mercoledì 30 dicembre 2009

DOMANI ANDRA' MEGLIO di Daniela Rindi




Il bello di questo lavoro è che mi fa girare l’Italia. A volte vedo dei paesi di cui non avrei mai immaginato neanche l’esistenza, come Castelvetrano. Un'unica strada deserta dove le sole figure umane che appaiono sono coppie di vecchiette imbalsamate, vestite di nero, sedute davanti alla porta di casa. Passeggiando per il corso ho la strana sensazione che da un momento all’altro i loro occhi possano cominciare a sputare fuori scarlatti raggi di fuoco, carbonizzandomi. Come Tifone.

Una coppia d’anziani gioca concentrata a scopa fumando il sigaro. Passo inosservata. Neanche l’ombra di un giovane, sembra si siano tutti teletrasportati altrove, forse per salvarsi dalla malinconia. Mi avvio verso l’unico albergo disponibile, un tre stelle da denuncia alla guida Michelin, al terzo piano senza ascensore. Cerco di comunicare con il portiere dietro il bancone che sta masticando uno stecchino, un residuato della cena di qualche ora fa, senza grande successo. Lo sguardo non si scolla dal televisore sopra la mensola con donnine seminude che ballano. Effettivamente a ragione, hanno dei bei sederi.

Il classico colpo di tosse lo attira a me, ma solo per un istante. Mi adeguo e accetto le chiavi di qualcosa che spero abbia almeno un giaciglio per distendere le mie ossa stanche. Poso la valigia nella camera che per fortuna ha un letto, una sedia e un tavolino, nonostante ciò riesco in ogni caso a dubitare delle mie scelte lavorative. Uno scarafaggio mi taglia la strada e il piccolo lavandino che goccia situato nell’angolo mi fa pregustare l’insonnia.

Mi guardo attorno, ascoltando il vuoto siderale, ma ho il dubbio che non provenga dall’eco della stanza vuota. Mi spoglio contando i peli che si rizzano sulle braccia e mi ficco sotto le coperte ghiacciate. Provare a lamentarsi con la direzione per la mancanza di riscaldamento a dicembre sarebbe tempo perso. Probabilmente non risponderebbero nemmeno, anche loro incollati al tubo catodico. Provo ad applicare la mia conoscenza yogica e meditativa per cercare di immaginare il mio corpo prendere fuoco, cominciando dai piedi, ma neanche all’altezza del terzo chakra sono già semi-assiderata. Meglio una bella corsa sul posto.

Mentre saltello scompostamente cerco di non farmi domande che potrebbero mettermi in serio imbarazzo. Raggiunta un’adeguata temperatura corporea, scomparso il colore bluastro dei miei arti, riprovo a stendermi sul letto, ma gli occhi si fissano su quell’unica immagine attaccata al muro, la Madonna Addolorata col cuore in mano, che invece a me consola. Sono sola è vero, ma c’è sempre chi sta peggio. Ognuno fa come può. Io per esempio per finire qui mi ci sono messa d’impegno.

Aggrottando la fronte mi sforzo di chiudere gli occhi, se non altro per dimenticare questa stanza d’albergo, che sta rendendo sempre più instabile e traballante il mio credo artistico. Tutto questo non l’avevo messo in conto, colpa mia. Lo dovevo dedurre alla firma del contratto, quando mi hanno concesso solo la paga minima sindacale. E ho dovuto perfino ringraziare, perché c’è chi sta a casa! Strano mestiere questo, devi pregare per lavorare e ringraziare perché ti affamano e in molti casi, mostrare pure una certa gratitudine e simpatia al datore di lavoro, nella speranza si ricordi di te alla stagione successiva.

Una tripla fatica senza ferie pagate. Poi se ci riesci, emergi finalmente, hai successo, si stupiscono di quanto sei cambiata…dai solo pan per focaccia, psicologia spicciola. Occhio per occhio, dente per dente. I miei hanno ballato abbastanza, ma si sono solo spezzati. Adesso è meglio provare a dormire, domani mi aspettano altri chilometri, naturalmente con la mia macchina in cambio di un forfetario rimborso benzina calibrato su una comune utilitaria. Io ho un golf gt cabrio ad iniezione. Ma non ho colpe, è stato il buonuscita di un mio ex fidanzato. Pensava di farmi un favore…
Mi giro e mi rigiro nel letto fino a tardi, tanto alla fine so che solo un unico pensiero mi tranquillizzerà lasciandomi addormentare serenamente: domani debutterò a Catania…forse lì andrà meglio.

sabato 26 dicembre 2009

CORSO DI DIFESA PERSONALE di Pasquale Bruno di Marco


Praticavo judo da qualche anno. Mi ero imposto questa “cura” per la mia scarsa aggressività e avevo scoperto che mi piaceva affidarmi al maestro, colui che sa e guida l’allievo. Mi piaceva ancora di più lo studio delle tecniche, eseguite lentamente per interiorizzare i movimenti, sembrava di provare i passi di un ballo. Ma quando il corso non è stato più limitato solo ad allievi di sesso maschile ho scoperto che quello che veramente mi rendeva felice era esercitarmi nella lotta a terra con le compagne. Non ho raggiunto grandi risultati sportivi ma la passione e lo zelo nello studio delle tecniche a terra, corpo contro corpo, non mi ha mai abbandonato. Alla fine di quell’anno il maestro ci ha comunicato che ci sarebbe stato un corso di difesa personale tenuto da uno specialista. Ricordandomi del motivo vero che mi aveva spinto in quella palestra decisi di seguirlo.
Il giorno della prima lezione ci trovammo di fronte un uomo non giovanissimo, capelli con taglio militare e uno sguardo freddo. Inizialmente ero perplesso, ma il modo pacato e consapevole in cui muoveva il suo corpo allenatissimo nello spazio intorno a se, giustificava il senso di autorevolezza che sentivo emanare da lui. La voce calma e profonda, mentre ci raccomandava di scordare i combattimenti cinematografici o il wrestling che erano “meri balletti’, mi ha rassicurato definitivamente. Da perfetto maestro di disciplina orientale ha cominciato la lezione con un racconto:
«Un giorno un uomo mi ha offeso. Io l’ho guardato, mi sono girato e mi sono allontanato.»
Subito io ho pensato che evidentemente voleva far capire a noi allievi che è importante non badare alle piccole provocazioni.
«Quell’uomo mi ha raggiunto, mi si è messo di fronte e mi ha sputato sui piedi. Io mi sono girato e me ne sono andato di nuovo. »
Quindi, continuavo a riflettere mentre seguivo il racconto, per l’uomo saggio è importante comunque mantenere la calma ed evitare scontri inutili.
«Quell’uomo mi ha raggiunto di nuovo, mi ha chiamato vigliacco e mi ha dato un schiaffo. Io mi sono girato ancora mi sono allontanato di fretta. »
E’ chiaro che qui il messaggio veniva rafforzato dal concetto che la vera forza era sopportare quelle offese anche a rischio di far la figura dei vili.
«Quell’uomo mi è corso dietro e mi ha colpito con un poderoso calcio sul fondoschiena facendomi ruzzolare per terra. Io, sebbene un po’ dolorante, mi sono prontamente rialzato e mi sono messo a correre per allontanarmi da lui. »
Ovvio, riflettevo, si rischia una figura di merda, questo è innegabile, ma come non sentire ammirazione per chi ha la forza interiore per non preoccuparsi delle opinioni altrui e mantenere la lucidità.
«Quell’uomo mi ha inseguito insultandomi in modo estremamente fantasioso e urlandomi che mi avrebbe ucciso perché non meritavo di vivere. »
Lo sguardo dei miei compagni denunciava chiaramente che ritenevano ormai costui una specie di invertebrato. Io invece ragionavo sul concetto di forza. Non è forse questa la vera forza? Sono forte perché evito di usare la forza. Evitare lo scontro che, pur se vittorioso, qualunque cosa significhi “vittoria”, comporta sempre la perdita di qualcosa, e quindi sconfitta.
«E solo quando mi sono ritrovato senza possibilità di fuga, chiuso nell’angolo da quell’uomo che aveva deciso di picchiarmi, solo allora ho reagito. E sapete perché? »
Certo, stavo per rispondere un po’ sorpreso del silenzio in cui rimbombava l’eco della domanda del maestro. Certo, il dovere morale dell’uomo, il rispetto per la vita, la responsabilità etica di evitare comunque il conflitto per qualunque ragione se non quando siamo costretti alla legittima difesa, quando la nostra incolumità, e solo allora, corre un pericolo gravissimo.. Che profonda lezione morale ci sta dando questo tipo che avevo temuto fosse una specie di rambo da strapazzo, un esaltato. Grazie, stavo per dire, grazie maestro, il tuo esempio mi consente di avere ancora fiducia nell’umanità, di credere che l’uomo è un essere intrinsecamente morale ed istintivamente spinto al bene.
Ma non ho fatto in tempo a dire nulla perché il maestro ha ripreso con un curioso brillio nell’occhio sinistro:
«Perché in quel momento - e qui una pausa sapiente – e solo a quel punto l’adrenalina, che la paura avrà fatto accumulare dentro di voi, vi darà la forza e la determinazione per sferrare un unico colpo necessario, ad uno dei tre punti vitali che poi vi indicherò precisamente, che, se dato con la necessaria dose di violenza, stroncherà il vostro nemico stendendolo a terra, vivo o morto non importa, ma assolutamente impossibilitato a reagire. Solo allora saprete colpire senza pietà, o lui o voi.»

venerdì 18 dicembre 2009

MERCANTI di Anna Profumo


Braccioforte è mio tutore da quando all'età di otto anni mi prese a lavorare con se. Ricordo il volto di mia madre, fu sicuramente lei la persona della mia famiglia che vidi per ultimo, mi prese per mano e mi accompagnò fino alla strada. Braccioforte mi fece salire sul carro dicendomi: «Ragazzo, vedrai ti troverai bene. Saluta tua madre». Girandomi, vidi che aveva tirato sulla testa lo scialle, non vedevo il suo viso. Fissai quella figura immobile fino a che non scomparve alla mia vista. Non sono mai tornato.
Facciamo la spola tra il nord ed il sud del paese. Il viaggio dura un anno esatto ed ad ogni primavera torniamo nel suo paese di origine. Questa primavera al ritorno, festeggeremo il matrimonio dell'ultima figlia di Braccioforte. La famiglia di Braccioforte io l'ho vista sette volte, ora ho quindici anni.
Stiamo per entrare nel paese di Orospina dove, come ogni anno, scambieremo lana con grano. Ci stanno aspettando, i bambini ed i giovinetti ci corrono a fianco, il nostro cavallo Biadasecca prosegue sicuro, come un uccello migratore riconosce le sue rotte. Ci fermiamo nella piazza al centro del paese, la gente comincia a radunarsi intorno a noi.
Braccioforte ed io abbiamo cominciato ad urlare dalle porte del paese, dando il tempo alla gente di spargere la voce. "Mercanti, mercanti. I mercanti, son tornati!"
Ad Orospina, la gente è cordiale e si fanno dei buoni affari. Di solito ci fermiamo tre giorni. Non faccio amicizia con i ragazzi e la ragazze della mia età loro mi guardano con diffidenza. Poco dopo esser arrivati in una città, il prete viene a darci il benvenuto. Raccomanda a Braccioforte di passare in chiesa e di portare anche me, «Il ragazzino come non deve crescere senza Dio». Gli raccomanda di essere un buon padre e di insegnarmi le preghiere. Il Prete a questo punto, mi guarda e mi chiede se conosco i dieci comandamenti. Io rispondo: «Settimo, non rubare». E questo pare bastargli, quando ero più piccolo mi accarezzava la testa, da qualche anno mi da un piccolo schiaffo sulla guancia.
Ho una vera passione, in ogni grande città in cui passiamo io cerco la bottega dell'orologiaio e compro orologi da taschino e pendole da muro. Nei paesini poi li rivendo. Mi capita anche di scambiarli ogni tanto. Quando trovo dei pezzi davvero belli non me li faccio scappare, ho un dono, riconosco l'affare. Un anno fà un vecchio ad Orospina mi portò la sua splendida pendola da muro per scambiarla con un orologio da taschino, doveva intraprendere un lungo viaggio e gli serviva un orologio più tascabile. Se non bastò l'aspetto particolare di quell'aggeggio a convincermi, la finezza degli ingranaggi interni non mi lasciò dubbi, quello era un capolavoro. Solo molte città dopo, lucidando la superficie esterna dell'orologio mi accorsi di quel segreto, una delle figurine intagliate del decoro si poteva premere e lasciava scattare un minuscolo cassettino che conteneva ben fissata al fondo una chiave d'oro. Per un anno ho cercato di immaginare cosa aprisse quella chiave, ho osservato ogni chiave incontrata per valutarne somiglianza ed uso. Da orologiai esperti ho cercato di farmi dire la provenienza di quella pendola speciale.
Tutti gli indizi mi riportarono quì. Domani ripartiamo, sono riuscito a sapere dove abitava il vecchio. Braccioforte dorme ed io mi trovo a percorrere vicoli deserti verso una vecchia casa al margine del paese, mi dicono disabitata da quando è partito il vecchio. La luna illumina la strada e le ombre. La casa è piuttosto grande, la sua sagoma si staglia in un giardino lasciato andare in rovina, mi faccio strada tra i rovi per avvicinarmi alla porta principale. Mi avvicino con discrezione e provo a far ruotare la maniglia è aperta, la spingo con cautela, dà su un grande salone in cui si intravede una scala centrale che porta la piano superiore e lateralmente altre porte. Da una di queste sembra provenire una luce, come di una candela o di un fuoco acceso. Il cuore mi batte, non sono coraggioso ma non riesco a non entrare. Nella luce fioca della stanza intravedo una figura avvolta in un mantello seduta vicino al fuoco che arde lento nel camino. «Ben arrivato ragazzo». Mi dice il vecchio. Continuo ad avvicinarmi al fuoco ed al vecchio. Quando gli arrivo vicino allungo le mani per scaldarmi e mi giro a guardarlo in volto.
E’ il vecchio della pendola non c’è dubbio. «Ti ricordi di me ragazzo? Ti aspettavo».
Non riesco a dir nulla, estraggo la mano dalla tasca e gli porgo la chiave d’oro.
Prendendo la chiave dalle mie mani, abbassa la testa come a confermare qualcosa, si alza e mi fa' cenno di seguirlo. Saliamo lungo la cigolante scala che porta la piano superiore percorriamo tutto il corridoio pieno di porte chiuse e ci fermiamo in fondo, davanti ad una porta più alta e stretta delle altre. Il vecchio infila la chiave spinge la porta per aprirla e si fa' di lato.
Entro solo, i miei occhi si abituano pian piano alla poca luce. Nella stanza diverse persone sono disposte vicino ad un letto come per una veglia, una in disparte è seduta su una sedia. «Sei tornato figlio mio, veglio il tuo ritorno dal giorno che sei partito. Sei tornato in tempo. Come sei cresciuto. Ti sei fatto quasi un uomo». Resto senza parole, combattuto tra rabbia e lacrime. Ha il viso scavato, l’unico gesto che mi vien da fare è posarle una mano sulla spalla, che comincia a scuotersi. «Perdonami, perdonami, perdonami». La testa mi gira, ho la sensazione di cadere a terra. «Si, madre ti perdono». Mormoro.
L’aria fresca del mattino mi sveglia. Mi sorreggono le braccia forti del mio tutore, sono sul carro. «Tutto bene ragazzo?». Accenno ad un si con la testa. «Un vecchio mi ha svegliato e detto dove potevo trovarti, che ci facevi davanti a quella casa». «Ho fatto un sogno, ero tornato a casa per farmi abbracciare da mia madre. Credo per l’ultima volta».
«Tutto bene ragazzo?». Abbasso la testa in segno di assenso.
Solo questo si riesce a leggere nel diario che ho trovato.

venerdì 11 dicembre 2009

DEJA VU di Aldo Ardetti



Le donne si erano dimostrate più scaltre nel gioco delle carte. Agli uomini veniva meno la necessaria concentrazione per le notizie diffuse in quei giorni: l’intensificarsi della guerra con i tedeschi in ritirata.
Le donne affrontavano l’argomento con spirito differente.
Era stato un giorno con un tiepido sole ma a sera si gelava.
Quando la trattoria del quartiere si svuotava dei pochi avventori ai quali era stato servito quello che il mercato offriva, Rossana si concedeva un giro di carte con gli amici.
Attilio aveva notato che Francesco, il compagno di gioco, spesso si distraeva ma non aveva voluto colpevolizzarlo: non c’era posta in palio, diceva. Francesco rifletteva sul destino che spesso si diverte a prenderci per mano, a condurci in luoghi già visti in circostanze diverse. L'ispirazione di quel déjà vu era stata la giovane Anna – dipendente e compagna di gioco di Rossana – che le aveva ricordato, per la sua bellezza, un amore giovanile.
Quando era studente e di salute cagionevole, i genitori benestanti e con numerosa figliolanza, dopo ripetuti consulti medici, decisero di far fare al loro figliuolo un po' di mare perché in paese, quando si trattava di salute, si pensava a località marine e quelle del litorale, pur avendo convissuto con la palude, ora assicuravano aria e acque salubri. Il giovanotto partì ben bardato ma con qualche timore per l'ignoto dovuto alla giovane età. Era la prima volta che affrontava una scampagnata in solitaria anche se non si trattava di un viaggio lungo e difficoltoso. Le notizie di una eventuale guerra intimoriva e parenti avevano già imbracciato le armi in terre lontane. I genitori lo videro partire entrambi impensieriti pur avendolo raccomandato a famiglie amiche. Ma l’apprensione era difficile da contenere.

Durante il viaggio il giovane Francesco pensò di fare una sosta in quello che sembrava uno sperduto borgo dove i pochi abitanti, per la maggior parte, erano di origine veneta e romagnola. Era stanco e un leggero mal d'ossa gli indolenziva tutto il corpo per il viaggio fatto su una corriera malandata.
Calmò l’arsura con una bevanda fresca chiesta ad un chiosco a conduzione familiare, improvvisato davanti a un podere che vendeva i prodotti dei campi che si riusciva a coltivare. Una anziana donna si guardava intorno poi, rivolgendosi verso la casa, reclamò qualcosa a gran voce. Sull’uscio apparve una giovane. Francesco ne rimase incantato, ai suoi occhi apparve bellissima e seppe poi chiamarsi Adele. Gli sguardi si incrociarono per un timido saluto di benvenuto. Francesco non seppe dare un'età a quella ragazza dai capelli corvini con occhi neri e profondi. Meno di vent'anni, pensò. Decise allora di chiedere alloggio che gli fu concesso nell’unico posto disponibile, nella casona, una baracca costruita dietro la casa. Un battente assicurava luce e aria mentre in un angolo, tutto scurito dal fumo, un cestino di logoro vimine conteneva mozziconi di candela per l'uso casuale che ne era stato fatto; per letto un materasso deformato poggiato su di una pedana e alcune assi di legno poste orizzontalmente imitavano uno scaffale. Anche l'odore non era dei migliori in quella specie di magazzino disordinato. Il ragazzo si accontentò pensando alla ragazza che possedeva un fascino carnale, ancora acerbo. Speriamo di non fare troppa confidenza con le pulci pensò, mentre non riusciva a governare la ridda delle sensazioni.
Durante la frugale cena, aveva ricambiato continue e prolungate occhiate. Le cose più belle sono quelle che non si dicono, aveva pensato. I due giovani si piacquero e si desiderarono da subito. Tutto quello che sarebbe accaduto sembrava già essere scritto.
Quando fu notte fonda la ragazza aspettò il momento del primo sonno per sgattaiolare fuori. Bussò alla porta del capanno chiusa dall’interno con un rudimentale chiavistello anch’esso di legno.
Fu in quel capanno di campagna che Francesco l'amò baciando le labbra morbide e carnose. Ho sedici anni e sono vergine, gli aveva sussurrato quando capì che i loro corpi si sarebbero avvicinati per congiungersi. Egli la prese con tutto l'amore che l’inesperienza suggeriva; si unirono con tutto l'ardore giovanile che seppero offrirsi e si amarono con quel trasporto totale capace di annullare qualsiasi responsabilità.
Alle prime luci dell'alba Adele fece il percorso a ritroso. Ritrovò il suo letto con le coltri gonfiate ad arte. Se qualcuno si fosse svegliato all'improvviso avrebbe potuto pensare alla giovane di ritorno dal cesso situato all'esterno.
L’indomani Francesco invitò Adele a fare una gita al mare. I preparativi non richiesero tempo e impegno particolari. Si incamminarono per la strada bianca – quasi diafana per il residuo chiarore lunare – evitando di calciare il brecciame più grosso. Tutt’intorno giardini sparsi di fiori di campo. Lungo la strada diversi chioschi di angurie e meloni. La produzione era talmente alta che, una volta spaccati, se ne mangiava solo il cuore mentre il resto finiva nelle porcilaie o ad essiccare alla vampa del sole. Sembrava una zona tranquilla, una zona dove vivevano contadini e allevatori che campavano con il loro lavoro. Non una voce o rumore nell’aria ma si sentiva il leggero soffio del vento che andava a rinfrescare le chiome dei rari alberi e ad incunearsi nelle scoline che fiancheggiavano la carreggiata o dividevano le proprietà.
Arrivarono al mare. Adele non lo aveva mai visto. Che grande pozzanghera, fu la sua prima ingenua impressione mentre i bellissimi occhi si muovevano per ammirare il colore dell’acqua e la linea dell’orizzonte così lontana. Sentirono il bisogno di liberarsi del peso e fare un bagno ristoratore. Lasciarono il modesto bagaglio sulla rena; vi poggiarono sopra i vestiti e si diressero verso la riva dove si infrangevano onde basse e l’aria era mossa dalla brezza marina. Francesco si tuffò con sicurezza. Aveva imparato a nuotare da bambino nelle secche e nelle piccole anse dei fiumi. La ragazza, dopo aver esitato, si bagnò calandosi prudentemente nelle acque facendo attenzione perché il mare poteva tendere bruscamente verso l'abisso.
Giocarono a rincorrersi, poi, restarono a fissare il cielo tenendosi per mano. Infine, si guardarono negli occhi senza dire una parola, increduli.
Rinfrancati si rimisero in cammino. Decisero di ritornare in città facendo un altro percorso. Cercarono passaggi di fortuna sulle barozze che abitualmente trasportavano erba medica e fieno per l’inverno. Costeggiarono estesi vigneti e appezzamenti con altre colture.
Una volta giunti a destinazione pernottarono in una casa il cui indirizzo era segnato su un pezzo di carta piegato e ormai sgualcito, ospiti di una signora la cui figlia suonava il piano. La signora era una aristocratica imparentata con un funzionario fascista; la figlia dava l'impressione di essere succube di una madre incontentabile, che la voleva continuamente impegnata nello studio.
Arrivò il giorno che Francesco dovette fare ritorno al paese perciò rientrarono nel piccolo borgo dove ci furono molte promesse e altrettante lacrime. E poi l'addio.
Non si incontrarono mai più.

Pensieri e fragori lontani riportarono Francesco alla realtà. Con le carte a ventaglio nella mano riprendeva a decidere quale carta calare. Questa volta si trovava in quei luoghi per altri motivi, per altre ragioni – anche questa volta lo aveva deciso la vita – mentre nuvole nere si addensavano sulla terra e sul mare.
La città era stata ripulita dai simboli fascisti e molte vie mostravano i segni degli scontri.
Lo sbarco era iniziato. Lampi e tuoni di cannone riempivano l’aria del nord. Nei giorni addietro c’erano state scaramucce e i primi bombardamenti.
I quattro si alzarono e presero la via per i ricoveri, dirigendosi verso la circonvallazione della città.

martedì 8 dicembre 2009

LA BAMBOLA DI PEZZA di Daniela Rindi



Mi si è formato un bolo di saliva in gola, che ho difficoltà a buttar giù. Ognuno ha un cadavere sul cuore e quello che adesso mi sta tornando in mente percorrendo via Nazionale, è il mio. Mi piacerebbe fosse ancora al mio fianco, fermarci a guardare le vetrine, istigandomi a comprare! Sì, le piaceva quando acquistavo qualcosa per me. Sapeva che era una coccola e me la concedeva, lei. Ma questa è un'altra storia. Odio le scarpe scomode e i tragitti, vorrei essere teletrasportata da un punto all'altro. Non m’interessa quello che c'è nel mezzo. L'alluce del piede sinistro mi batte sulla punta della scarpa, provocandomi una fastidiosa scossa elettrica, chissà perché? La mia camminata sui tacchi è deambulante e sgraziata, potrei dare l'impressione di essere una tossica, per fortuna nessuno si sta interessando a me. Mi fermo in un bar per far riposare i miei piedi, ordino un caffè e un bicchier d'acqua. Prendo la zuccheriera, quella con il beccuccio: uno due, tre, quattro…il barista mi guarda, "sì, mi piace amaro", cinque! Devo fare pipì, la mia vescica non riesce a trattenere nessun tipo di liquido per non più di un quarto d'ora. E' fastidioso lo so, ma il vantaggio è di non avere le cosce deformate dalla cellulite, che non è poco. Scendo una scala stretta con le pareti rivestite di carta da parati, finto mattone. Il loculo in cui è incastrato il cesso è oscenamente sporco, fortunatamente c'è un enorme rotolone di carta igienica, che uso abbondantemente. Ringrazio e riprendo la mia marcia scomposta. E' già buio e stasera non ho tanta voglia di andare da lui, "amore ho fatto tardi, non riuscirò a prendere il treno delle ventuno e zero sette". Il tono della sua voce è freddo, irritato, come sempre. Mi sento in colpa, mi fa sempre sentire in colpa. E' un diritto che gli ho concesso quando l'ho conosciuto, quando mi sono affidata a lui, illudendomi, ipotecando la mia ritrovata felicità. Ma si è dissolta in un attimo, con la routine. Non ripeterei l'errore, ma è andata così. Le vetrine sono tappezzate di scritte che t’invitano all'acquisto scontato, mi piacerebbe quella gonna strana, che sembra una coperta. Ma non ho tempo, non posso perdere anche il treno delle ventuno e quarantotto. Un vagabondo si è ritagliato uno spazio per dormire sul marciapiede, fregandosene dei passanti, faccio fatica a non calpestarlo. A suo modo è una persona libera, più libera di tanti altri. Chissà come stanno le bambine? Lasciarle mi fa sempre sentire male, anche se secondo me hanno capito. Se potessero, farebbero lo stesso, sono convinta. A nessuno piace essere maltrattato e vivere nell'angosciosa repentinità dei cambi d'umore di qualcun altro, anche se di un padre, un marito, tra l'altro mai presente. Non si capisce perché gli uomini, in famiglia, si sentano in diritto di far soffrire, con atteggiamenti prepotenti e superbi. Un retaggio di "padre padrone". Un giorno le bambine potranno scegliere di andarsene anche loro, di andare e tornare a piacimento. Non le biasimerò. Sono arrivata, il tasso di alcolisti concentrato alla stazione Termini è altissimo, a quest'ora vengono fuori come funghi dopo la pioggia. All'interno non c'è molta gente, per lo più balordi e questo m'inquieta, anche se anch'io mi sento una balorda. Nonostante l'aspetto elegante e curato, so di essere marcia dentro. Non so perché faccio questa cosa, ma continuo a farla, ogni volta che mi è possibile. Forse perché una vita vale l'altra. Mi sento come una bambola di pezza. Guardo il tabellone delle partenze, Latina binario tredici. Mi guardo anche gli orari del ritorno, bene, non dovrei avere problemi domani. Ho fame e tiro fuori il cellulare: "Amore tu hai già cenato? Ah, si? …No non importa, non preoccuparti…prenderò qualcosa". Vado a comprarmi dei fetidi panini da Chef-express, mi serve una ragazza di colore dal sorriso rassicurante. E' una perla che mi viene regalata in questa situazione desolata. Mi avvio al binario e mi siedo sulla panca di marmo, dall'alto una perdita goccia, formando una pozza d'acqua per terra. Mi riscappa la pipì. Più avanti una coppia di ragazzi sporchi si rolla una canna. Mangio i miei panini voracemente, vergognandomi anche un po', una grassa filippina mi sta guardando dall'interno del treno. Mi fumo anche una sigaretta. Salgo, guardo l'orologio, sono un po' in anticipo e decido di leggere qualche pagina. In questi giorni mi sta accompagnando Wallace, che non mi semplifica la vita! Finalmente il treno parte, lasciando lentamente la stazione, come un grosso, pesante e stanco verme di ferro. Guardo fuori, adesso è veramente molto buio, domani tornerò in tempo per prendere le bambine a scuola...come sempre.

martedì 1 dicembre 2009

SCACCHI MATTI di Pasquale Bruno Di Marco



“Fermo fratello pedone! Cosa fai?”
“Come sarebbe? Ti mangio: pedone bianco in F5. Sei preso, amico”
“E perché?”
“Come perché? E’ la regola degli scacchi.”
“Ma perché vuoi mangiarmi? Tu stai solo eseguendo la volontà di altri. Sei una pedina nelle loro mani.”
“Veramente sono un pedone. Comunque si, sono nelle mani di chi ci muove, come te, come gli altri pezzi.”
“Apri gli occhi, fratello. Guarda. Uno dei due vecchietti che stavano giocando con noi è andato in bagno e sai bene che ci resterà un sacco di tempo e l’altro si è addormentato mentre stava per muoverti.”
“E allora?”
“E’ la nostra grande occasione. Presto, venite qui, fratelli pedoni. Tutti qui, bianchi e neri, e ascoltate. I nostri colori sono diversi ma dentro siamo uguali, siamo tutti pedoni. Siamo noi quelli che vengono sacrificati per primi e solo perché loro, i nobili, possano fare il loro comodo. Quante volte ci hanno fatto azzuffare mentre l’alfiere sventolava l’insegna e il cavallo nitriva saltellando sulle nostre povere teste e poi, quando ormai noi giacevamo fuori dalla scacchiera, quelli, d’accordo, fermavano la partita dichiarando la vittoria dell’uno o dell’altro senza neanche sporcarsi. Oppure, beffa ancora più amara per le nostre sofferenze, dichiaravano la partita patta. Ribelliamoci fratelli pedoni. Basta essere succubi di un potere che non si cura affatto di noi. Tocca a noi decidere del nostro destino. Noi saremo il potere.”


“Cara, ma che succede al centro della scacchiera?”
“Sembra che i pedoni bianchi e neri si siano messi a fare comunella e stiano acclamando uno di loro, un pedone nero, caro”
“Acclamano un pedone? Che cosa bizzarra! Ma che si sono messi in testa?”
“Tranquillo caro, ci penso io. Tu arroccati pure dietro la torre e non fare assolutamente nulla, come al solito del resto, che in questo sei bravissimo. Cavalli e alfieri, rimettete al loro posto quella marmaglia!”
“Agli ordini, regina!”
“Fratelli pedoni, battiamoci per la nostra libertà. Non abbiamo nulla da perdere tranne le nostre scacchiere.”
“All’assalto. Cavallo in C6.”
“Due pedoni si spostino a destra! Addosso”
“Alfiere in E7, carica!”
“Pedoni bianchi, rintuzzate l’attacco!”


“Alla fine siamo rimasti solo noi, regina.”
“Si, pedone. Siamo rimasti solo noi. E’ stata uno scontro duro. Ma non è ancora finito. Io mi batterò fino all’ultimo.”
“Ma io non voglio battermi con te regina. Io ti amo.”
“Come? Tu sei pazzo, pedone.”
“E se anche fosse? Sei bella, regina. Ogni volta che ti muovevi sulla scacchiera io rimanevo estasiato dalla tua eleganza e dalla tua leggiadria. E mi sono innamorato di te..”
“Ma allora, vorresti forse farmi credere che?”
“Si. Tutto questo l’ho fatto solo per te, regina.”
“Sei davvero un pazzo!.”
“Si, adesso sarai mia.”
“Tu osi avvicinarti a me?”
“Ti desidero, ti bramo, regina”
“Pedone, sei pazzo. Un incosciente, assurdo, affascinante pazzo. Ti farò tagliare la testa. Ma prima vieni qui e ripassiamo il kamasutra delle sessantaquattro caselle.”


“Nicola, ma ti sei addormentato?”
“E si, scusa. Devo pure aver urtato la scacchiera. Tutti i pezzi sono caduti, aiutami a trovarli.”
“Ma che strano…”
“Che cosa è strano?”
“Ogni volta che mi addormento i pezzi cascano dalla scacchiera e quando mi metto a cercarli alla fine mi manca sempre lei, la regina nera. E ogni volta, puntualmente, la ritrovo in un angolo buio o sotto un mobile, insieme alla torre o al cavallo, una volta addirittura insieme a tutti e due gli alfieri. Ma questa, ti giuro, è la prima volta che la ritrovo affianco ad un pedone!”