avvenire”
Anonima Scrittori- Edizioni Tunuè-

sabato 5 giugno 2010

QUESTIONE DI LINGUAGGIO di Pasquale Bruno Di Marco


“0100101001… una serie infinita di linguaggio binario. Lo schermo visualizza niente altro che scelte non rinviabili. O 0 o 1, o sì o no, tertium non datur come diceva il prof di latino. Il computer non ragiona, decide. Le sfumature sono solo l’illusione suggerita da migliaia di sì e migliaia di no che compaiono sullo schermo ad ogni colpo di mouse. Un universo inequivocabile.”
Così pensa Walter mentre spegne il pc.
Domenica mattina. Uscire. C’è il mercatino in piazza. Come vestirsi? Pantalone corto con tasche o quello lungo e zainetto a tracolla. Scarpe o sandali? T-shirt o polo? Tre cambi in rapida successione fino a che, più che altro per stanchezza, rimane in sandali, polo blu e pantaloni con le tasche. Ma anche zainetto. Esce, chiude la porta. Riapre, posa lo zainetto e prende il cappello. Chiude. Riapre. Ha scordato il cellulare.
Sole che picchia fuori, bello. Caffè. Il bar vicino casa o quello in piazza? Sms di Saverio. Lo aspetta al bar centrale.
C’è Lorena. Adora Lorena. Bel sorriso invitante e belle gambe. Simpatia reciproca e battute inevitabilmente sbagliate. “Questo non lo devo dire”. Il tempo di formulare il pensiero e subito la lingua parte in quarta. Frustrante.
Eppure in chat Walter si trova perfetto. Brillante, autoironico senza strafare, tempi giusti per piccole allusioni, riesce a reggere il gioco del contrappunto leggero, brioso, divertente. Con la tastiera davanti si sente sicuro. È il suo piano di appoggio per staccarsi in voli pindarici o, in caso di emergenza, la zattera di salvataggio sempre pronta. Senza tastiera è il naufragio.
Una sera, casualmente in una chat per iniziati, qualcuno accenna ad un progetto top-secret. Una misteriosa Agenzia cerca soggetti disposti a sottoporsi ad esperimenti per la creazione di un vero e proprio ibrido: una fusione tra uomo e computer. E’ la soluzione!
L’indirizzo corrisponde ad un club privè nel cuore del quartiere storico della città. Dopo aver fatto la tessera di prammatica, Walter entra e, come gli è stato detto, segue le frecce dipinte a terra che lo conducono nel retro. Una porta scorrevole azionata automaticamente lo lascia entrare in un ambiente dominato dalla luce bianca e netta dei neon. Gli viene indicata una stanza dove attendere. Dieci minuti ed entrano ridendo due individui pingui e paffuti. I due si siedono e, mentre uno apre un pc portatile, l’altro comincia a squadrarlo come volesse soppesarlo.
“Bene. Come lei sa già, il nostro obiettivo è quello di installare questa nuova tecnologia di bio-hardware nel corpo del soggetto, trasformandolo in una specie computer umano. Il suo corpo sarà indotto, tramite appositi stimoli, a sviluppare collegamenti nervosi così che potrà interagire con il suo bio-hardware dando direttamente ordini dal cervello.”
“Niente più tastiera, niente mouse e roba varia?”
“Nulla. Il cervello del soggetto interagirà direttamente con il cervello artificiale. Avrà la connessione internet 24 ore su 24 del tipo flat e porte USB installate sotto le unghie dei pollici e un telefonino ultima generazione in omaggio. Una nuova frontiera, eccetera eccetera e tutte quelle belle cose che si dicono in queste circostanze. Chiaro?”
Il sorriso con cui Walter aveva seguito tutta la spiegazione si rabbuia all’improvviso:
“Ma non è che in realtà voi volete trasformarmi in un burattino comandato a distanza?”
I due uomini di fronte a lui si guardano per un momento negli occhi e poi esplodono in una risata.
“Ma lei è uno spasso! Lei saprà che ormai per gli enti pubblici è d’obbligo l’autonomia, e anche per quelli poco pubblicizzati, come noi, devono saper gestire e investire. Quello che ci interessa è testare questa tecnologia per poi metterla in commercio. Ma ha un’idea di quanto varrebbe un affare del genere?”
“No.”
“E comunque le rendo noto quelli che dice lei li abbiamo già. Mai visto quei signori vestiti di nero con occhiali scuri e auricolare? L’auricolare è in realtà l’antenna con cui li controlliamo. Anzi, ogni tanto per combattere la noia, ci divertiamo a farli prendere a schiaffi da soli o a farli vestire da donna.”
“Marescia’,– interviene il dattilografo da portatile – l’altra sera stavo seguendo sul monitor proprio quello che si mette i vestiti della moglie. Ho pensato che avevamo lasciato il remote-control acceso, vado controllore e invece era spento. A quello, marescia’, ci piace proprio.”
“Vabbuo’ Gargiulo, ma ora torniamo a noi. Da domani cominceremo e la sua vita cambierà. Il suo nome in codice è Commodare 64. Chiaro? ”

Due mesi dopo Walter è un uomo felice e sicuro di se, anzi è più che un uomo, un uomo-computer e qualunque problema lo affronta senza più imbarazzi. Ogni questione è analizzata con un programma adatto e la decisione è immediata. L’Agenzia lo ha esibito in riunioni aperte soltanto ad un pubblico selezionato. Ci sono state molte prenotazioni. Peccato che l’aggiornamento del software avvenga attraverso delle supposte di bio-hardware piuttosto consistenti.
Anche nella vita privata è un successo. Con Lorena riesce a comportarsi con la stessa sicurezza e padronanza che aveva nelle chat e ormai sono coppia fissa. Affascinata dalla sua velocità di scaricamento di file musicali e cinematografici da internet, mentre fanno l’amore, Lorena può usare i suoi capezzoli come i comandi di un iPod. Walter è davvero un uomo felice.

Sei mesi dopo i viaggi per le performance sono molto diradati. Anzi da un mese non viene più contattato. Quando qualche programma si impalla e cerca di contattare l’agenzia lo fanno attendere in linea sempre più tempo. Oggi due ore e poi la linea è caduta definitivamente. Walter, esasperato, si reca nella sede del primo incontro. Entra deciso, si dirige nel retro e tenta di azionare la porta scorrevole ma inutilmente. Urla, batte i pugni e prende a calci la porta. Improvvisamente i pannelli scorrevoli si aprono mostrando due individui vestiti con un completo scuro, occhiali da sole e auricolare. Uno porta scarpe da donna. Walter capisce al volo e si precipita fuori di corsa.
Proprio sull’ingresso urta qualcuno che stava entrando. Finiscono a terra, l’altro impreca: è Gargiulo, il dattilografo del primo incontro.
“Gargiulo, sono io mi riconosce?”
“Ma sì, sei commodore 64! Tutto bene ?”
“No, non va affatto bene. E’ una tragedia. Il bio-hardware non c’è la fa quasi più. Se apro un programma di grafica, mi devo sedere altrimenti svengo. Ho paura di scaricare nuovi aggiornamenti. E se mi impallo definitivamente?”
“Avete chiamato l’assistenza qui dell’Agenzia?”
“Non mi danno più retta. All’inizio tutto bene. Ma ora prima prendono tempo, lasciano cadere la linea e non mi rispondono più.”
“Capisco, ma non posso aiutarla. A me e al maresciallo ci hanno spostato in un altro reparto. Volevano rivedere il progetto.”
“Rivedere il progetto? Ma non eravamo all’avanguardia, il bio-hardware, le nuove frontiere ecc. ecc.?”
“Certo, sempre il bio-hardware, ma lei è impostato con un’architettura di tipo binario, 01010101, e ha la CPU che lavora in modo sequenziale, giusto?”
“Giusto, e anche un hard disk interno da 1.000 gigabyte”
“Il progetto bio-hardware adesso è stato reimpostato diversamente. Il linguaggio non è più quello binario, ma è basato sul DNA e sulle sequenze dei nucleotidi A, T, C e G. Al corso di aggiornamento ci hanno spiegato che un centimetro quadrato di DNA può contenere quasi sei milioni di Terabyte di informazione. Quello che è stato installato in lei è, come dire? … una tecnologia obsoleta. Lei è un modello superato!”
“Come superato? Mi buttano via come una macchina rotta?”
“Tranquillo. C’è sempre rimedio. Le posso presentare un mio cugino che si occupa recupero di parti e…”
“Ma vuole smontarmi a pezzi? Questa è cannibalizzazione!”
“Ehhhh, cannibalizzazione, che brutta espressione. Lei, amico mio, è troppo drastico. Bisogna apprezzare le sfumature. Io preferisco dire recupero, riciclaggio, al limite di modernariato. Capisce? E’ tutta una questione di linguaggio.“