sabato 25 settembre 2010

VIAGGIATRICE STANZIALE di Naima

Nadjime spazza il pavimento della sua bottega fatta di pietra e assi di legno dipinte di bianco, anche se sa da sempre che è inutile: il primo cliente del mattino, aprendo la porta, farà di nuovo entrare la polvere del deserto; ed è in sua attesa che la vecchia Nadjime prepara i sacchetti con le erbe e gli infusi, sistema il banco, ordina le carte.
Nadjime ha novant’anni. La notte in cui nacque la luna era al culmine del suo splendore - così le raccontarono - anzi, era talmente luminosa che le streghe del villaggio pronosticarono senza esitazione che quella bambina avrebbe avuto il dono di vedere oltre, di vedere il mondo. Nadjime non diede mai troppo peso a quella profezia, tant’è che non vide mai oltre il proprio villaggio.
Essendo l’ultima di 13 figli e quindi colei che non si sarebbe sposata ed il cui nobile compito era accompagnare i genitori nella vecchiaia, dedicò l'intera vita ad aver cura della casa, dei genitori, delle sorelle da marito e della nonna che abitava con loro e che visse oltre cento anni; ereditò da quest'ultima la bottega del tè: una baracca di assi di legno che si trovava tra il villaggio ed il confine col deserto, laddove, ancora oggi, passano le rotte dei carovanieri. Mentre viaggiatori, mercanti e tuareg sostano acquistando o barattando cibi e mercanzie, sorseggiando tè alla menta e facendo riposare furgoni e cammelli, Nadjime legge loro ciò che è nascosto nell’anima e nel destino attraverso le carte e i disegni della sabbia del deserto: in molti sono tornati da lei, soprattutto per questo, oltre che per lo speciale tè alla menta la cui ricetta si tramanda di madre in figlia.Ognuno di questi, ritornando a casa, ha raccontato la storia di questa signora e la sua bottega è oramai nota a molti viaggiatori, tanto che talvolta giungono a farle visita governanti di paesi lontani, attori di fama mondiale, presentatori televisivi e rockstars, tutte persone che si illudono di trovare nel silenzio del deserto ed in una vecchia bottegaia che vende spezie, il segreto della vita, la saggezza.
Ciò che questa gente viene a prendere da Nadjime viene ripagato con le storie delle loro vite: attraverso i loro racconti Nadjime ha percorso le strade del mondo, attraversato mari, parlato altre lingue, toccato le nevi del Fuji ed i ghiacciai eterni dell'Himalaya, meditato con i monaci tibetani, sofferto per la guerra che dilaniava ora un paese ora l’altro; ha conosciuto l’aurora boreale ed il cibo vietnamita, indossato un kimono giapponese sorseggiando il tè alla maniera degli orientali (e non ha potuto evitare di pensare che fossero un po’ buffi), ha conosciuto il pensiero di filosofi e musicisti, ammirato i colori di un quadro di Monet e dei graffiti newyorkesi.
La geografia ed il cuore pulsante e vivo dell’intero mondo sono impressi nella sua mente, disegnati nelle rughe che le solcano il viso e le mani.Adesso, a novant’anni, sa che le streghe del villaggio avevano ragione: avrebbe visto oltre, avrebbe visto il mondo intero. Non è stata Nadjime, però, ad andare per il mondo ma il mondo a venire da lei, nella sua bottega del tè, al crocevia tra l’immenso, silenzioso deserto ed il caos delle grandi città.

sabato 18 settembre 2010

ERBE SELVATICHE di Anna Profumo

Nel balcone di casa resistono poche piante verdi e alcune succulente, devono essermi affezionate. Si impegnano le mie piante, da lungo tempo sopportano la mia dimenticanza ad annaffiarle e l’attacco di quel fastidioso parassita che viene chiamato cocciniglia a scudetto. Quando ho cominciato con qualche vaso forse miravo ad imitare la grandiosità dei giardini pensili di Babilonia, alle elementari sentendone parlare dall’insegnante ne rimasi affascinata. In quei giardini il problema dell’acqua veniva risolto utilizzando gli schiavi per la costruzione di immense opere di canalizzazione. Nel mio balcone si risolve con numerose passeggiate avanti e indietro con l’annaffiatore ora pieno, ora vuoto. I giardini pensili di Babilonia: esistenza segreta per le nuove generazioni, con questi tagli all’istruzione, ne scopriranno la fine solo in qualche film d’avventura tipo Indiana Jones, i più pigri si accontenteranno di pensare che siano le trovate geniali degli ideatori per la pellicola in questione, siano rovine o ricostruzioni di città perdute.
Forse correlato con l’esposizione al sole: un oretta di sole feroce e poi ombra tutto il giorno, ho visto spuntare nel vaso dello Spatiphillum alcuni funghi giallissimi prima che introducessi solari succulente, quando ancora pensavo che mi sarebbe piaciuto occuparmi di un balconcino di piante fiorite.
Oggi mi sento in colpa con loro, non sanno che su quello della cucina coltivo basilico, rosmarino, erba cipollina e dragoncello che annaffio con continuità. Per non alimentare feroci invidie e gelosie: cerco di essere naturale, non farmi scoprire troppo entusiasta delle aromatiche antagoniste. Annaffio quelle piccole affaticate parlando con loro, le incoraggio. Al “Geranio rosso” ufficialmente detto Pelargonium zonale provo a dirgli che è il migliore e lui a breve, mi ringrazia con nuovi boccioli.
Più volte ho tentato di introdurre semi spontanei per invitarle ad essere meno servizievoli più ribelli, trasformare quel caos verde in un apparente ordine casuale. La povera Tradescantia blossfediana, passata alla storia e chiamata da tutti “erba miseria” introdotta da me per creare frescura e riparo alle piccole nate s’è prima espansa oltremisura contraddistinta da piccole fioriture rosa, poi anche lei ha ceduto: deve aver sentito che non eravamo affini. Inutilmente se stessa lei, esigente io alla ricerca di flora edule.
La spontaneità, sembra non voglia aderire al mio disegno, piante che normalmente infesterebbero prati, aiuole qui vengono soggiogate dalla glaciale ombra delle pareti e dalla contenuta geometria dei vasi o forse dall’inalterabilità del terreno.
Le erbe spontanee mi sono simpatiche. Sto per partire con un nuovo esperimento: far crescere nei vasi la cicoria, la borragine, l’origano, la mentuccia e il timo.
Immagino le rose di foglie delle succulente Echeveria far capolino, cercando di compiacermi, tra la Borragine delicata con le sue foglie cuoriformi, pelosette e buone formanti le gemme da cui spunteranno i commestibili fiori stellati dal colore blu. La cicoria nuova nata sotto le spine del Ferocactus Gracilis mostrare imitandolo, le per niente aggressive foglioline roncinate. Mi figuro già il suo futuro contendere con uno svettante caule, alla grande colonna spinosa e lanosa dell’Espostoa Melanostele, un raggio di sole per la maturazione dei fiori azzurri. La serpeggiante mentuccia ricadere alla ricerca di nuovo terreno tra i bei fiori peduli color fucsia e rosso acceso della Schlumbergera frida “cactus di natale”. La bella Begonia coccinea Hook: slanciata assottiglia verso l’alto, la vedo sfiorare titubante le radici aeree che spuntano lungo il fusto sottile e angolato del Selenicereus Pteranthus, evitare le costolature con le rade e regolari areole spinose per rivaleggiare con le improvvise e brevi fioriture notturne: coriandoli di piccoli fiori discreti, raccolti in rametti resistenti lunghi giorni quelle della Begonia, appariscenti, grandi a lungo tubo con numerose file di petali, belli per una sola notte quelli del Selenicereus. Queste non sono commestibili, sono un eccezione a cui non resisto. Sono belle non chiedono molto e sono generose.
Chi sa! anche nei giardini pensili di Babilonia avranno utilizzato le piante per farne manicaretti.
Mi immagino sigillare con stampo tondo, festonato futuri ravioli di sottile e porosa pasta all’uovo farciti con ripieno di foglioline di borragine e ricotta. Le cimette fresche della Borragine, prima insaporite e scottate, appena in una padella: rosolandole in olio d’oliva insieme ad un leggero e fine battuto di scalogno. Unite alla ricotta fresca e a due foglioline di mentuccia spezzettate a mano, solo una festonata a pioggia di pane grattugiato, eventualmente un filo d’olio, sale quanto basta.
Passarli in padella poco prima di servirli, farli girare nel sughetto che resta facendo sfumare del brandy in olio d’oliva completando con una spolverata di parmigiano, solo una presa da fondere leggermente sul fuoco.
Assaggiare chiudendo gli occhi e immaginare che sia tutto vero!

venerdì 10 settembre 2010

BRUNO BASTA, LA VICENDA UMANA DEL PADRE DELL’ASTRATTISMO EPICO di Piermario De Dominicis

Sembra quasi impossibile che Bruno Basta sia riaffiorato all’attenzione del consesso umano dopo una vita nella quale ha dato così scarse notizie di sé, tanto che la sua riservatezza ha rivestito la sua esistenza e la sua opera di un alone di leggenda. Ma forse la sua decisione di ricomparire proprio a Latina, una città che di solito considera la Fiera della Lestra la punta massima della propria elaborazione culturale, conferma che la voglia di celarsi di Basta, coerente fino in fondo con la sua cupio dissolvi, la voglia mai trattenuta di scomparire. Trasferendosi a Latina, come con un colpo di magia riesce perfettamente a svanire, come capita a tutto quelli che, con l’eccezione ostinata del nostro amico Pennacchi, operano qui nel campo della produzione culturale. Tracciare una sia pur breve biografia dell’artista è assai arduo perché la cortina di mistero eretta da Bruno Basta sul suo privato è così fitta che lui stesso ne è totalmente all’oscuro. Si sa della sua nascita, si dà per certo che sia avvenuta perché di colpo eccolo lì: prima non c’era… e dunque deve essere nato. I genitori Bertrando e Ora Basta nata Berlusconi (Ora Basta Berlusconi) erano due illustratori di libri per daltonici, apprezzati per le straordinarie capacità, due virtuosi del disegno. La coppia considerò del tutto naturale riversare il proprio sapere sul figlio, perché stabilisse la continuità di un mestiere così prestigioso. La delusione dei genitori fu cocente quando gli fu chiaro che il figlio con le matite in pugno non sapeva proprio cosa fare, almeno prima di aver scoperto che piazzarle negli occhi dei compagni di asilo gli garantiva una qualche cinica soddisfazione. Furono necessari anni per convincere il bambino che conveniva poggiare la punta della matita sul foglio e non il sedere tappato della medesima, per veder comparire qualche segno. Comunque sia la prima opera conosciuta di Bruno Basta fu uno scarabocchione su sfondo rosso che lui stesso intitolò “ioqueliliamazo” dedicato ai genitori. Trascorrono da quel momento anni di cui non abbiamo notizie significative, avvolti come spesso capiterà durante la vita dell’artista da fitto mistero. Ricomparirà di botto a Parigi in uno studiolo di Rue de Bucy che divide con un tatuatore di 120 kg. L’esiguità degli spazi e la cospicua presenza fisica del tatuatore (pessimo carattere peraltro) causeranno continue frizioni tra i due e diversi ricoveri d’urgenza per Basta, che pur di non dare fastidio all’energumeno limitò il suo campo d’azione alle miniature. Disgraziatamente la sua incapacità tecnica perdurava così che le sue piccole opere del tutto incomprensibili, finivano per lo più per ristagnare sul fondo del water della minuscola toilette dello studio, perennemente guasta. Le ristrettezze economiche lo angustiavano e i modesti assegni che i genitori gli inviavano, pur splendidamente vergati, non gli garantivano una dieta che andasse oltre sofficini scaduti di capitan Findus, così scaduti che il buon capitano appariva invecchiato malamente sulle confezioni ed il suo sorriso bonario, mancandogli diversi denti, si volgeva in un ghigno perfido.
Fu solo dopo una notte di tormenti, trascorsa a discutere col suo stomaco su chi dovesse dimettersi prima, che gli giunse la folgorazione: visto che il figurativo risultava impraticabile si sarebbe dato all’astrattismo. Il resto, per sommi capi, è storia conosciuta. Con la complicità, nel tempo divenuta amicizia, con un gallerista cieco, intraprese una sua via artistica che da alcuni critici alcolizzati venne definita “Astrattismo Epico” .
Il successo improvviso e clamoroso portò le quotazioni delle sue opere oltre l’inimmaginabile. Basta, che era tuttavia rimasto il ragazzo semplice di una volta, continuava ad essere prigioniero di angosciosi dilemmi: “i miei calzini fucsia sono compatibili con il mio jet rosa o sarebbe meglio quello blù?” dopo una iniziale e comprensibile euforia l’artista sentì di dover proseguire nello sviluppo del suo percorso. Se ne presero le tracce. Si seppe poi che era riparato a Poitiers e che nella brusca necessità di occultarsi al mondo, aveva vissuto due anni in una cabina telefonica, dove si era sistemato discretamente e non aveva altro affanno che dire ogni due minuti ”occupato!” a chi tentava di telefonare. Col tempo però la fila formatasi fuori della sua eccentrica abitazione, si era fatta così chilometrica da togliergli la tranquillità. Tornò quindi in Italia e fu a Milano che nell’intento di produrre un tipo di arte totalmente naturale gli venne in mente di lavorare sui materiali. Decise di produrre in proprio i colori con i quali dipingeva . E’ l’inizio di ciò che dagli stessi critici di un tempo sempre più divorati dall’etilismo, venne definito “Astrattismo dietetico” o “Astrattismo gastrico” o anche “Astrattismo retto”.
L’alimentazione decise i toni. Ci fu un periodo orange favorito da una dieta di carote così radicale che alla fine Basta era in grado di vedere i tarli delle sedie e di conversare con loro. A questo seguì il periodo Verde (verdura a volontà) e il più cupo di tutti, (seppie come piovesse).
Le sue mostre divennero eventi anche se la loro durata nel tempo era per forza limitata. Lo spingere il fisico, in nome dell’arte, oltre ogni limite conosciuto gli fu alla fine fatale.
Gli divenne difficile digerire anche l’acqua per cui iniziò l’ennesimo periodo di buio. La notorietà lo perseguitava vendeva tutto ciò che produceva, alla faccia di qualche critico livoroso che con scarsa originalità aveva definito le sue opere “quei quadri di merda” si sentiva assediato e ancora una volta sparsi. Fino all’inaspettata rinascita odierna. Mutato nell’aspetto (per modestia ha rinunciato ai capelli) ma simile a se stesso nell’inesausta ricerca di sperimentare, trova nella nostra città l’humus ideale per farlo non destando la minima attenzione. E’ ciò a cui ha sempre teso.



ASTRATTISMO EPICO, SINESTESIA ESTREMA di Pasquale Bruno Di Marco

Lo stesso BB, padre dell’Astrattismo epico o meglio ancora organico, come lui stesso lo ha definito, ci ha parlato del legame astrale che pare abbia con quello che possiamo definire il suo alter-ego, Stelak, artista o gruppo di artisti – non è facilissimo capire i borbottii del maestro dopo il decimo bicchierino di grappa - paleolitici nel periodo di passaggio tra matriarcato e patriarcato. Tra i fumi dell’alcol BB è solito dipingere e nello stesso tempo, tra un’invocazione ad Aua, Wigga e Mestwina e un borborigmo digestivo, evocare la storia di Stelak, la cui vocazione artistica passa attraverso la sperimentazione musicale, frustrata a suon di clavate, alla sperimentazione nelle arti visive. La totale mancanza di qualunque talento nel disegno non impedì a Stelak di sperimentarsi nei graffiti, ovviando all’inizio con una sorte di proto-stencil, nella cui fase arcaica, animali di piccola taglia venivano sbattuti contro la parete rocciosa. Da quello che BB ha desunto attraverso il suo legame ancestrale, tale tecnica fu abbandonata per un eccesso di cromatismo rosso. Nella fase successiva si rese necessario un connubio artistico con un altro artista che teneva fermo il soggetto mentre l’altro ne seguiva i contorni con un bastoncino annerito. Anche questa tecnica fu abbandonata quando i committenti cominciarono a chiedere ritratti di serpenti a sonagli e cinghiali.
Nonostante gli insuccessi iniziali l’artista paleolitico, alter ego di BB, non abbandonò l’idea di eseguire graffiti tentando composizione varie. Ma ogni volta il suo tentativo di ritrarre un animale lasciava perplessi gli osservatori che non riuscivano a distinguere i suoi elefanti dalle sue anatre. Quello che però suscitava la più notevole ammirazione erano i colori che Stelak realizzava con tecniche misteriose. La frustrazione per la totale negazione per il disegno veniva ampiamente controbilanciata dal virtuosismo cromatico, che Stelak produceva organicamente seguendo diete particolari. Nel riproporre questa forma d’arte rivissuta attraverso il legame astrale BB ripercorre l’astrattismo di necessità, determinata dall’assoluta incompetenza nel figurativo che, proprio nella testardaggine del perenne tentativo di riprodurre forme riconoscibili senza mai riuscirvi, trova il suo carattere epico. La straordinaria varietà della gamma cromatica, anch’essa in qualche modo riconducibile alla necessità di produrre in proprio i colori attraverso un’attenta e selettiva scelta delle pietanze, hanno spinto altri critici a parlare di “Astrattismo Dietetico” o “Organico” mettendo l’accento su come la visione diretta del cromatismo Bastiano, con tutta la gamma di nuance sperimentate nelle varie versioni stagionali, induca fenomeni di sinestesia estrema in chi contempli l’opera appena prodotta. Lo spettatore lentamente, ma inesorabilmente, perde il contatto con la realtà ed è indotto ad entrare in uno stato di estasi o di demenza, poiché tutti i criteri tradizionali, visivi e olfattivi, sono rimessi in discussione. Tali opere hanno insite una portata di avventura e di azzardo che è impossibile prevedere tutte le possibili reazioni. Con l’andar del tempo la forza di rottura tende ad attenuarsi evaporando l’effetto di stravolgimento sensoriale, ma l’esperienza visiva rimane impressa nell’aspetto più profondo della nostra anima di fruitori dell’arte in tutte le sue forme, suoni e odori.

giovedì 2 settembre 2010

L'UOVO di Aldo Ardetti

A volte non sappiamo perché abbiamo preso una direzione e dove essa ci porterà.
Sulla spiaggia di Giardini Naxos ci siamo arrivati da Taormina. Siamo entrati in paese percorrendo la strada a senso unico, parallela all’altra che costeggia il mare: un budello lungo e stretto, sulla destra pieno di negozi – la maggior parte ficcati in piccoli ambienti – che creano vita e colore alla via. Sulla sinistra, tra un isolato e l’altro, lo squarcio blu del mare sotto il cielo più chiaro, rassicurava il procedere nella direzione giusta.
Volevamo nuotare anche in quel mare, un rituale che avevamo deciso all’inizio della nostra vacanza: fare il bagno in tutte le località toccate. Invece non avevamo fatto i conti con quello che è un problema universale: trovare parcheggio.
Abbiamo avuto rassicurazioni per sostare in uno slargo di fronte ad un locale che gestiva un pezzo d’arenile: un bar con un grande stanzone vetrato e pieno di tavolini. Sembrava arredato in maniera provvisoria, d’antan. Si respirava aria di taverna di porto, luogo di ritrovo di marinai, prostitute e uomini di malaffare: peraltro un’impressione più romantica che reale. Appoggiato al bancone un uomo alto e biondo con accento forestiero, probabilmente faceva parte di quegli avventurosi che, per lavoro o destini sentimentali, aveva lasciato le proprie origini per trasferirsi in una terra lontana e assumerne abitudini e vezzi autoctoni. Sembrava un vecchio marinaio che refrigerava la sua pelle, invecchiata dal sole, idratandola con una bevanda colorata. Non era vecchio, lo sembrava mentre conversava con il gestore che aveva modi e parole gentili.
Scendemmo in una spiaggia come non l’avevo immaginata per come mi era stata descritta.
Non so se l’infinito arenile fosse tutto uguale ma dove ci trovavamo era ghiaioso e, nonostante gli asciugamani, punzecchiava la schiena. Non mi capacitavo come potevano resistere i bagnanti, magari abituati o pigri per andare ad allungarsi altrove.
Ci calammo in un’acqua bellissima con un fondale pietroso. Se non nuotavi, era difficile restare in piedi e camminare un’impresa circense. Chissà, pensai, se quelle pietre erano state scagliate da un ciclope incollerito.
La rinfrescata fu salutare.
Si era fatto tardi e i bagnanti cominciavano a sgomberare. Iniziava un silenzio interrotto da sporadici bisbigli gergali. Anche i bambini non urlavano come sanno fare: giocavano, si sfottevano, scherzavano senza strafare. Tutto sembrava arrivare da lontano, smorzato da un vento contrario che ovattava voci e rumori.
Per asciugarmi preferii restare in piedi e mi misi a curiosare all’intorno con qualche pausa per fissare l’onda che moriva sulla riva annegando pietre levigate e scolpite nei secoli dei secoli, conchiglie ormai morte, alcune di una strana bellezza che calamitava. Alla riva due bambini, maschio e femmina, si spruzzavano tirando calci sul pelo dell’acqua. Erano snelli, capelli neri come i loro occhi vispi e furbetti. A pochi metri, sdraiata sul ventre, la madre li osservava divertita ascoltando le lamentele dell’uno o dell’altra e controllando che il gioco non degenerasse perché i bambini possono trasformarsi e diventare pericolosi: fin quando si sfottono spruzzandosi acqua è un conto, ma quando cominciano a raccogliere sassi, il pensiero corre lontano e scatena elucubrazioni. La madre ebbe un sussulto e reagì lanciando l’ennesimo: «Non esageriamo!». Già prima era stato un continuo: «Mi raccomando!». Era stato il maschio a cominciare, a raccogliere pietre nell’acqua bassa e gettarle vicino alla sorella conscio che, se avesse usato maggior forza, avrebbe rischiato di colpire la bambina la quale, già possedendo l’istinto e la determinazione femminile, ragionò: “Adesso ti faccio vedere io!”
La piccola immerse il braccio e raccolse a sua volta una pietra; scelse quella ché bianca individuò subito, che vide più bella nell’acqua trasparente. La portò fuori tutta gocciolante e lucente. Rimase a guardarla divertita. I suoi occhi erano pieni di meraviglia, la sollevò per meglio mostrarla, come se avesse avuto una preda, un trofeo da esibire e dimostrare la sua forza, la sua capacità di scegliere e conquistare. Le sembrava di avere nelle mani un gioiello che aveva iniziato a palleggiare da una mano all’altra.
Il fratello riconobbe una certa proprietà nella forma di quel sasso e rimase immobile, come ipnotizzato dalla pescata speciale della sorellina e non ne fu geloso. Ammaliato, non ebbe nemmeno il tempo di diventarlo per l’oggetto che il suo pensiero considerava pressoché miracoloso.
La peculiarità del sasso era la forma che somigliava a quella di un grosso uovo: chissà quanto lavoro di smeriglio aveva fatto il mare nella notte dei tempi.
Superato il momento magico, ci fu come un risveglio: sembrò che la bambina minacciasse di lanciare la pietra per riconsegnarla al suo padrone sennonché, essendomi ripreso dalla suggestione, volli possedere l’oggetto che anch’io avevo percepito straordinario. Quando capii che lo stavo per perdere – la bambina, pur tentennando, continuava a mimare di gettarlo di nuovo in acqua – gesticolando e con voce roca, cercai di attirare la sua attenzione.
Finalmente mi notò e rimase a guardarmi con stupore per orientarsi.
“Che cosa vuole quel vecchio sconosciuto?” avrà pensato, continuando a fissarmi dubbiosa ma con l’esigenza di capire. Ebbi l’impressione di essere stato invadente perciò mi avvicinai per rassicurarla.
«Se proprio la devi buttare… me la regali? Io colleziono pietre particolari».
Sentii mia moglie suggerire, o forse lo immaginai: «Lascia stare, abbiamo casa piena di sassi!»
Spesso non capisco il mio prossimo e i bambini ancora meno: uomini che la vita deve ancora scolpire. Davanti agli occhi del fratello, della madre, di mia moglie e immaginai a quelli di tutti i bagnanti del mondo, vidi avvicinarsi una piccola mano per donarmi quell’uovo di pietra marmorea che raccolsi nelle mie mani diventate un nido. Ci fu da entrambi un sorriso di soddisfazione, l’appagamento di un gesto, un accontentare e un ricevere che dava benessere. Invece di gettarlo nell’acqua che lo avrebbe disperso, aveva preferito far felice qualcun altro. Così non mi era stato fatto solo quel dono ma ricordato qualcos’altro da esercitare nella vita. Possibilmente.
Quando venne sera e una leggera brezza cominciò a farsi sentire, ci asciugammo in fretta per abbandonare il luogo, lasciare la magica scena.
Passando vicino alla bambina la salutai: «Ciao, grazie per il regalo» le dissi mentre la madre si sollevò per ricambiare il saluto con un sorriso e un cenno del capo, così pure fece il ragazzino che rimase a guardarmi allibito, magari ancora incredulo per la mia sfacciataggine.
Al bar-taverna dei pirati ho gradito un fresco aperitivo con mia moglie che, borbottando, aveva fretta di posare la borsa da mare su un sedile dell’automobile.
Ci siamo diretti verso altri lidi mentre arrivava il ciuri ciuri di un marranzano invisibile che immalinconiva la sera nel tramonto che si apprestava a dipingere il mare e la terra del suo colore.
Ho il rimpianto di non aver pensato a chiedere il nome di quel piccolo angelo che non credo potrà leggere questo mio ricordo, anche se qualcuno è convinto che i miracoli sono sempre possibili.
Potrei adottare vecchi e romantici rimedi: arrotolare questo scritto in una bottiglia e sperare che approdi in quel lontano lido jonico, su un bagnasciuga sul quale non puoi trovare tracce di un passaggio, ma solo il ricordo di esserci stato o essere approdo di solitarie e speranzose bottiglie vagabonde.
Ora sono a casa e l’uovo di pietra lo stringo nelle mani come un amuleto e ripenso come a volte non sappiamo perché abbiamo preso una direzione e dove essa ci porterà, ma ho capito perché mi sono trovato quel giorno su quella spiaggia, in quel luogo. Ne avevo bisogno.


Il racconto è nelle ‘Narrazioni’ del portale della rivista culturale ‘Stilos’
http://www.stilos.it/aldo_ardetti_-_luovo.html