domenica 28 febbraio 2010

CORTILE di Aldo Ardetti


I condomini non socializzavano come d’abitudine. Incontrandosi si salutavano con gesti, si intendevano con scuotimenti del capo o espressioni del viso. Questo modo di fare era la conseguenza di quale segreto, di quale mistero?
Un giorno, di primo mattino, Adelina non ce la fece più a stare zitta e sbottò quando incrociò la signora Assunta: «E’ finita la pace! Cosa avrà combinato quel pover’uomo?»
«Cosa sarà successo in quella casa?» aggiunse la vicina che altro non poteva o non sapeva esprimere.
Parlavano di Lorenzo e Silvana Carlini, i coniugi che abitavano al quarto piano della stessa scala, che erano andati sempre d’amore e d’accordo ma, da qualche tempo, l’uomo era diventato irascibile e cercava ogni pretesto per litigare. La moglie non sapeva cosa pensare: «E se fosse arteriosclerosi? o perché in certi momenti non è più arzillo come lo è stato una volta?» diceva a chi, con disinvoltura, aveva la faccia tosta di chiedere oltre il lecito.
La verità è che Lorenzo era diventato molto geloso.
«Sei una puttana! Perché mi hai fatto questo? alla tua età, poi.»
La signora Silvana, nonostante l’età che il marito le ricordava spesso, era ancora una bella donna. Teneva alla cura del proprio aspetto mettendoci un pizzico di civetteria.
Lorenzo era convinto che avesse un amante.
Una notte veniva giù che dio la mandava. Un ventaccio torturava i pini del cortile. I condomini avevano paura: sapevano che le radici di quegli alberi sono poco profonde ed era possibile che il vento li sradicasse. Un temporale che non si ricordava, con fulmini che abbagliavano l’intero caseggiato. Nei rumori del diluvio – un fulmine cadde in zona e fece tremare a lungo i vetri delle finestre – si sentì un urlo sovrumano, un prolungato grido animalesco che fece accapponare la pelle a chi era ancora sveglio. Quando il temporale si calmò, Adelina si avvicinò alla finestra della cucina e prese coraggio per scansare la tendina. Fu in quel momento che vide una persona attraversare il cortile, avviarsi frettolosamente e poi correre verso quella che era considerata una uscita secondaria, verso la chiesa, dove la strada era stretta, poco illuminata e poco frequentata.
Il mattino seguente si respirava una calma inusuale, la calma dopo la tempesta. I coniugi Carlini non si erano visti né sentiti fino a quando una sera, alcuni vicini videro Lorenzo alticcio, seduto sui primi gradini con il capo tra le mani. Al loro saluto non aveva risposto, né alzato la testa.
L’indomani fu ancora Adelina a parlarne tra i banchi del mercatino rionale: «Non si sono più visti. Saranno partiti senza avvisare.»
«Nooo, qualcuno starà poco bene e si saranno rintanati in casa» azzardò Assunta.
«Mah, non si sa cosa pensare. E che stanno tutti male?» replicò Adelina.
«Dopo tutte quelle liti, preferiscono non incontrare gente. Non vogliono dare spiegazioni, raccontare i fatti loro» precisò Assunta.
«Non è la prima volta che ci si confida i nostri problemi. Qui siamo tutti una famiglia…» obiettò Adelina.
«E’ vero, ma questa volta è diverso. Questa volta si tratta…» ammiccò Assunta.
«…di corna volevi dire» rispose maliziosa Adelina.
«Non mi meraviglio più di niente. Ti ricordi della figlia di Annarella… Giulia?»
«Se me la ricordo? eccome se me la ricordo! Fu una tragedia quando i genitori vennero a sapere che…», Adelina lasciò cadere il ricordo.
«Sa che le dico, decidessero quello che vogliono. Gli auguro di risolvere i loro problemi e di riacquistare un po’ di serenità, loro e pure noi. Si è fatto tardi, devo andare a preparare il pranzo per mio marito che fa il turno di pomeriggio e non voglio che…» e, prima di finire la frase, alzò gli occhi verso l’appartamento del mistero giacché, chiacchierando chiacchierando, erano arrivate sotto casa.
I profumi degli intingoli, soprattutto quelli forti e caratteristici delle varie cucine etniche, non riuscivano a nascondere un cattivo odore che cominciava a diffondersi nell’aria. Allora capirono che qualcosa di grave era successo. Cominciò a radunarsi una folla di curiosi.
Quando i Vigili del Fuoco entrarono nell’appartamento del quarto piano, furono investiti da un fetore terribile. In cucina apparve ai loro occhi la tragica conclusione: l’uomo era a terra in un lago di sangue rappreso. Il corpo, in posizione supina, faceva ancora più impressione. Un coltello, che aveva colpito più volte l’uomo deturpandone il viso e martoriandone il corpo, era conficcato nel petto.
Due macchine della Polizia si erano portate sul luogo del delitto. La zona fu delimitata per facilitare il trasporto del materiale e delle apparecchiature della Scientifica. Mentre i tecnici procedevano nei rilievi, il commissario Miocci iniziò a compilare l’elenco dei vicini di casa e di tutte le persone in grado di riferire particolari utili alle indagini. Alcuni vennero invitati a presentarsi in Questura: i vicini di casa che, verosimilmente, avrebbero potuto conoscere più cose di altri.
Adelina si avviò per recarsi al Commissariato, recriminando: «Tutto tempo perso»; borbottava perché l’aspettavano le faccende domestiche, fare la spesa e – quel giorno – aspettare il rientro del consorte, muratore in trasferta.
Il commissario Miocci non sapeva da dove iniziare il discorso. Cercò di prenderlo alla larga come si fa in situazioni difficili e con certi soggetti.
«Signora Adelina, suo marito va spesso in trasferta?»
«Si, dottore. Perché questa domanda?»
«Perché risulta che suo marito è assente dal lavoro da diversi giorni. Lei non ne sa nulla?»
«No, mio Dio. E dove starebbe, gli è successo qualcosa?»
«No signora, stia tranquilla. Non sappiamo dov’è ma con chi si trova in questo momento. Suo marito è con la signora Silvana Carlini.»
Adelina mormorò parole incomprensibili.
«E’ sicura di non aver riconosciuto suo marito nella persona che ha visto fuggire la notte del delitto?»
La donna era disorientata: «No dottore, non ho mai visto correre mio marito… per riconoscerlo.»
Il commissario Miocci mostrò le spalle per soffocare il riso.
«La notte del delitto, suo marito salì in casa della vittima, chiamato dalla signora Carlini in seguito all’ennesima sfuriata tra i due.»
Il commissario fece una pausa per controllare la reazione della donna e assicurarsi che ascoltasse attentamente.
«Dunque, l’assassino fu fortunato perché non lo vide nessuno a quell’ora, per il temporale che fece tappare tutti in casa. Quando fu nell’appartamento, possiamo pensare che ci fu un tentativo per chiarire la situazione raccontando come stavano i fatti, confessare la tresca per risolvere la questione in maniera definitiva… Mi sta seguendo signora?»
Adelina fece un cenno col capo. La donna era stravolta, non sapeva più a cosa credere. Il mondo le era crollato addosso. Non riconosceva più l’uomo che era stato suo marito per tutti quegli anni.
«Lorenzo Carlini non volle ascoltare nessuna spiegazione – e non gli si può dare torto – e continuò a inveire fino ad alzare le mani. Fu a quel punto che l’assassino prese un coltello a portata di mano e cominciò a colpire all’impazzata.»
Seguì il silenzio, poi: «Questa la probabile dinamica del delitto» sentenziò il commissario Miocci.
«Avete notizie di… lui?» chiese Adelina mentre pensieri confusi le procuravano un malore subdolo.
«Stiamo lavorando e… prima o poi…. Signora, le ho raccontato tutto questo per sapere se lei si è mai accorta di nulla. Se…»
Il commissario non aspettò risposta.
Adelina era triste, si sentiva precipitata in un baratro. Un’inquietudine le procurava rancore: alla paura dell’abbandono subentrò la collera per quell’uomo che aveva amato e che ora non poteva fare a meno di odiare.
Dei due amanti in fuga ancora oggi non si hanno notizie, che fine abbiano fatto.
Nel vecchio quartiere, di Adelina dicono: «Si preoccupava delle corna altrui e… Ah, la gente!» evocando l’antico proverbio.
«Lo sapevano tutti tranne lei. Succede sempre così», mormoravano altri.
Nel cortile erano riapparsi i gatti – sornioni come sempre sulle panchine o nascosti per le scale – e la sera – miracolo notturno – volavano i maschi delle lucciole.

venerdì 19 febbraio 2010

"Gde Maya Lubimaya" di Daniela Rindi

Mi chiamo Juba, ho già cinquantadue anni, un marito, due figli e tre nipoti. Una vita passata in un paese a nord di Irkutsk, in Siberia. Una vita a fare l'insegnante di una piccola scuola elementare di provincia, che si poteva permettere il riscaldamento solo a giorni alterni.
I bambini, con quelle sciarpe, cappelli buffi calzati fino agli occhi, le pelli diafane, i corpi magri, con quell'energia senza riserve, riempivano la mia esistenza. Trent'anni di insegnamento, senza nessuna interruzione, neanche per stare male. Lavoravo spesso sulle fiabe: metafore, vita, immagini fantastiche che insegnano a sperare. Un giorno se ne sarebbero andati da lì, avrebbero realizzato i loro sogni, avrebbero avuto una possibilità. Ogni mattina rinnovavo questa preghiera con la mia presenza. Sono discorsi già sentiti, lo so; la miseria dovrebbe commentarsi da sola. E invece bisogna riflettere. Quella maledetta idea di un mondo migliore, mi sta uccidendo.
Guadagnavo l’equivalente di ottanta euro al mese; niente, se si considera che il costo del pane è più o meno uguale al vostro. Non c'è nessun rapporto umanamente comprensibile tra salario e costo della vita. Un lavoro ben pagato, era considerato quello di mio marito, impiegato in una fabbrica di ceramica, duecento euro al mese. L'affitto costava il doppio. La mia datrice di lavoro attuale, mi domanda incredula "Ma come è possibile, è un'assurdità… Come si fa a vivere con così poco?". Infatti non si vive, si muore di fame, si parte, cercando di ricominciare. Ma ricominciare cosa, a cinquantadue anni, con una vita già spesa e tutti i ricordi ben piantati nella testa?
E' bello il mio paese, di una bellezza sconfinata, come le sue distese di ghiaccio, silenziose e raffinate. Tutto diventa elegante ricoperto dalla neve. Nasconde il reale, ti lascia vedere solo un immenso mondo bianco: è la visione ovattata della vita. Come nelle favole. Ma la Siberia non è solo questo. Ci sono bellissime chiese ortodosse, paesaggi struggenti, come il Lago Baikal, dove montagne imponenti si specchiano su una lastra gelata. E poi abbiamo l'aringa, tanta aringa con patate.
Del lavoro di mio marito mi sono rimasti alcuni piatti e il disgusto di bere il caffè nel bicchiere di vetro. La fabbrica dove lavorava è stata chiusa e ricomprata dai cinesi, per farne non so bene che cosa. Le ceramiche sono andate in frantumi. "Perché è successo questo?", mi domanda ancora più ingenuamente la mia datrice di lavoro. Bah… La cattiva politica, un governo che ha speculato sulla povera gente. Non riesco a dire molto di più del destino del mio paese. Io sono una del popolo, mi son fidata, mi sono fatta manovrare e adesso ne pago le conseguenze. Tutto qui. "Un governo così andava abbattuto?" Ci abbiamo provato. Il governo nuovo, quello del liberismo, ha fatto peggio. Nessuno se l'aspettava. Ora tutti vanno via dal mio paese, malvolentieri, costretti dalla miseria. Noi tutti amiamo la nostra terra, anche se fa molto freddo; è ancora desolata, melodiosa e struggente. Se ci fosse stata la possibilità di rimanere, saremmo restati e l’avremmo salvata. Io forse non la rivedrò più. Del mio lavoro mi è rimasto il ricordo del sorriso dei bambini, che mi fa piangere la notte. E sono fortunata, mi continuo a ripetere. Ho trovato un lavoro alla mia età! Questo mi permette di aiutare i miei figli, di fargli mangiare la carne, di vestire e mandare a scuola i miei nipoti.

Io e mio marito oggi viviamo in Italia, un paesino del Lazio, una vecchia cantina ristrutturata, di quelle dove si faceva il vino, senza luce. Abbiamo dovuto comprare un gruppo elettrogeno, perché il padrone di casa non pagava la corrente. Ho un gatto e non per amore, ma per mangiarsi i topi. La cantina è riscaldata da una stufa a gas. Quando leggo sul giornale al bar di qualcuno morto asfissiato, giro subito pagina e leggo la prima notizia che mi capita. Puzza da fare schifo. Però, è vero, sono fortunata. Paghiamo solo cinquanta euro al mese, io ne guadagno cento a settimana, mio marito un po' di più, perché lavora a ore in una carrozzeria; ci si può stare. Però non è vita, la mia. Sto lavorando per guadagnare dei soldi che neanche posso godermi, vivo come una zingara, faccio un mestiere diverso da quello per cui ho studiato e vissuto. Ma non è tanto questo che mi fa male, è l'orgoglio. Ho dei solchi profondi nell'anima. Non so più nemmeno chi sono. Mi giudico con gli occhi di chi mi osserva: una russa disperata, che capisce male l'italiano, disposta a tutto per soldi. Solo per questo ringrazio di non avere più vent'anni. Sono poche le mie connazionali che han fatto fortuna; spesso sono proprio russi come noi a fregarle. E’ sempre la miseria che guida la mano. E' umiliante.
Non ho amici, i pochi russi che conosco sono da tenere alla larga, non ci si aiuta, se non per sopravvivere. Per la sistemazione iniziale, c'è una specie di comitato d'accoglienza segreto. Non abbiamo i documenti e non possiamo firmare nessun contratto d'affitto. Casa in nero, lavoro nero e umore nero. C'è gelosia tra di noi, anche se fingiamo di essere una grande famiglia. Ognuno difende la sua pozzanghera d’acqua sporca, occupata con fatica. Normale, ma pure difficile, almeno per me. Non considero che l’essere in miseria comporti l’essere miserabile. Sono una donna onesta. Dover cambiare a forza i propri atteggiamenti. Disconoscere la propria origine, rendersi simili agli italiani, modificare al più presto modo di vestirsi, di mangiare, le amicizie; tutto solo per sentirsi accettati. Io non sono così, non vorrei rassegnarmi.
Avevo una vita prima, adesso non mi basta più neanche rivolgermi a Dio. Si, sono cattolica; in un paese che non ha niente, è giusto credere in qualcuno che abbia il potere di renderti giustizia, un giorno!. Però non mi aiuta, neanche Lui sa più chi sono. Mi manca la famiglia. E' difficile alzarsi alla mattina in un luogo sconosciuto ed astioso. Ancora peggio, avere la certezza di ritornarci la sera, per il resto della vita; la coscienza che nulla potrà modificarsi perché non deve.
E' un meccanismo infernale: io guadagno, continuo a vivere con i miei ottanta euro al mese. Il resto deve tornare alla casa-madre. Si, lo faccio per loro, d’accordo, ma io, per me, sono già morta. Peso quarantacinque chili e sono ancora alta un metro e sessantacinque. Ho eliminato lo spreco anche nel cibo, ma non perché non possa permettermelo. E' un atto volontario, un gesto purificatore. Io creo il vuoto per sparire. Mio marito fa il contrario: mangia di tutto, anche il mio. Lui riempie il suo vuoto. Per un uomo penso che sia più difficile, per questo non ne parliamo mai. Lui fa e basta, non discute, comunque per lui è un'altra possibilità. Lui è più forte, e anche se mangia, leggo nei suoi occhi l'amarezza. E' seduto di fronte, dorme. Io non ci riesco più. Tra di noi esiste un mutismo che sa di rassegnazione e che si è pure ingoiato il nostro amore.
Le poche feste di Natale ci sono servite per portare a casa ciò che ancora non abbiamo: il vostro inutile. Adesso torniamo in Italia. Vedo scorrere le immagini della mia terra dal finestrino del treno, dalla mitica transiberiana. Vado nel paese delle meraviglie senza essere Alice. Vado a fare le pulizie.

venerdì 12 febbraio 2010

QUESTI UOMINI di Pasquale Bruno Di Marco

«Continui a toccarti l’occhio, ma ti fa ancora male?»
«Solo quando cambia il tempo. Ma devo confessarti che quello che mi brucia di più è l’orgoglio ferito. »
«Pensi sempre a lui, vero?»
«Si, sempre. Come ho fatto a credergli? Non riesco a perdonarmelo. Se ripenso alla figura che ho fatto, mi sento l’emblema della stupidità. »
«Non pensarci, capita a volte di dare fiducia a chi proprio non se lo merita.»
«E come faccio a non pensarci? La nostra storia ha fatto il giro del mondo. Tutti la conosco e ridono della mia ingenuità.»
«Se e’ per questo anche la mia storia con quell’altro la conoscono tutti.»
«Si, ma tu ne esci bene. »
«Non ne ho mica la certezza assoluta, sai. »
«Meglio di me sicuramente, alla fine la tua vittoria è inequivocabile.»
«Vittoria inequivocabile dici, vorrei averne la sicurezza. Non ho avuto quella sensazione quando la nostra storia è finita. All’inizio mi sono sentita così sollevata. Quell’uomo era davvero esasperante. Ossessionato da me. Mi ha inseguito dappertutto. Le altre non le guardava proprio. Voleva solo me. Davvero, non ce la facevo più.»
«Questi uomini, questi piccoli uomini. »
«Piccoli uomini, si. Quando ti si avvicinano sembrano esseri trascurabili, senza importanza e invece riescono a condizionarti la vita. Non riesci a sottrarti a loro facilmente. »
«A volte riescono anche a rovinartela la vita come nel mio caso. Quello che ho incontrato io non dovevo proprio sottovalutarlo. Eppure mi sembrava piccolo, indifeso, alla mia mercé, così come tutti gli altri. Mi piaceva sentirlo parlare, mi piaceva sentire come si aggrappava alle parole. Ognuna che pronunciava per lui era un attimo in più di vita che guadagnava. Lui lo sapeva e le sapeva usare. Con quelle sue belle parole mi ha raggirato. Avrei dovuto schiacciarlo subito, come ho fatto con tutti gli altri. »
«E’ vero quello che dici. All’inizio questi piccoli uomini sembrano quasi indifesi. Le prime volte, quando li vedevo avvicinarsi a me, cosi minuscoli da sembrarmi inermi, provavo quasi imbarazzo per loro. Poi, sentendo le prime punzecchiature, ho cominciato a rivoltarmi infastidita e li gettavo via senza badare loro più di tanto. Ma ho dovuto imparare subito a non sottovalutarli. Se li lasciavo fare mi avrebbero mangiato viva. »
«Ti confesso che ero io che li divoravo. A volte mi sembrava di essere un mostro senza cuore ma quando ho fatto i conti con la crudeltà di quell’uomo, è stato facile rendermi conto che la mia mostruosità era controbilanciata dalla sua capacità di essere spietato e cinico. Accecarmi così, mentre dormivo è stato oltretutto vile, un atto da vero codardo. Ma quello che più m’ha offeso è stato prendersi gioco di me, mentirmi e farmi fare una figura da imbecille anche con la mia famiglia. Quante bugie mi ha raccontato. Io pensavo di essere crudele, in realtà i miei erano giochi da bambini confronto alle innumerevoli sofferenze che mi ha inflitto.»
«Anche io sono stata dipinta come un mostro inumano, feroce e assassino, come se fossi stata io ad andare a cercarlo. Ma tutti, proprio tutti, sanno che era lui che mi inseguiva, non mi lasciava in pace, studiava i miei percorsi per darmi la caccia. La sua fine se l’è voluta lui, l’ha desiderata, l’ha invocata. Aggrappato a me fino all’ultimo istante, se avesse potuto mi avrebbe strangolato. Sono sicuro che fosse proprio la morte che desiderava, legato a me per l’eternità a ricordarmi quanto mi aveva desiderato e quanto aveva sofferto per me.»
«E’ stata la sua pazzia, la sua ossessione a causare la sua morte. Tu non hai nessuna colpa, anzi ne esci vincente alla fine. Invece nella mia storia sono io lo sconfitto. »
«Che senso ha chi ha vinto e chi ha perso ormai, Polifemo? Tutto passa, il tempo scorre, sia per noi mostri che per loro, i piccoli uomini che hanno incrociato il loro destino con il nostro. E anche io devo confessarti che, adesso che non c’è più, a volte quando sono immersa nelle profondità dell’oceano, sento la sua mancanza e istintivamente salgo in superficie con l’inconfessata speranza di vedere ancora una volta le vele del Pequod. Scruto l’orizzonte tutto intorno. Poi spruzzo in aria tutta la mia solitaria delusione e mi immergo di nuovo. Beviamoci su. Alla salute.»
«Alla salute, Moby. »

venerdì 5 febbraio 2010

UNA NOTTE IN PINACOTECA di Carlo Miccio

A mezzanotte in punto, come da accordi, Marco Cicoli era davanti al cancello del Palazzo della Cultura e, come da accordi, modulò il concordato fischio di riconoscimento. Dovette ripetersi una, due, tre volte, e quindi bestemmiare sommessamente, prima che dal buio oltre il cancello emergesse la sagoma barcollante del suo amico Peppe. Cicoli avvertì subito che c’era qualcosa di strano nell’incedere del suo amico, come un’incertezza premonitrice, e quando quello finalmente gli arrivò di fronte, anche se dall’altro lato del cancello, le sue impressioni furono drammaticamente confermate. Davanti a lui la faccia stravolta di Peppe prometteva guai.
“Ma che hai fatto?” domandò Cicoli. L’amico gli rivolse uno sguardo strabico, mentre estraeva di tasca sigarette e accendini.
“Fermo - intimò Cicoli – qualcuno potrebbe notare la fiamma dell’accendino.”
Esitando un attimo, Peppe ripose le sigarette, e sempre in silenzio si concesse qualche secondo per grattarsi il mento.
“Insomma, che hai fatto?” gli chiese di nuovo Cicoli, e l’amico gli rispose balbettando che, come da accordi, all’ora di chiusura si era chiuso in bagno, e quindi se ne era stato rinchiuso nel sottoscala del Palazzo della Cultura ad attenderlo per oltre 4 ore. E siccome ad un certo punto aveva iniziato a sentirsi nervoso, si era preso qualche goccia di valium.
“Quante gocce di valium?” sibilò allarmato Cicoli.
“Dieci” rispose Peppe. Poi, fissando lo sguardo sulla punta delle proprie scarpe, ammise biascicando “E poi altre dieci, perché non sentivo l’effetto delle prime.”
Marco Cicoli alzò uno sguardo furente alla luna, maledicendo la stupidità dell’amico e la propria incapacità a scegliersi un complice decente per quella che doveva essere una storica rapina. Ma poi, sempre guardando la luna, si disse che visto che ormai erano lì, tanto valeva provarci.

Entrando nel sottoscala, Marco Cicoli venne immediatamente colpito dal tanfo delle decine di sigarette che Peppe si era fumato durante le quattro ore di attesa.
“Ma sei scemo? – si rivolse bisbigliando al compare – Potevi far scattare l’allarme anti-incendio!”
“Quale incendio?” domandò imbambolato Peppe, ricevendo per tutta risposta un sommesso vaffa… .
Cicoli si guardò intorno: nell’oscurità scintillava un lucido palchetto in parquet, e davanti delle file di sedie e un mixer audio. Uno spazio piccolo, ma perfetto.
“Stronzi – si rivolse a mezza voce Cicoli all’amico – questo spazio, in teoria, avrebbe dovuto ospitare le band emergenti e le compagnie teatrali della città. Uno spazio da autogestire, avevano detto vent’anni prima quando era stato costruito, e invece alla fine si sono occupati tutte le stanze per farsi gli affari loro, e la sala conferenza la usano solo per presentare i loro fottuti libri, e i libri dei loro amici, oppure ospitare politici provenienti da Roma per un pomeriggio in passerella nel cuore della provincia italiana.”
“E riempiono di soldi quel ciccione della televisione” aggiunse astioso Peppe, che odiava ogni singola persona che apparisse in televisione.
“Già” grugnì Cicoli. A quell’epoca suonava in un gruppo punk, e quel palco se l’era sognato settimane intere, senza mai riuscire a metterci piede sopra. Sognava di suonarci davanti alla sua ragazza, ai suoi amici, sognava concerti e jam session, sognava il nome della sua band, i Senza Scienza, sui manifesti del corso. E invece niente, quel posto era rimasto chiuso per anni, praticamente inutilizzato. Stronzi, si ripeté mentalmente, li odiava quegli stronzi. Per quello aveva pensato di rubare quel quadro. Anzi, per quello lo stava facendo, a costo di accompagnarsi ad un complice gonfio di valium e obbiettivamente anche un po’ rincoglionito di suo.

Per entrare nella pinacoteca bastò aprire una porta, perché Peppe, prima d’imbottirsi d’ansiolitici, aveva avuto la precauzione di bloccare la maniglia.
Marco Cicoli inspirò il familiare odore di chiuso della stanza, e una volta abituatosi al buio iniziò a far scivolare lo sguardo su una collezione di opere dal cospicuo valore artistico e monetario. Un ben di Dio, avrebbe detto sua nonna. Cicoli dentro di sé dovette combattere con quel naturale istinto di avidità che spesso coglie chi vive perennemente con le tasche vuote, quella bulimia del desiderio che assale chi nelle vetrine vede solo oggetti che non può permettersi. Con aria sognante passò un dito sulla polvere che rivestiva la protezione in vetro di un quadro di Boccioni, e poi si chinò ad odorare i colori ad olio di una tela del Montanarini, ma la sua estasi durò poco, interrotta da un tonfo soffocato alle sue spalle. Voltandosi di scatto, Cicoli scoprì l’amico che sosteneva a fatica una testa di bufalo in marmo del Cambellotti sul punto di cadere dal piedistallo che la sorreggeva, e si precipitò ad aiutarlo.
“Lo stavo solo accarezzando” biascicò a mo’ di scusa Peppe: barcollante com’era si stava solo rivelando un pericolo ambulante per i pregiati pezzi sparpagliati disordinatamente nella sala. Un elefante in un negozio di porcellane, avrebbe detto un inglese.
Insieme tirarono su il bufalone sul suo sostegno in legno, dopo di ché Cicoli ordinò in tono imperioso all’amico di rimanere fermo e non muoversi più, mentre lui, con passo sicuro, si avvicinava al quadro che tanto a lungo aveva desiderato. Si allungò sulla parete, lo staccò con gesti prudenti dal muro, se lo infilò amorevolmente sottobraccio, e insieme a Peppe ripercorse a ritroso il tragitto già fatto. Chiusero ogni porta lasciata aperta e si avviarono verso l’uscita. Poi, così come erano entrati, uscirono, e si diressero veloci alla macchina, parcheggiata poco distante.
Una volta in macchina Peppe si addormentò subito, mentre Cicoli guidava nella notte cercando di tornare a casa senza imbattersi in qualche posto di blocco.

Il giorno dopo Marco Cicoli cercò notizie del furto sui siti internet, ma non ne trovò cenno. Il giorno dopo ancora comprò tutti i quotidiani locali, ma del furto ancora nessuna menzione. E così avvenne il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Allora Cicoli si convinse che nessuno si era ancora accorto del furto, e mentre in volto gli si allargava un sorriso soddisfatto tirò quel sospiro di sollievo che da quattro giorni tratteneva in gola.
Quindi, con studiata lentezza, si alzò dal letto e andò ad aprire l’armadio adagiato sulla parete opposta. Infilando cautamente le mani, spostò le giacche dal carrello delle grucce, e tornò a sdraiarsi sul letto con aria sognante. Con la testa appoggiata sul cuscino, adesso poteva ammirare il quadro in tutta la sua magnificenza, le tonalità in ombra, le figure perfette, i colori distesi con pennellate sicure sulla tela ruvida.
Si accese una sigaretta, e strizzando assorto gli occhi disse: “Sei mio. Sei tutto mio.”