sabato 30 ottobre 2010

LA MATEMATICA NON E' UN'OPINIONE di Rossana Carturan

Quelle maledette trasmissioni, piene di buoni sentimenti, di lettere ai figli, di amori ritrovati, la facevano piagnucolare. Era irritata per quelle cadute, ma non più di tanto.
E’ bello piangere un po’, per le felicità o disgrazie altrui, purché contate, anche se sono inutili compensazioni. Era meglio un buon libro, certo, o un film di quelli che annoiano ma dicono tanto. Ma quando le figlie, grandi ormai, erano fuori casa per ore, giocherellava con il telecomando fino a trovarsi lì. Davanti a quei surrogati di vita che la tv metteva in mostra con grande maestria.
Era separata da tanti anni, Anna. Matrimonio terribile il suo, peggiore di tutti quelli che aveva visto morire. Ora ne era fuori, e inorridiva al pensiero di ricominciare. Basta sopraffazioni, ingiustizie. Era giunto il momento di godersi l’ignobile solitudine, schernire il mondo e concedere sorrisi affettuosi anche alla Signora Viola. Già, la signora Viola, quella vecchina odiosa che ghignava a vederla salire trafelata per cinque piani, con buste cariche di spesa. Se ci fosse un uomo, ne basterebbe uno! Le borbottava dal ballatoio .

Purtroppo ci si dimentica sempre troppo tardi delle sofferenze, e così per ammorbidirle, Anna le accolse come compagne. E’ più facile gestire un dolore che una gioia, ecco perché si ritrovava sempre lì, davanti a quel dannato televisore, a guardare qualche deplorevole messa in onda. Si asciugava gli occhi di nascosto, mentre confusamente tentava di riavvolgere il cotone impigliato nella cerniera del divano. Tra una lacrima e l’altra, tra un delirio e l’altro, metteva su un maglione. Non per sé, ovviamente. Cosa ne avrebbe fatto? Per chi lo avrebbe indossato? Ne faceva in continuazione, taglie, modelli e colori diversi e tante, tante righe e quadri. Li donava a chi capitava. L’ultimo proprio alla Signora Viola. Quando glielo aveva consegnato, quasi a supplicare un atto di pietà, l’anziana signora, sorridendo, le aveva risposto: Resto della mia idea! Forse non le erano piaciute le tre linee trasversali.
La ormai radicata avversione al numero 2 ed ai suoi derivati: coppia, paio, bis.. era divenuto un gioco ossessivo e così saltando il secondo numero, la sua vita era composta da 3 figlie, 5 gatti, 7 tartarughe, 9 posate, 11 asciugamani..e così via..

Anche quella sera la sua tv l’attendeva. E sul più bello, mentre la trasmissione televisiva che più la catturava, proponeva una madre, straziante, che implorava il ritorno a casa della figlia Unica, che neanche la Duse con le sue tende avrebbe potuto far meglio, andò via la luce.
Fu un attimo.

Gli errori, i ricordi si amplificarono nell’oscurità. Non si poteva più ingannare. . Un tam tam di somme, resoconti e disavanzi conquistavano terreno. Le ombre lunghe riflesse sul vetro da giochi di luci lontane, sembravano suggerirle: Chi non sceglie è un inetto inadatto alla vita, che non sa dare un senso ai suoi giorni, fossero anche solo 2!. Era la Signora Viola.
La riconobbe in quella spettro punitivo, giubilante:
Via la ragazzina incline a facili entusiasmi, via i cubi, via le radici quadrate, che entri prepotente l’equilibrio !

Il riverbero della tenda, agitata da un filo d’aria, diede inizio alla danza . Il tavolino su tre piedi, sostenuto sulla parete di un angolo della sala, scoordinato tirava calci al vento, la vetrina della libreria inghiottiva secoli di sapienza sputando numeri dispari, un vaso con sette fiori asciugati graffiava, stridulo, il davanzale in marmo.Il cotone viola, sparito tra i cuscini, elaborava, furtivo, un fitto intreccio di nodi a due ..a due..

Non restava che piangere. Un pianto vero che ammettesse la propria disperazione. Represse la libertà. Ostinata, cliccava sul telecomando cieco in attesa della resurrezione. Si grattò la cute quasi a sanguinare, mentre il sudore pungeva, intorpidendo le gambe. Il respiro discontinuo come un chiodo arrugginito era lì per spezzarsi mentre la casa era in preda alla ribellione.. Fermarsi era la soluzione, ma il cuore scartava e accelerava . Un formicolio gelò i polpastrelli che strofinavano isterici i lembi della gonna. Il cervello non mandava più segnali. Non doveva cedere. Le palpebre vennero in difesa abbassandosi di colpo, prima una..poi l’altra.
Fu un attimo.

Tornò la luce. I muscoli inchiodati ripresero dinamicità, il respiro si sciolse seguendo una partitura regolare e gli occhi si spalancarono.
La casa : immobile.
La TV procedeva con balli osceni di pseudo presentatori ululanti a conferma dell’idiozia, intenti a distribuire cifre da capogiro, mai tonde, a quiz imbecilli.

Bevve dell’acqua, solo tre dita, sorridendo alla scatola fluorescente. Era passata la sua ennesima crisi d’ansia. Sarebbe tornata, ma non importava. I numeri erano dalla sua, era solo questione di tempo e l’esasperazione di un bilancio che non quadrava avrebbe azzerato il tutto.

Il campanello alla porta la distolse. Aprì trovandosi la Signora Viola bianca in volto. Le chiedeva, colta da malessere, compagnia. Entusiasta la fece accomodare. Sedettero insieme sul divano in attesa del telegiornale, sul quinto canale, scambiandosi cordialità un po’ artefatte ma tanto gradevoli all’ascolto, disquisendo qua e là sulle sette meraviglie del mondo, sui ventinove giorni di febbraio, sulla necessità di annientare una quindicina di piccoli topolini che infestavano il quartiere….
Eh sì.

Davvero una bella coppia.

venerdì 22 ottobre 2010

OLIVIA E PEPA di Anna Profumo

Le piace trovarsi al centro di una piazza quando improvviso il tocco delle campane si diffonde nell’aria, attraversarla passando per il suo centro, ancora di più quando la giornata è fresca ma assolata come oggi.
Il suo passo veloce scandisce il tempo sull’acciottolato, la spinta leggera si trasforma in motore per il vorticoso girare delle ruotine.
Olivia sospinge il piccolo abitacolo verso l’area giochi, alla vista delle altalene la bambina si anima, sporgendosi quasi completamente di lato si gira a guardare la madre per indicargliele, questa la tranquillizza mentre cerca un posto comodo per lasciare il passeggino in previsione di slegarla e farla scendere. Pepa cammina, sola, da due giorni mostrando tutto l’entusiasmo e le incertezze che un giovane passo può avere.
Sono giorni di sperimentazione dove lo scambio di uno sguardo con la madre incoraggia o arresta le esplorazioni. In alcuni sprazzi la madre e la figlia esplorano la costruzione dei divieti il rispetto e la ribellione che fortifica l’indipendenza; modella il carattere; fa nascere nel complesso la fiducia.
Si avvicinano altri bambini. La madre invita Pepa a salutarli e a giocare con loro. Per dar l’esempio chiede i nomi, fa domande. Tra madre e figlia, nell’equilibrio perfetto, una bimbetta resta a giocare e sembra gradire le attenzioni di Olivia, mentre Pepa sperimenta la gelosia e si allontana cercando di attirare a se l’attenzione della madre.
La dinamica fa sorridere Olivia, trattiene l’istinto di correre a consolarla per lasciare che provi ad esser sola. La osserva per cogliere eventuali sintomi del senso di abbandono attenta che non cresca troppo. Gli sguardi tra loro sono significativamente eloquenti, come se un essere umano imparasse a comunicare prima con lo sguardo e solo dopo con le parole. Sembra contenere così tanto lo sguardo di bimbo, come se un corpicino così piccolo potesse sapere tutto del tutto. Olivia, come la maggior parte dei genitori, è totalmente incantata da sua figlia.

Quella stessa mattina hanno fatto un giro degli asilo nido nella zona, Olivia ricorda ancora quando durante i colloqui di lavoro le chiedevano se avesse figli e al suo diniego le rispondevano comunque che preferivano assumere un uomo perché una donna può sempre avere un figlio «E i figli che vogliamo fare? Farli crescere a nonne zie e baby sitter? Dividere il loro tempo tra un asilo nido e un doposcuola?». No, lei non lo voleva, come altre migliaia di madri, non lo voleva davvero per questo aveva vagliato tutti gli stratagemmi consentiti dalla legge a tutela della maternità per ritardare il suo ritorno a lavoro e studiato a tavolino con grafici colorati tutte le possibili opzioni della riduzione di orario; valutando la possibilità di mantenere un decente status di vita per lei e per la bambina, ma pur facendo delle rinunce lo stipendio ridotto non bastava ad una donna sola che deve mantenere: un affitto; un auto; un asilo nido; e un minimo di sussistenza per lei e per la bambina, senza contare una piccola scorta per le emergenze, che con figli piccoli ci sono sempre. Ammettendo di riuscire a far tutto da sola, come in molte fanno, la sua vita sarebbe stata completamente assorbita e dedicata alla crescita della bambina, ma di uno stipendio intero c’era bisogno. Per cui Asilo nido sicuro dalle 8,30 alle 18,30. «Come comunicare tutto questo ad una bambina di neanche un anno senza traumatizzarla?». Non credeva affatto a quello che la maggior parte degli amici con figli diceva, parlando tranquillamente dei loro fatti penosi davanti ai bambini piccoli: «Tanto lui non capisce». Lei li vedeva sgranare gli occhi e intristire il visino e si convinceva che loro capivano. Era cresciuta in una famiglia numerosa dove si professava la frase: «Dove ce ne sta uno ce ne stanno pure due e poi, dove ce ne stanno due ce ne stanno pure tre, e così via, all’arrivo di ogni nuovo figlio».
Ma non è che fosse proprio questo ad incoraggiarla, ricordava piuttosto la frase di un suo professore dell’Università: «Non pensare mai che un uomo o una donna che dici abbiano fatto grandi cose siano nati con quella disposizione. Non pensare di non esserne all’altezza, loro si sono trovati nella vita a dover affrontare cose che le condizioni sociali e storiche gli hanno messo di fronte e semplicemente hanno fatto del loro meglio per fare fronte. Semplicemente».
Olivia pensa a quel suo professore guardando la piccola Pepa.
Ora le fa ciao con la mano mentre quella tenta di scalare lo scivolo al contrario.

sabato 16 ottobre 2010

PONTILE di Aldo Ardetti

Non era vecchio ma aveva accumulato mezza dozzina di decenni.
Sul pontile avanzava lentamente facendo attenzione a non inciampare. Di tanto in tanto veniva distratto nell’incrociare turisti della domenica, poi riacciuffava i propri pensieri da dove li aveva lasciati.
Dal rientro in città era la prima volta che rivedeva quel luogo pur avendo fatto il possibile per evitarlo.
Il posto era cambiato: un bar-ristorante stagionale, l’altro, quello più vicino al mare, recintato da lamiere perché pericolante, e lo spiazzo accidentato con le macchine parcheggiate alla rinfusa. Aveva fermato la macchina dopo aver messo a dura prova gli ammortizzatori su quei crateri lunari e subìto il riflesso di luce dal fondo bianchissimo del piazzale.
Si sedette su un frangiflutti – un grosso cubo di pietrisco affogato nel cemento – e guardò il mare, poi la linea dell’orizzonte verso l’infinito con i ricordi che riaffioravano in uno dei suoi luoghi – come amava considerarli – dove una barca che rientrava, aspettava l’onda buona per infilarsi col motore a tutta tra i due bracci del pontile. Un’abitudine che si ripeteva anche dopo il dragaggio del naviglio per il riflusso dell’acqua che – soprattutto con le mareggiate – formava dune sottomarine all’imbocco del porto canale. Solo per i pescatori e i naviganti stanziali era facile approdare indenni alla darsena.
“Che ne sappiamo noi? non possiamo metterci a controllare se viene rispettata la frequenza dei dragaggi – esclamava stizzito Baffo, uno dei pescatori battaglieri – Sai quante barche si sono arenate e con l’onda successiva ribaltate per l’insabbiatura dell’imboccatura?”.

Il sapore salmastro si mischiava all’odore di erba secca e della ruggine dei verricelli, delle ancore e catene. Un odore che andava fin dentro i polmoni.
La ruggine sulle barche disoccupate da tempo, disarmate, che galleggiavano tra alghe marce o giacevano nell’erbaccia radicata alla riva. Dappertutto reti e sugheri asciugavano al sole.
I gabbiani scrutavano l’acqua trasparente per mirare e tuffarsi sulle prede; qualche mucchio di fradicio sartiame, il battere di sagole e scotte sugli alberi delle barche in secca quando s’alzava l’urlo del vento: deng… deng… deng, un cupo rumore metallico lento e costante, sempre uguale, come di campana a morto.

Sotto il passaggio pedonale, pietre si eclissavano nell’acqua mentre sul lato esterno massi proteggevano dalle mareggiate invernali quando il mare sa essere cattivo, non risparmiando i fianchi e minacciando di divorare la strada litoranea come era accaduto in un lungo tratto di costa ritornata selvaggia dopo che la strada era sparita, inghiottita dall’arenile.
Sull’altro lato del canale il ‘vicolo chiuso’, chiamato così perché dopo un ampio parcheggio di terra battuta con residui di brecciame, si finiva sulla spiaggia dove un ristorantino a conduzione familiare – ch’è meglio inserire nella categoria delle trattorie, e già sarebbe una benevola concessione – spandeva odori di pescato. Vicino i ruderi di una torre d’avvistamento avvolti da radici, rovi e frasche morte. Rami di fico selvatico avvolgevano le macerie e si allungavano sulla sabbia come serpenti, diventando trappole per i passanti che si trovavano da quelle parti perché stranieri o per
esigenze fisiologiche. Poco lontano i resti di alcune torrette di cemento, bunker abitati nell’ultimo conflitto mondiale e, tutt’intorno, i fiori della duna nelle chiazze sabbiose concesse dalla flora mediterranea, quelli delle piante grasse con le unghie di strega che creano tappeti dal colore sanguigno.

Ricordava le notti passate a far compagnia ai pescatori, quelli con le bilance che si contendevano le postazioni. I più anziani avevano il tacito diritto di piazzare il loro palo allo stesso posto dove avevano costruito il punto di appoggio. Pescare con la bilancia è faticoso: ci vuole forza e ce ne vuole tanta con la corrente forte o quando tira vento. Se vuoi pescare qualcosa, devi tirarla su ogni volta che transita una imbarcazione ché mette in movimento il pesce che, in un porto canale, prende il sapore di petrolio, del carburante combusto o disperso dalle barche.

Su quel pontile vide Lorella per la prima volta. Era sdraiata su un frangiflutti. Si sosteneva con le braccia puntate all’indietro e il viso esposto al cielo per prendere il primo sole. Calzava stivaletti, vestiva con tonalità grigie: una gonna a quadri, camicia bianca con cravatta del colore e disegno della stessa. Conversava con un’altra ragazza, un’amica, in piedi vicino a lei.
Lorella aveva una carnagione chiara, lineamenti delicati, modi gentili e un sorriso indescrivibile; aveva gli occhi belli – chiari con riflessi diamantini, sorridenti – e non potevi non innamorartene. L’amica, invece, dava una impressione di volgarità, in sovrappeso con un profilo che ricordava il genio della lampada di Aladino. Avete presente un viso con gli occhi leggermente asiatici e con i capelli raccolti a ciuffo? Ecco, proprio così.

Nelle visite ai ‘suoi luoghi’ non dimenticava la macchina fotografica. Così iniziarono le pose per i primi scatti, le passeggiate e gli appuntamenti al pontile fino al giorno che, per infiniti motivi o forse per un deciso destino, la vita come ti fa incontrare ti fa dividere, ti tradisce fino a diventare amara.

Quando era tornato in città, tra le prime cose, appuntò di fare una visita al cimitero. Nell’accomiatarsi dalla tomba del congiunto gli venne spontaneo dare un’occhiata in giro. E’ accaduto di ritrovare in questi luoghi persone non incontrate da tempo. Fu attratto dalla foto a colori di una bella donna che però non distingueva. Quando si allungò per mettere a fuoco la lapide, vide che era Lorella e ne lesse il nome in lettere bronzee.
Andò a rintracciare l’amica… il genio della lampada.

Abitava ancora nel vecchio quartiere – il Villaggio – e la vide in lontananza avanzare appesantita dagli anni, procedere strisciando i piedi grossi e deformi.
“Ciao, mi riconosci?”
“Sì, anche se con pancetta e i capelli rimasti”.
“Che è successo a Lorella?”
La donna rispose dopo aver superato il momento di sorpresa.
“Lorella è morta”.
“Questo lo so, sono stato al cimitero questa mattina. Ma cosa le è successo per morire così giovane?”
“Una notte di febbraio la trovarono lungo
la Statale. Qualcuno l’aveva uccisa”.
“Sulla Statale? e che ci faceva…”
“…e che ci faceva, non lo capisci?”
“Perché quella fine?...”
“Il suo desiderio era andare via dalla campagna, dalla famiglia, evadere per vedere e conoscere qualcos’altro. Aveva fretta di farlo e purtroppo si è buttata tra le braccia della persona sbagliata”.
“Di quale persona parli?”
“Gente di fuori, delinquenti. Farabutti che prima ti fanno sognare, ti lusingano, ti promettono mari e monti e poi ti fanno fare quella fine, la fine che ha fatto Lorella”.
La donna stava accusando un malessere: il cuore rischiò di scoppiarle insieme al pianto mentre lui, di colpo, avrebbe voluto che i suoi luoghi fossero altri.

Decise di rientrare. Alla riva un tellinaro trainava il suo rastrello inveendo quando sorprendeva troppi granchi e si sentì arrivare le voci di una ciurma di pescatori. Riconobbe Baffo: ma quanti anni aveva? Il suo volto era quello della gente di mare: segnato dal vento, dal sole e dalla salsedine. E dall’umidità della notte.
“Giovanotto, ti ho riconosciuto, sai – e rivolgendosi agli altri – …questo è un vecchio amico, ragazzi”.
Si raccontava che in certe notti appariva una figura diafana passeggiare sul pontile.
“Baffo, è vera ‘sta storia del fantasma?”
“Ce ne sono tanti di fantasmi sul mare e nella testa della gente che ormai non ci si fa più caso” e con la mano fece un gesto di saluto mentre le sue labbra accennavano a disegnare un sorriso.
Tutto sembrava svolgersi lentamente come se il tempo non avesse fretta. L’acqua del rio faceva intravedere le alghe filiformi piegate dalla corrente. L’unico rumore era lo sciabordio sulle fiancate delle barche che specchiavano nell’acqua il colore degli scafi e si rintuzzavano con i vecchi pneumatici salvabordi.

venerdì 8 ottobre 2010

CORRUGATO di Daniela Rindi

Il corrugato non ho ben chiaro cosa sia, un tubo di plastica in cui passa un cavo elettrico credo, niente di più e non mi interessa neanche approfondire. Questo vale per molte cose della mia vita. Posso aggiungere che è una brutta parola, cacofonica, che la userei per offendere qualcuno, tipo “sei proprio una faccia da corrugato!”, o per chiudere una relazione come “tra noi è finita, c’è un corrugato che ci separa”. Posso però cercare di raccontare quale immagine mi richiama, cosa evoca o fa vibrare dentro di me.
Il corrugato mi mette i brividi, sarà per quelle “erre” centrali, una qualsiasi cosa corrugata la eviterei certamente, le girerei alla larga. Corrugato potrebbe essere anche uno strano animale da cortile che cammina muovendo la testa avanti e indietro a ritmo cor-ru-ga-to, come in una marcetta militare. Corrugato è anche il viso di un poeta che, con la testa tra le mani, pensa a quel maledetto verso che non s’incastra mai. Corrugato è uno strano tipo di vino che viene lasciato invecchiare su un carro sotto il sole. Che schifo.
Corrugato può essere un gioco di bambini disegnato per terra con il gesso, dove i grandi corrugati sono cerchi concentrici che non si devono calpestare. Corrugato è Dio quando si rende conto che bastava un giorno in più per cancellare tutto e dire che aveva scherzato. Corrugato è il cielo in una stanza, buonanotte fiorellino e maledetta primavera. Se proprio devo avere a che fare con un corrugato preferisco immaginarmelo come un nuovo paradiso, dove è possibile mangiare e bere a sazietà senza ingrassare mai. Corrugato è mio marito quando gli sfuggo dalle mani, è mia figlia che non ha risposte dalla vita.
Corrugato può essere una cosa triste o allegra, dipende dall’umore del momento. Per il mio cane sicuramente è un bell’osso gustoso da rosicchiare e per il mio gatto è il desiderio di vedere il cane cascare da un balcone del quinto piano. Potrebbe essere la vena dove passa il sangue che mi tiene in vita, o un binario del treno che indica la direzione e che io mi sono persa.
Corrugato è il tempo che non passa mai quando stai male o quello che fugge quando ti diverti, è la coda che trovi quando sei in ritardo, è la bestemmia che non volevi dire. Con un corrugato è fatto il corrimano della mia scala a chiocciola che lascia tutti stupiti, è quel nodo contorto che si spaccia per opera d’arte. Corrugato è il nome del mio profumo preferito, che ho scoperto essere stato tollerato a malapena, solo quando l’ho cambiato. Corrugato è il minestrone a pezzi che detesto, è il nuovo cartone animato della pixar in 3d, è la puzzetta di mia figlia per troppa cocacola. Corrugato è anche una faticosissima poesia:

Ed è subito serra

Ognun corrugato per la sua terra
trafitta da gas e non da sole
ed è effetto serra

Potrei andare avanti all’infinito, può essere tutto o niente, ma il corrugato rimane solo un pezzo di plastica in realtà, che guida e protegge fili di corrente. Il corrugato è corrugato e basta, diciamolo, e in fondo il suo nome gli sta proprio bene.



venerdì 1 ottobre 2010

LA VERSIONE DI SPARKEY di Bdm

Siete un vero disastro, voi umani! Mi chiamo Worfschorkkstchoff, ma tranquilli, so che non siete in grado di pronunciarlo. Potete chiamarmi Sparkey come fanno quelli dalla famiglia che mi è stata assegnata.
Lo so che credete di essere voi a sceglierci quando venite a vedere la nostra cucciolata. In realtà è la nostra mamma che vi studia mentre vi avvicinate e immediatamente decide chi di noi è il più adatto. Quindi gli altri cuccioli fanno gli antipatici e il prescelto mette in atto tutte quelle moine a cui voi immancabilmente cascate. Per fortuna, perché siete veramente complicati voi umani e ci vogliono qualità specifiche per gestire ognuno di voi.
Questa famiglia dove sono capitato non è troppo male. Vivo con tre umani. Pieditosti, io lo chiamo così, è il papà, lui dice di essere il capo della famiglia ma a me sembra che le decisioni poi le prenda sempre Piedicaldi, la mamma, anche se gli fa credere che sia lui ad avere l’ultima parola. Quella che mi piace di più è Piedidolci, la piccola di casa, con cui ogni tanto faccio delle gare di corsa che fingo di perdere, perché voi umani siete fatti così, andate assecondati.
Certo che mi danno un bel da fare. A volte Pieditosti torna così stanco dal lavoro che devo portarlo a fare una passeggiata. Perché non si perda indosso una corda intorno al collo con una maniglia alla fine, così lui può attaccarcisi e io lo guido per la città, più o meno il solito giro, e lo riporto indietro in tempo per la cena. Ci fermiamo anche per fare pipì. Certo gradirei un po’ di privacy quando ci avviciniamo agli alberi. Io evito di guardarlo perché ritengo che sia imbarazzante per me e per lui, ma sono sicuro che lui mi controlli mentre alzo la mia gamba e do sfogo alla mia vescica. Non si può pretendere l’educazione da voi umani.
In casa poi, devo stare dietro a tutto. Non è che siete cattivi, ma certo siete molto distratti. Quando Piedicaldi carica la lavatrice chi è secondo voi che si mette a controllare che quella giri in continuazione senza fermarsi? E quando mangiano a tavola chi è che controlla che ogni briciola caduta sparisca all’istante? Non avete idea di quante formiche ed insetti vari siano pronti ad invadere la casa, altrimenti.
La mattina, poi,quando suona la sveglia devo mettermi ad abbaiare come un disperato per fare alzare tutti dal letto. Una fatica che non vi dico, tanto che, subito dopo colazione, devo rimettermi a dormire a pancia all’aria fino all’ora di pranzo.
E Piedidolci? Chi è che deve fare da modello facendosi spazzolare e vestire con dei capi, lasciatemelo dire, piuttosto demodé? Oppure quando mi pettina il ciuffo, di cui vado tanto orgoglioso, e me lo tira all’indietro con un elastico rosso? E quando è triste chi è che deve mettersi a nascondere le pantofole così lei può divertirsi a cercarle?
Ma a parte questo devo controllare e regolare tutta la vita in casa, perché voi umani, l’ho già detto ma lo ribadisco, siete distratti e avete bisogno di chi vi segua passo passo. Per questo ci mandano a convivere con voi, altrimenti sareste perduti.
Comunque c’è chi sta peggio. L’altro giorno ho incontrato un collega, Howshlkrgrrrauuukkf, che mi è sembrato molto stressato. Infatti, quello, appena mi ha visto sotto al solito albero con la gamba alzata, mi ha dato giusto il tempo di finire, che al contrario di voi quelli della mia razza conoscono l’educazione, e poi ha subito approfittato per sfogarsi. Mi ha raccontato tutto quello che Piedigonfi e Piedimolli, quelli che gli sono stati assegnati, gli fanno passare. Per cominciare lo chiamano Cimiciotto e già questo non è facile da sopportare. Poi deve correre continuamente avanti e indietro per la casa a controllare che tutto funzioni, deve segnalare quando è l’ora del pranzo o quando è l’ora della passeggiata, deve fare finta di fare la faccia interessata davanti a quelle schifezze che danno in tv solo per far loro compagnia. Poi non hanno alcun senso del territorio e lui, poveretto è costretto ad abbaiare a tutti quelli che si avvicinano alla recinzione del giardino al posto loro. E poi al parco deve continuamente riportagli i bastoncini che buttano dappertutto.
Ma quello che proprio non sopporta è quando gli fa indossare quegli orrendi maglioncini fatti a mano da Piedigonfi. Lui per protestare è costretto a appiattirsi sul pavimento fino a che lei non lo trascina fuori di peso.
Insomma, ve lo ribadisco senza di noi, sareste perduti, ma che stress! Io ancora resisto, non lo so fino a quando. Ma quando verrà quel giorno, me ne andrò da solo lungo quella che voi credete essere una pista ciclabile che collega la città al mare mentre, in realtà, è la pista di atterraggio dei nostri bus-navetta interstellari e me ne torno a casa, finalmente, a vivermi una riposante e rilassante vita da cani.