venerdì 30 aprile 2010

CUCINA CASARECCIA di Naima


Giovanni fa saltare le verdure dentro la grande padella di alluminio con un gesto da giocoliere, vi aggiunge una manciata di erbe aromatiche, portando a termine la cottura della pasta insieme alle verdure e al sughetto.
Serve in tavola. Di là lo aspetta Marta.

E' in pensione da poco ed il giorno in cui ha salutato i colleghi, era pronto a dedicarsi alla sua passione di sempre: la cucina. Quel giorno stesso si era recato in un negozio specializzato in prodotti da gourmet dove il famosissimo Chef Verzetti presentava la linea di pentole ed accessori appositamente disegnati per lui da un noto designer. Un segno del destino.

Un capannello di persone ammira gli accessori in esposizione, anche Giovanni si avvicina e mentre sbircia, valuta e soppesa padelle, si trova faccia a faccia col grande Chef: lo saluta con discrezione e si complimenta per una delle sue ricette appena provate. Lo Chef lo ignora completamente, non lo lascia nemmeno finire di parlare e si volta dall'altra parte a fare il “piacione” con un paio di giornaliste. Giovanni si indispettisce e va via dandogli dello stronzo.

Dimenticato il piccolo incidente, la vita di Giovanni prosegue tranquilla, anzi gli sembra sia più ricca di impegni adesso che prima d'andare in pensione: coltiva costantemente la sua passione per la cucina e le signore del vicinato gli chiedono consigli, fino a quando non gli arriva una lettera della RAI dove si comunica che è stato scelto come concorrente di un seguitissimo programma culinario. Non si spiega come possa essere successo e ne parla subito a Marta: è stata lei a inviare per lui la domanda di partecipazione.

Nonostante la sua riservatezza, Giovanni decide di partecipare. Il suo sfidante è un manager tutto giacca-cravatta che preparerà un piatto nouvelle cuisine. Giovanni punterà tutto sulla cucina tradizionale: la cusina casereccia ti riporta all'infanzia, alle radici, ti prende nel profondo.

L'attività frenetica degli studi televisivi lo carica, riesce a scambiare quattro chiacchiere con i cameramen e con il suo concorrente che tutto sommato non è così antipatico come aveva immaginato.
Fanno una prova il giorno prima, il giudice di gara non è presente e viene impersonato da uno dello staff. Poi, finalmente, la sera si va in onda, in diretta. Giovanni ed il suo concorrente sono in gran forma e si lanciano occhiate di sfida. Il giudice è diverso per ogni puntata e si tratta ogni volta di un personaggio di spicco della scena gastronomica italiana. Viene presentato al pubblico ed ai concorrenti: è lo Chef Verzetti!

Lo Chef fa il “piacione” con la Conduttrice Evelyn, la quale è ormai abituata a dover sopportare questo ed altro per “potè campà”, e poi si manda in onda la pubblicità. Giovanni è agitato, gli sudano le mani, vorrebbe andar via, ha ancora una gran voglia di mandare affanculo Verzetti. Non può mollare tutto, e poi sono in diretta... Cerca un tranquillante nella sua borsa, ma trova mentine, integratori, lassativi, tutto tranne i tranquillanti. Prova a respirare a fondo, rientra in studio, la truccatrice dà una ripassata al trucco e sono di nuovo in onda.

Verzetti dovrà assaggiare ogni pietanza e dare il suo giudizio: il vincitore porta a casa 1000 euro, non un granché ma ci si può comprare dell'ottimo vino.

I concorrenti hanno 10 minuti di tempo per preparare il piatto: volano sbuffi di farina, spruzzi d'olio, è tutto uno sbatter di pentole e lame di coltello. La telecamera riprende ora l'uno ora l'altro e la Conduttrice Evelyn cinguetta commenti su ogni inquadratura. Tra un passaggio e l'altro, Giovanni tira fuori la boccettina del lassativo e lo versa tutto nella sua pietanza, il Cameraman sta per inquadrarlo ma si accorge del movimento e, siccome Verzetti sta sulle palle pure a lui, volta la telecamera sull'altro concorrente anche se Evelyn sta descrivendo la ricetta di Giovanni. Scade il tempo. Si fa il silenzio nello studio e Verzetti ammantato di solennità, assaggia le pietanze dei due: vellutata di ostriche al pepe verde e mango per il manager, sformatino di bucatini alla gricia con profumo di tartufo per Giovanni: un'intero flaconcino di lassativo in uno sformatino così piccolo...
Verzetti assaggia la vellutata, si rifà la bocca con un sorso di vino, assaggia i bucatini... assapora e ci ritorna più volte. Mentre il Maestro si ritira per deliberare, va in onda la pubblicità. Al rientro in studio è la Conduttrice Evelyn a dare il voto: lo Chef Verzetti è stato costretto a scappar via per un'emergenza. Vince Giovanni, e ritornato a casa festeggia con Marta e altri amici. Dopo quell'avventura tornerà alla sua vita tranquilla, coltivando al sua passione. Verzetti invece, nauseato, non si sa perché, anche solo all'idea del cibo, avrà una crisi mistica e starà per un po' lontano dalle scene e dalla cucina.

sabato 24 aprile 2010

INSENSATEZZA DOMESTICA di Carlo Sperduti


Il professore può ritenersi soddisfatto del suo recente acquisto d’immobile. Lo spazio di cui va più fiero, ornandosi l’animo di compiacimento, è il soggiorno. Vi si accede tramite un’interruzione di un metro e mezzo d’una parete bianca, trattenuta da tiranti metallici che vanno a formare un’ellisse. Una volta varcata questa soglia ci si trova di fronte ad una grande libreria, ben zeppa del contenuto che più s’addice a un tale elemento d’arredamento d’interno, costituita da ventotto cavità i cui lati sono descritti, a formare altrettanti parallelepipedi, da un legno moderatamente scuro: tutto ciò va ad occupare la quasi totalità della parete di fondo. Sulla sinistra, piazzata davanti a una finestra di dimensioni ragguardevoli da cui filtra a secchiate la luce del sole, quando questo si palesa in assenza di impedimenti meglio conosciuti come nuvole, vi è in bella mostra una scrivania toscana che si presume ottocentesca, tutta ricoperta da libercoli e riviste e penne e tagliacarte e taccuini e scartoffie d’ogni genere e abbellita da una palla verde e spinosa che non risulta essere altro che una pianta grassa. Una poltrona bianca impedisce la vista di qualche porzione di parallelepipedo libresco; un’altra la si può ammirare, più vicina all’osservatore, sulla sinistra; alla parete di destra è invece appoggiato un divano a tre posti, di fattura e colore identici a quelli delle poltrone. Prima di giungere al divano ci s’imbatte in un mobiletto di legno sulla cui superficie sta posta una lampada dal gambo metallico, la quale beneficia della dolce compagnia di un simpatico sestetto di candele basse e cilindriche. Ai muri è appeso qualche quadro di nessuna rilevanza: tutti di modeste dimensioni. Al centro della stanza, a mo’ di tappeto, un susani turco a fantasia floreale, molto insistente sulle tonalità del rosso. Il soffitto è verde, guarda un po’.
In quest’ambiente il professore passa gran parte del suo tempo libero: a scartabellare. Libri d’arte, sua materia d’erudizione, sono il piatto forte.
Oggi si trova alquanto interdetto nell’approssimarsi alla sua postazione. C’è qualcosa che non quadra, ma non si capisce bene cosa. Ci pensa un po’ su, si guarda intorno e d’improvviso coglie l’inconsueto sul fatto.
L’ombra della scrivania se ne va per fatti propri, non s’allinea alle altre. La luce filtra da sinistra, tutte le ombre la fuggono spiattellandosi a destra, ma quella lì proprio non ne vuole sapere: si dirige verso la luce (che sia in punto di morte?).
Verrebbe da esclamare “Ohibò!”. Difatti il professore non sta lì a farsi tanti problemi e si fa uscire di bocca proprio un “Ohibò!”. Dopodiché si mette a ragionare, perché non è uomo da rimaner di sasso per più di qualche istante, cercando una spiegazione che sia logica, in questo caso fisica, per determinare le concause del fatto straordinario. Ma ecco che, proprio all’acme del suo corrugamento facciale volto a sottolineare un fare smodatamente cogitabondo, il professore sorprende l’ombra a rimettersi in riga con le compagne, come da che mondo è mondo si conviene a un’ombra che pretenda rispetto.
Stress e spossatezza considerati, il professore archivia il caso come mai realmente accaduto e come frutto d’una sua qualche proiezione mentale, magari una fantasia sconnessa su una messa in discussione o ribaltamento della “Vocazione di San Matteo” che s’è fatta per un momento immagine: si mette a scartabellare.
Non passa un minuto che la pianta grassa comincia a dargli problemi: proietta sul legno un’area scura che non sta ferma. Se ne va prima a nord, poi a sud, poi a est, e come appar logico fa pure una puntata a ovest. Come se non bastasse s’incapriccia a deformarsi in larghezza e lunghezza in una sorta di rimbalzo a due dimensioni. Sembra proprio indecisa sul da farsi. Il professore ne deduce, molto sensatamente, che deve trattarsi dell’ombra del dubbio. “Misurami questa pianta, ora, caro il mio Talete!”, ci scherza su il professore, in testa sua, mentre con lo sguardo vaga in cerca di una fonte di luce epilettica che possa aver provocato ciò che ha appena veduto e che, manco a dirlo, proprio ora scompare, lasciando spazio a un’ombra ordinaria.
Rimessosi al lavoro (scartabella compulsivamente) s’avvede ben presto che a ciò che fanno le sue mani non corrisponde una proiezione adeguata, poiché dalla posizione in cui si trova neanche dovrebbe vederla, l’ombra dei suoi arti superiori.
Invece la vede allungarsi sulla scrivania: la destra raggiunge un tagliacarte e pare afferrarlo, ma a sollevarsi è solamente (indovinate un po’) l’ombra dell’oggetto. Si gode la scena incuriosito, mentre l’ombra del braccio sinistro s’unisce all’altra nella presa e pare rafforzarla; mentre le due ombre congiunte rivolgono la punta immateriale verso il suo petto e senza né tanto né quanto colpiscono dritto al cuore.
Salutando malinconicamente il realismo e aggiungendo un paio d’imprecazioni d’uno stile e pregnanza straordinari col poco fiato che gli riesce d’espellere nell’incomoda circostanza, il professore ci lascia la pelle.
Le ombre, disponendo dell’alibi perfetto di essere ombre, se ne tornano tranquille e soddisfatte ai loro posti, assumendo l’atteggiamento caratteristico di chi nasconde qualcosa.

sabato 17 aprile 2010

DOLLY SPECIAL di Anna Profumo


Il cliente sembra ipnotizzato, l’inserviente da mezz’ora, con movimenti lenti e controllati, si muove senza sosta lungo la corsia dei tagliaerba descrivendo ogni pezzo con mnemonica dovizia. Sono davanti al modello Dolly Special 2, con consumi minimi e prestazioni elevate. Il sopracciglio del cliente si solleva lievemente e l’inserviente cogliendo il sintomo come interesse ne approfitta: diventa più incisivo.«Il modello è dotato di software interno personalizzabile in cui con sistema GPS si possono inserire le coordinate abitative e definire, a piacere dell’utente, i confini virtuali. Il limite di “pascolo”». Dice, e continua. «Su questo stesso si può aggiungere, con un piccolissimo sovrapprezzo, l’estensione per calcolare, sulla base della previsione di ricrescita del prato, il tragitto del giorno. Il programma tiene conto del tipo di prato, della regione, della stagione e delle previsioni metereologhe degli ultimi tre anni, e cioè precipitazioni e temperature locali».
Il cliente sembra convinto, l’inserviente lo accompagna alla cassa. Nel tentativo di leggere il nome sul cartellino si accorge che così scolorito da far pensare a lavaggi di energiche centrifughe.Il “ding” del registratore di cassa distoglie la sua attenzione e il ragazzo si allontana.
L’uomo espone in giardino il nuovo acquisto attirando la curiosità di tutto il vicinato.In particolare il confinante sembra esageratamente attratto dall’estetica del nuovo tagliaerba: si muove ed ha le sembianze di una pecora. Per prima cosa l’uomo invita la macchina a seguirlo chiamandola per nome. «Dolly», così facendo il computer interno personalizza il sensore, per il riconoscimento vocale dei comandi, impostando la timbrica sui suoi toni. L’uomo assapora le lettere, le ripete dieci volte come scritto nelle istruzioni, ed ogni volta sembra che quell’oggetto sia un po' più Dolly. Quel nome gli sta davvero bene, se ne convince, è felice per il suo acquisto.Passa le due ore successive a programmare la macchina. Segue le istruzioni del libretto d’uso e stremato dalla concentrazione richiesta lascia sottocarica l’animale, riponendolo nella rimessa.
Le mattine a seguire prima di recarsi a lavoro, fa uscire al pecora e resta cinque minuti a seguire il percorso. Costata che la macchina s’arresta proprio al confine aperto, tra prato e marciapiede, si gira e torna indietro seguendo le coordinate invisibili dettate dal processore.
Tutto il giorno Dolly è libera di scorazzare per il giardino brucando erba. Passa radente ai confini del giardino ed al perimetro della casa, si sofferma davanti alle porte finestre, in composta attesa delle istruzioni del computer che valuta e pianifica istruzioni.
L’uomo una sera rientra veloce e nervoso a casa, dirige all’interno senza prestare le solite attenzioni all’animale che accelerando leggermente il passo, si avvicina a lui in attesa di una carezza. Intanto questo chiude rapidamente e rumorosamente la porta dietro di se. Se qualche vicino la osservasse potrebbe vederla avvicinarsi, ad una delle porte finestra ed entrare spingendo leggermente la porta. L’uomo è in un altra stanza mentre la macchina si avvicina al tavolo su cui questo ha lasciato un plico di fogli che comincia a mangiare ruminando. Ne ha mangiati diversi. L’uomo rientrato nella stanza si accorge di quanto sta accadendo, si avventa sulla pecora cercando da prima di strappargli i fogli di bocca, poi compresa la perdita di oltre metà dell’incartamento la sua ira si abbatte furiosamente su di essa.Alcuni brandelli di fogli lasciano leggere “Elezioni - lista candidati partito dell’U.N.T.O.” .La pecora è a terra e sembra aver subito danni, fuoriescono rumori meccanici, forse danni al software, l’uomo spaventato dal fumo che fuoriesce, si allontana dalla pecora. Sembra sia in corso una combustione interna. La pecora perde le sue sembianze, trasfigura. Il fuoco! e prima che l’uomo possa allontanarsi una palla rovente lo avvolge, sembra la testa di un leone. Anche il fragore che ne fuoriesce sembra il ruggito.L’uomo sparito! in pochi secondi ingoiato dalla testa delle leone che silenziosamente si rifà pecora.Come per dar prova della ritornata normalità la pecora a brucare completando quanto iniziato prima: La pecora torna in giardino dove disperde i resti organici liofilizzati del malcapitato e dei documenti.
Nel susseguirsi dei giorni, lungo il viottolo di acceso alla villetta, un discreto via vai di gente prova a suonare per vedere se il tipo è in casa. Squilli e richiami non ottengono risposta. La pecora in giardino continua il suo automatico lavoro, nessuna cosa fuori posto, tutti i fili d’erba del prato rasati alla stessa altezza.Finché non arriva anche una macchina della polizia, gli agenti forzano la porta permettendo a tutti di entrare in casa, perlustrano la casa.Nulla l’uomo è sparito, ma sui giornali non si legge nulla, sono tutti presi dalla notizia che il partito dell’U.N.T.O. non si candida. Sembrano sparite le liste da presentare per l’iscrizione alle elezioni.Del resto la vita di quell’uomo eccessivamente ordinario non è interessante, nulla da riferire nel male: non una foto di lui vestito da donna per il carnevale, tanto meno nel bene: nessuna foto di lui avvinghiato a qualche stangona durante le vacanze estive.Nessuno lo piange e lo chiede indietro, solo gli improperi dei testoni del partito infuriati.
Solo una cosa animata si muove nel giardino è la pecora Dolly che continua a brucare. Nel caos generale nessuno fa caso al furgone con scritto: Sevizio manutenzione e riparazione, fermo davanti alla villetta e non desta preoccupazione neanche l’inserviente con la tuta rossa che carica il tagliaerba, tanto che il vicino di casa si avvicina per chiedere informazioni, il ragazzo lascia un biglietto della ditta con lo slogan pubblicitario dell’articolo di punta.
“Pecora è chi pecora si fa”. Dolly Special 2 la pecora con il cuore ruggente!

sabato 10 aprile 2010

PASTA E FANTASIA di Aldo Ardetti


Di buon mattino, sotto una luce gialla e calda, nel negozio – che per quantità, varietà e per i colori sembrava un bazar – cominciavano a entrare i primi clienti. In una busta, un bucatino appena sveglio, si dimenava per stiracchiarsi e un vocìo cominciava a salire dalle altre buste trasparenti.
Un ‘buongiorno’ corale s’era alzato e, dopo un rumore di sfregamento quasi impercettibile, tornò la calma fino a quando non ci fu il primo commento della giornata: «Sembra iniziata ‘na bella giornata de sole.»
Dovete sapere che, dove c’e il nostro negozio esclusivo, il bucatino la fa da padrone. Il suo modo di fare baldanzoso e spesso spocchioso innesca lunghi dibattiti che, al confronto, le tribune politiche sembrano uno scambio di battute fra amici al bar. E, sempre per la stessa ragione, si è presa l’abitudine di parlare la stessa ‘lingua’ del ciarliero bucatino perché capitolino.
Questa sentita superiorità scaturisce dalla convinzione che in nessun tipo di pasta c’è il miglior condimento esistente al mondo che è il sugo all’amatriciana, l’intingolo più buono e saporito che ci sia. Una convinzione da rispettare, ma…
«All’amatriciana è la morte vostra…» dissero gli spaghetti con ironia.
«A li mortacci vostra, ‘nvece» replicò il bucatino toccandosi «E me lo dovevi puro aricordà? Pe’ colpa vostra semo tutti imparentati, semo tutti ‘na pasta. Ma volemo scherzà?»
«Ma che stai a dì. La vera amatriciana se fa co’ li spaghetti. Nun lo sapevi? E poi, ‘ndo’ vai vai, nun è mai tarquale» e, ripreso fiato, continuò: «Pe’ preparà gli spaghetti all'amatriciana devi tajà er guanciale a pezzettini – me raccomanno je devi levà la cotica – mettelo in una tièlla a frigge co’ l'òjo e peperoncino tritato, co’ 'n tantinello de vino bianco e lo lasci svaporà. Quando er vino è svaporato, scoli e cacci il guanciale dalla tièlla pe’ mettelo da parte ar caldo. Se mettono li pelati nella tièlla der sughetto de cottura der guanciale. Se còce er pommidòro nel mentre se coceno li spaghetti; scolateli e sbuzzicateli dritto dritto nella tièlla, si aggiugne er guanciale, e facennoli sartà ‘n po’ pe’ misticà bène er tutto. ‘Na grattata de pepe nero e abbondante pecorino. E bon’appetito.»
Al che si risentì il rigatone: «Perché quello mio alla vaccinara de ‘na vorta, nun era bòno? Stamo tutti aspettà che se sdogana.»
Ovviamente gli spaghetti non si fecero reggere: «Guarda che semo noi che la famo da padroni.»
«E a noi andove ce mettete?» risposero tutt’insieme le fettuccine «Ve damo pure er primato mondiale ma dopo gli spaghetti venimo noi. Noi semo le più famose! Voi, invece, appartenete ar tipo generico de’ li maccheroni.»
«Fateve ‘na cantata e ‘na sonata co’ li cuggini alla chitàra» si rifece vivo il bucatino con gli spaghetti.
«Eh eh, n’esaggeramo, nun la sparamo grossa. Qua er primato mondiale ce l’avémo noi. In tutto er monno conoscono li ravioli» venne la voce dal reparto di quelli… a panza piena.«Pure noi semo internazionali» fece la lasagna.
«Panza mia fatte capanna, dicono l’ommini» fece eco il bucatino con tono sincero pensando di dire chissà quale verità.
«Me sa che qua stamo a esaggerà. Semo tutte bòne pe’ l’ommini. Noi co’ ‘a cacciaggione che c’annamo male?» fecero in coro le pappardelle.
Gli gnocchi non ce la fecero a stare zitti: «Aho, mo c’avete stufato. Quanno mai a voi è stato dedicato ‘n giorno? Nella città sempitèrna er giovedì ce semo solo noi. E’ d’obbligo e nun se transigge!»
«…che ve fanno la festa er giovedì, hai voluto di’?» fu la risposta spavalda e canzonatoria del solito. Quest’ultimo, s’è capito, ne aveva per tutti. In attesa di scelte da parte della clientela, per combattere la noia – direi più per abitudine – si divertiva a sfottere, a provocare la pasta che... dorme.
E fu la volta di…
«Anvedi quelle che conoscono er… clarinetto. Annateve a nasconne, che se ve vede la boncostume…» ce l’aveva con le chitarrine che ritennero di non rispondere e si rigirarono dall’altra parte.
Non contento, se la prese con i capellini perché erano buoni solo per gli ammalati e gli anziani; con i vermicelli, poi: «Ma come ve và. Ma indove annate co’ ‘sto nome?»
«Degustibusse» gli rispose qualcuno.
Non si salvarono le bavette: «Me sembrate quelle che stanno sempre co’ la voja ar gargarozzo» nè i ditalini che prendeva in giro giocando sugli equivoci e ammiccamenti. Giocava molto sui doppi sensi.
«Ma fatte l’affari tua, pensa alle corna tua!» urlò qualcuno che non si sottometteva a quelle prepotenze – per farlo desistere. E altri presero coraggio: «’Sto ciarlone» e da un’altra parte: «A fregnacciarooo.»
Ma quella faccia tosta non desisteva e non provava vergogna: «So’ libbero de di’ quello che me pare. Guarda andove sto ‘n ‘mezzo?» e, poco dopo, continuò la carrellata delle sue critiche e dei suoi sfottò.
«C’avemo pure li terroni…» Lo disse senza cattiveria ma solo per il gusto di provocare. E infatti la provocazione ebbe effetto e la risposta non si fece attendere: «Ma statte zitto. Come ve chiammeno a voi, …oni e …oni. E c’è la rima!»
Ormai sembrava una guerra aperta su un palcoscenico teatrale.
«Ah siiiì, e come la mettemo co’ ‘sti maltagliati, malfatti e mezzemaniche. Che bella compagnia!» e proseguì con finta cattiveria perché spesso gli scappava pure da ridere «Ma tu guarda ‘ste orecchiette. E’ tutto un dire. Nun vojo equivoca’, ma tu pensa che so’ pugliesi e se sposano quasi tutte col genovese. Il pesto co’ le pesti» e rise di gusto solo lui «…e quelli strangolapreti? Aaah, se potessi strozzà chi dico io… Basta, sennò m’avveleno er sangue.»
A metà giornata ci fu un momento di calma. Purtroppo non durò molto. A scatenare la rissa fu uno sprovveduto avventore che, senza farlo apposta e senza accorgersene mischiò, sovrapponendole, alcune confezioni: una confezione di cannelloni andò a finire senza volere di nessuno – e la responsabilità non è nemmeno di chi scrive che osservava a distanza – proprio nella cassetta delle confezioni di bucatini. Apriti cielo: «Ahooo, e scanzateve! Nun approfittate perché sembrate ‘n bazzuca» disse risentito. E, per cercare consenso, si girò dalla parte di quelli a… panza piena e, fra questi, incrociò lo sguardo di agnolotti e cappelletti. Approfittò per allargare lo sguardo proprio da quella parte, dove quelli a… panza piena era la pasta più delicata.
«Anvédi oh! c’è stanno puro li pelmeni, che dalla Russia so’ venuti a riscallasse qua? Mo ce pensa l’acqua sur fornello. Quanno è pronna, al punto giusto, ‘na bella notata nun v’a leva nissuno. Anzi, forse ve fanno fà pure quarche sarto mortale a forza de giravve». Ci fu una risata generale per dare soddisfazione a chi aveva fatto quella triste battuta, non sapendo che l’acqua calda, prima o poi, aspetta tutti. Come dire: alla morte non sfugge nessuno. «Oh, ce stanno pe’ tutte le misure e pe’ tutti li gusti – rivolgendosi ai tortelli, tortellini e tortelloni – ‘nzomma, pe’ tutte le bocche… E ce stanno puro li tortellacci, quelli co’ la cocozza ‘nventati dai polentoni de Ferara». Poi, per darsi arie acculturate: «Da ‘n po’ de tempo me tocca véde puro ‘sto cuscusse. Prima era ‘n piatto straniero, mo è quasi diventato de casa nostra insieme a quell’antro, come se chiama, mannaggia cià ‘n nome strano, ah il kebabbe, che con noi nun cià gnente a ccheffà e abbita da ‘nantra parte.»
Il bucatino riflettè: «Però nun me arincréscono ‘sti forestièri, ‘sto pizzico de orientalità.»
Tante ore erano trascorse, la giornata era stata lunga.
Si sentì un rumore di serrande.

venerdì 2 aprile 2010

LA NOVELLA LIETA di Daniela Rindi

-Vi voglio raccontare una novella lieta, che annuncia una lieta novella!
Ripeteva Topino addentrandosi nel bosco "Senza Idea", con zaino in spalla e passo deciso. Era piccolo, un topo di campagna, con poche possibilità ma tanta voglia di riuscire. Aveva una missione da compiere, voleva raccontare una novella, non una qualsiasi, ma essere portavoce di una lieta novella. Perché ha deciso di fare questo viaggio ora io ve lo racconto.

Topino, viveva in un villaggio di topi senza nome, in un paese senza luogo, in un luogo senza tempo. Tutti sembravano non esistere, tranne lui. Parlavano, camminavano, compravano il pane, bevevano il caffé, giocavano in piazza, ma in realtà non comunicavano tra loro, come facessero parte di uno sfondo colorato, un fondale, dove la vita di Topino aveva il ruolo principale e anche tristemente unico.

Questa situazione durava da sempre, o da ieri, non si sa, perché tutti i giorni si ripetevano uguali, tutti i giorni erano senza memoria. Ma lui era Topino, sapeva di esistere e di vivere, mangiava, dormiva, sognava. Un giorno si svegliò con una voce che gli diceva…
-Topino, sveglia, sveglia, devi andare…devi portare la lieta novella.
Topino spaventato, perché nessuno aveva mai comunicato con lui, perché viveva in un posto che non c’era e con gente che non esisteva, rimase senza fiato.
-Cosa?…Come?…Chi sei?
La voce si fece silente per qualche giorno o per molti, non si sa, ma abbastanza da far pensare a Topino di essersi sbagliato e continuò a fare la vita di sempre, non parlare mai veramente, non incontrare mai nessuno veramente.

Eppure tutti esistevano, il panettiere, il falegname, il mastro, la maestra. Nessuno però scambiava un pensiero, un'idea, solo frasi di circostanza:
-Buongiorno signor panettiere, che bella giornata!
- Ma se lo dice lei! Io sono sveglio dalle tre del mattino!
- Buon giorno signora maestra!
- A lei signor Topino, ma ho tanti compiti da correggere, non mi faccia perdere tempo!
Il falegname lo liquidò con la stessa velocità, continuando a levigare lo stesso pezzo di legno!
-Ma quale novella dovrei raccontare?
Si continuava a domandare Topino.
-Non ho mai letto libri di favole e non me le hanno mai raccontate, neanche da piccolo, ammesso di esserlo stato! Che cosa ne so io, che non so ricordare neanche una barzelletta!
Domande, domande senza risposta.
-Forse mi sono perso una notizia sul giornale? Strano però, perché le notizie sono sempre le stesse, anche se il giornale lo compro ogni mattina!

Topino si stava perdendo d’animo. Una sera stanco e annoiato, già dimentico della voce, si mise a letto e lì la voce si fece risentire…e vedere! Apparve di fronte a se un’immagine poco nitida, talmente poco chiara che dovette mettersi gli occhiali! Si strofinò gli occhi, bevve un bicchiere d’acqua e la voce si fece risentire…
-Topino devi raccontare una novella, che annuncia una lieta novella.
Topino era scettico, sembrava solo un gioco di parole, ma voleva vederci più chiaro, scoprire cos’era quell’immagine che gli parlava in modo così enigmatico. Si alzò e si avvicinò all’immagine sfuocata, sperando di vederla svanire, ma più si avvicinava, più diventava reale. A un certo punto, fu così vicino che la toccò! Non poteva credere ai suoi occhi, l’aveva sempre vista sul suo comodino, immobile, era sempre stata lì, non sapeva neanche lui chi gliel’aveva messa e quando, ma aveva sempre sentito essere la sua foto… la foto di sua mamma!

Adesso era lì, di fronte a lui e poteva toccarla, sentire il suo odore. Non aveva mai “sentito” una mamma, il suo profumo, il suo calore, perché nel paese dove viveva, la realtà non esisteva veramente. Sapeva di buono, di casa, era tutto quello che, mancando, lo aveva fatto sentire molto solo fino a quel momento. Aveva sempre vissuto con l’immagine di lei in casa, ma nessuno l’aveva mai conosciuta realmente, nessuno le aveva mai parlato di lei. Una madre doveva averla avuta per forza, non era un orfano e qualcuno aveva lasciato traccia della sua storia sul comodino. Lui non si era mai posto tante domande.

Quanto è stato tutto così illusorio e finto fino a quel momento! Adesso che sua madre era lì di fronte e che gli parlava, parlava proprio a lui! Come era bella la sua voce, come gli si rivolgeva dolcemente. Le sue parole riempivano la stanza e il ghiaccio intorno al suo cuore si scioglieva piano piano, un monolite innalzato da tempo, in un luogo senza tempo. Gli raccontò tutta la sua storia, parlò tutta la notte, tutte le notti, non si sa. Le favole che gli narrò e che dimenticò, le carezze che gli diede e che lui rifiutò, la presenza attenta che disapprovò, tutto l'amore che aveva per lui e che allontanò. Sì, perché fu proprio lui ad allontanare sua madre dal suo cuore e così tutto il resto.

Aveva reso tutto finto, rifiutando l'amore. Lui aveva scelto di esistere da solo. La realtà finì per diventare, così, uno spazio immobile, dove tutti avevano ruolo di comparsa. Fu lì che la mamma gli assegnò la missione, portare la lieta novella, senza paura, con determinazione.
-Prendi lo zaino e parti. Sarebbe un vero peccato se non raccontassi a tutti questa storia, la tua storia, perché proprio questa è la novella lieta, che annuncia una lieta novella.
Così dicendo l'immagine svanì e non riapparse più.

Topino aspettò un giorno, un altro e un altro ancora, nella speranza di vedere tornare sua madre, che ahimé, non apparì più. Mentre si stava disperando, si accorse però di aver contato i giorni, calcolato il tempo. Non era mai accaduto prima! Corse fuori e comprò un giornale, tornò a casa e lo confrontò con quello vecchio. Aveva un'altra data! Allora il tempo stava diventando reale? Ricorse fuori, andava talmente forte che non vide la maestra attraversargli la strada. Ci fu un gran botto, tutti i fogli volarono per terra.
-Ahi che male!- disse topino rialzandosi a fatica e vide la maestra stesa a pancia in giù.
-Accidenti ho ammazzato la maestra!- urlò tentando di sollevarla.
Ma niente, non si muoveva. Allora, con un grande sforzo, la prese in braccio e se la portò a casa. Stravolto dalla fatica, la mise distesa sul letto, le preparò un latte caldo e le mise una pezza fredda sulla fronte. Dopo poco la maestra aprì gli occhi e sorrise a Topino.
-Grazie, grazie molte, se non fosse stato per te, sarei ancora distesa in mezzo alla strada, nessuno mi ha mai prestato tanta attenzione.
Guardò sul comodino.
-Quella è la tua mamma, vero? Mi ricordo adesso di lei, forse è stata la botta in testa…era una donna dolcissima e ti voleva tanto bene. Sarebbe veramente fiera di quello che hai fatto oggi, della persona grande che sei diventata. Adesso sto bene, sono in grado di poter tornare a casa.
Così dicendo si alzò e si avviò verso la porta.
-Grazie ancora… chiamami… Topino, perché questo è il tuo nome vero?…Chiamami se hai bisogno di me o anche solo per parlare con qualcuno. Sarò tua amica per sempre.

La maestra se ne andò e Topino rimase in silenzio. Non poteva credere a ciò che stava succedendo, ma si sentiva felice. Uscì di nuovo, stavolta perché aveva fame e andò a comprarsi una focaccia. Il panettiere appena lo vide gli fece delle gran feste. Aveva saputo dell'incidente con la maestra e del suo soccorso. Gli raccontò sorridendo che anche lui aveva fatto altrettanto con il falegname, che nel pomeriggio si era dato una martellata su un dito! Gli porse della focaccia al formaggio.
-Ma io non ho mai preso focaccia al formaggio- disse topino.
-No, ma la prendeva sempre la tua mamma, adesso me la ricordo bene, veniva a comprartela dopo averti accompagnato a scuola.
- Grazie signor panettiere.

Incredulo di aver detto grazie per la prima volta Topino s'incamminò.
-Allora è vero che la mia mamma si è sempre presa cura di me, io ho dimenticato per non soffrire… mi sono chiuso per la paura di ricevere, o peggio di dover dire grazie! Che stupido che sono stato!
Così dicendo corse a casa, preparò lo zaino e partì.
Ancora oggi si racconta di un piccolo topo di campagna che cammina e cammina nel bosco "Senza Idea", orgoglioso e felice, narrando una storia bellissima, senza perdersi mai.