venerdì 30 ottobre 2009

LA DONNA CANNONE di Daniela Rindi


Venghino signori venghino nel magico mondo del luna park! Divertimento, giochi curiosità vi aspettano!
Sollazzi frizzi sfizi di ogni genere per grandi e piccini!
Mostri talenti e scherzi della natura saranno a vostra disposizione! Venite tutti nel paese dei balocchi, venite a divertirvi con noi, maestri senza eguali nell’abile arte della finzione!
Questa sera un’attrazione speciale … solo per voi e giunta da un paese lontano, forse neanche di questo mondo, da un’altra galassia… l’eccezionale… impressionante… magnifica… immensa… mostruosa… Donna Cannone!

Mi chiamo Natasha, Nasti per gli amici.
Sono una donna grassa, grassissima, ma con un bel viso, almeno così dicono tutti aggiungendo poi: «Peccato però…» Sottintendendo il mio fisico, è chiaro.
Ma è come se mi dicessero: «Saresti normale se… non ti mancasse una gamba! »
Loro non capiscono.

Sì, perché essere molto grassi è come essere dei disabili, portatori di handicap, dei diversi.
La gente non ti guarda negli occhi, ma osserva curiosa e schifata il tuo enorme culo, le tue braccia dilatate, la circonferenza esagerata dei tuoi fianchi.
Mai ti guarda negli occhi, anche se ce l’hai molto belli.
Sono il riflesso dell’anima, diceva sempre mia madre.
Non guardandomi negli occhi.

Sì anch’io ho un’anima, però nascosta sotto una tonnellata di lardo. Ho iniziato ad ingrassare a vent’anni, per un’inspiegabile malattia del sangue.
Dopo circa ventitre anni hanno scoperto la causa: un’eccessiva produzione d’insulina.
Questa si ricrea continuamente perché non riconosce gli zuccheri. Almeno così ho capito, ma adesso non me ne frega più niente.
Dovevano scoprirlo allora.

La mia Via Crucis me la sono già fatta, non è stato facile accettare a vent’anni un cambiamento di peso e di corpo così repentino. Prendevo venti chili l’anno.
Nel giro di tre anni sono diventata un’obesa arrivando a pesare centoventi chili.
Da lì ho continuato solo ad aumentare.
Fu drammatico per me.

Non sono più uscita di casa per ben cinque anni.
Come facevo? Non potevo sedermi a nessun bar, perché non entravo nelle sedie, non potevo andare al cinema per lo stesso motivo.
Anche trovare dei vestiti adatti era difficile.
Dovevo servirmi in negozi specializzati per taglie extra large, che non avevano certo capi alla moda, ma solo vecchi camicioni demodé che mi facevano sembrare una vecchia.
Che imbarazzo.

I dottori mi dicevano di fare del moto, della corsa, ma come potevo, mi veniva subito l’affanno e poi mi vergognavo, mi guardavano tutti come se fossi un mostro.
Anche i miei amici, ex compagni di scuola avevano lo stesso sguardo, solo che loro cercavano di mascherarlo un po’.
E’ terribile avere la consapevolezza di essere stata una bella ragazza e improvvisamente risvegliarsi in un’orchessa senza forme, un fenomeno da baraccone.
Il mio ragazzo mi lasciò quasi subito.
Appena aumentata dei primi dieci chili mi disse:
«Non capisco cosa ti stia succedendo? Ma mangi di nascosto? Così mica mi piaci…»
E si fidanzò con la mia migliore amica.

Non so come sono riuscita a non impazzire.
Non credo che siano stati i diciotto anni di autoanalisi. Quelli mi hanno solo aiutato ad accettare il mio stato razionalmente, ma davanti allo specchio ancora mi metto a piangere.
C’ho messo una vita per infondermi un po’ di coraggio.
Mi sono pure sottoposta ad un intervento all’intestino, mi hanno inserito un bypass.
Non credevo ai medici che dicevano fosse un ingrassamento spontaneo, non alimentare. Potevo credergli invece.
Mi sarei risparmiata l’intervento.

Dopo molti rifiuti a causa del mio aspetto sgradevole, per fortuna ho trovato un lavoro.
Mi hanno assunto come cuoca in una mensa aziendale.
Chiusa lì dentro tutto il giorno non davo fastidio a nessuno. «Si vede che ti piace mangiare, eh?» mi dicevano e con questa battuta priva di spirito si giustificavano tutti la mia grassezza.
Quel lavoro mi distraeva un po’, mi faceva uscire di casa, ma non nutriva il mio spirito paradossalmente anoressico.
Quello continuava a dimagrire, a seccarsi come una foglia caduta. Avevo bisogno di un po’ di linfa, altrimenti mi sarei persa per sempre.
Mi licenziai.

Mia madre non me lo perdona ancora oggi:
«Sei una pazza! – diceva – Come fai a credere di trovare un altro lavoro come questo?»
Non aveva tutti i torti, ma io non volevo lavorare, volevo studiare quello sì che mi piaceva.
E così feci. Mi buttai sui libri voracemente.
Cominciai ad interessarmi di esoterismo, di yoga, medicina ayurvedica, shiatsu, bioenergetica, bionutrizione, Reiki, tutte quelle cazzate lì e iniziai a frequentare un corso dopo l’altro, prendendo specializzazioni, lauree di ogni tipo. Mia madre sempre dietro:
«Ma vuoi andare a lavorare? Io mica posso mantenerti a vita? Ci fosse almeno ancora tuo padre! »
Scoprii ben presto che aveva ragione.

Avevo capito che oltre al fisico esiste l’anima, ma non quella che mi avevano insegnato a catechismo.
Una sfera interiore che si poteva sviluppare, potenziare, tanto da rivelarmi un potere speciale nelle mani.
La capacità di trasmettere un calore che dà sollievo. Non sapevo se fosse anche salutare, ma ci provai lo stesso.
Fu un disastro.
Le clienti dubitavano di una donna tanto grassa, di una che non riusciva a guarire neanche se stessa e persi in breve ogni affidabilità, nonostante le lauree, gli attestati, le specializzazioni.
Loro continuavano a vedere una cosa sola.
Il mio grosso culo.

Un giorno andai al luna park e vidi Robert che stava annunciando l’inizio dello spettacolo, la presenza eccezionale dell’uomo scimmia. Comprai il biglietto ed entrai dietro il tendone.
Quando lui uscii dalla quinta ebbi come una scossa e tutti i pop corn mi caddero per terra. Non potevo credere all’esistenza di un altro mostro.
Peggiore di me.

Una mano mi picchiò sulla spalla, era Robert, mi disse subito che ero bellissima, che non aveva mai visto tanta sana opulenza, che avevo un bel viso, che avrebbe voluto lavorassi per lui.
La paga non sarebbe stata un granché, ma avrei potuto condividere la sua roulotte. Tutto questo mi disse in un attimo.
Guardandomi negli occhi.

Alla sera sono stanca, senza energia, ma almeno sono felice. Al termine della giornata, quando si spengono le luci, si smontano le giostre e si rientra nelle proprie roulotte per ripartire, mi fermo un attimo ad osservare il cielo, i pianeti e mi ritrovo in mezzo a tante stelle.
Io sono sempre in un cielo diverso.
Ma questo mi basta.

Venghino siori e siore venghino… nel magnifico paese dei balocchi!

(pubblicato in data 20 ottobre 2009)

martedì 27 ottobre 2009

RAGNATELE di Aldo Ardetti


Sabrina andò sotto la doccia dopo aver caricato la macchinetta del caffè. Una rinfrescata veloce per allontanare la stanchezza poi, nel calduccio dell’accappatoio, degustò il contenuto della tazzina e ripensò alla situazione sentimentale nella quale si era cacciata: le piaceva Carlo ma il ritorno in città di Donato – il primo amore che non si scorda mai – non le era scivolato di dosso e le procurava ancora fremiti e tanta curiosità.
Era passato del tempo e si chiedeva cosa avrebbe provato a rivederlo e quanto fossero cambiati.
Nel pasticcio mentale decise di ascoltare i buoni consigli di Federica – così erano sempre stati.

«Vivo un momento particolare. Sotto certi aspetti anche eccitante per i sogni, i desideri e le scelte non fatte. C’è tanta insicurezza, ancora… barcollo.»
«Situazione delicata. E quando mai?»
Sabrina avvertì il peso del tono ironico, di sfottò.
«Che stronza. Non sto cercando un ma-ri-to ma un rapporto convincente e stabile. Mi sono stancata degli uomini di passaggio. Avverto qualcosa di strano.
Sento che mi si sta aprendo un nuovo mondo.
Capita di pormi delle domande e di ottenere risposte immediate che mi convincono.»
«Vieni a prenderti un caffè da me così potrai raccontarmi le tue… pene e cosa ti sta succedendo.»

Sabrina parcheggiò lo scooter sotto casa dell’amica, considerata una sorella maggiore.
«Una visita improvvisa nasconde un problema urgente»,
l’accolse la voce ospitale di Federica.
«Il cuore è impazzito e con lui il cervello»,
rispose Sabrina con un sospiro che sapeva di rassegnazione.
«Mi preoccuperei più per il cervello che per il cuore. Ehm, i nostri problemi, siamo alle solite…»
fece Federica che, nella domanda, aggiungeva segnali di risposta.
«E già, la situazione si è incasinata. Hai saputo di Donato? E adesso c’è Carlo. Sono due persone diverse: il primo mi attrae per la sua bellezza, la sua spontaneità. Una simpatica canaglia. L’altro è un bravo ragazzo che mi fa sentire a mio agio, mi dà sicurezza. Circolano alcune voci sul suo conto ma di lui voglio potermi fidare.»
«Divertiti, vivi una vita spensierata. Non ti creare troppi problemi. Anch’io ho avuto i miei grattacapi. Ti ricordi quante rogne ho avuto solo l’anno scorso? Per il momento, la mia vita voglio viverla giorno per giorno – replicò Federica, e aggiunse – abbiamo ancora tempo per prenderla seriamente» e agitò la mano in aria.
«Questo è il ragionamento di chi pensa di essere eterno.»
«Ci vediamo alla festa di Gaia?»
Sabrina rispose annuendo con il capo.

In un’altra parte della città Massimo sostava su una panchina del parco e anch’egli, nonostante le sue sicurezze economiche e materiali - rifletteva sulla sua vita e, per quanto gli era possibile, sulla psicologia femminile da quando il livello del suo morale si era abbassato in seguito alla rottura con Sandra.
Non aveva mai avuto problemi con le donne ma con Sandra era stata una storia diversa e gli rodeva – ma non lo avrebbe mai confessato – perché, per la prima volta nella sua vita, era stato scaricato.
Avrebbe superato quel difficile momento nello svago e con altre conoscenze, iniziando con la festa che ci sarebbe stata quella sera stessa in casa di Gaia.

Gli invitati arrivavano ad uno ad uno.
Donato, lo schiantatope – per questo era molto invidiato –, si guardava in giro e quando sentì la musica prese per mano Gaia per aprire le danze.
La donna, ex diggei, che amava riempire la casa di oggetti vintage, passò poi alla console casalinga: “Vecchi amori, nuovi amori” augurò a tutti mentre guardava Carlo con espressione indagatoria. Aveva saputo del ritorno di Donato e voleva osservare il comportamento dell’uomo?
«Cosa ha da guardare quella?»,
esclamò Sabrina quasi infastidita. Carlo rispose con gli occhi.
Donato si avvicinò per invitarla a ballare e la strinse a sé confermando di non aver perso la faccia tosta.
Carlo si irrigidì e si sarebbe mostrato avaro di baci e coccole per tutta la serata. La gelosia sarebbe stata la sua penitenza.
Federica e Gaia, che conoscevano tanta gente, avevano invitato proprio tutti.
Con Massimo, Sabrina ebbe un breve approccio confessionale; lo conosceva di vista e ne aveva sentito parlare non sempre bene.
Gli uomini erano tutti mascalzoni?
Massimo le piaceva, non era male, ma era dubbiosa sul personaggio. Il loro incontro si limitò ad alcune battute amichevoli con la promessa di non perdersi di vista.
La festa si stava infiammando.
Sandra e Massimo finirono di nuovo l’una nelle braccia dell’altro. Ora Sandra aveva la testa sulla spalla di lui.
Gaia era tra le braccia di Donato mentre Carlo si intratteneva con Federica.
«Bell’amica!»
sussurrò Sabrina pensando a tutte quelle volte che avevano parlato di finte amicizie impegnate nella cattiva rivalità per la supremazia.
In quel momento capiva di essere egoista ma era lei ad aver bisogno d’aiuto.

Il giorno era sembrato sorgere speranzoso; l’occasione non sarebbe mancata, ripeteva, e infatti era partita con slancio ma non ci mise molto a capire quanto era stata superficiale, precipitosa per l’ottimismo che non le aveva fatto capire, suggerito che nella vita non si può solo scegliere ma è importante essere scelte.
La serata festosa non sembrava regalarle la conclusione desiderata. In quel grande salone, le cui finestre erano state lasciate aperte per il fumo, si sentiva sola e si domandò se quello che le stava accadendo era voluto.
«Come possono le persone fare del male al loro prossimo, gioire delle sofferenze altrui, avere invidia per il successo degli altri, invece di provare pietà, compassione, avere senso di giustizia e, nel suo caso, simpatia e comprensione?» elaborò mentalmente.
Nella mano stringeva ancora un bicchiere ormai vuoto mentre lo sguardo cercava di cogliere le espressioni di quella gente che sembrava divertirsi.
Le venne in mente quello che dice Mia Wallace a Vincent Vega in Pulp Fiction di Quentin Tarantino sui silenzi che mettono a disagio... «Perché sentiamo la necessità di chiacchierare di puttanate, per sentirci a nostro agio? E’ solo allora che sai di aver trovato qualcuno di davvero speciale, quando puoi chiudere quella cazzo di bocca per un momento e condividere il silenzio in santa pace.»
Nell’ampio soggiorno il fumo diventò nebbia.
Per motivi diversi ma più degli altri, Massimo, alias Canna fumaria e Carlo, alias Cannone di Navarone, si davano da fare per aumentare nell’aria l’odore di canne e di resina.
Ogni tanto – con turni che sembravano essere stati predefiniti – qualcuno spariva per ripresentarsi euforico non certo per aver dato sollievo alla vescica.
Nei bagni e nelle camere da letto altri avevano sniffato – traditi da alcune tracce – e approfittato per una sveltina.
La situazione – già ingarbugliata – si era ulteriormente aggravata, anzi – sentimentalmente – si era azzerata.
Era arrivato il momento di crescere, di ritrovare se stessa, pensò. Questa volta senza l’aiuto di nessuno ma con la forza del proprio coraggio.
L’aiuto degli altri non era stato efficace.
Fuori, il luccichio sulle foglie e sull’asfalto, era come se le indicasse un’altra festa.
Sabrina decise di rientrare anzitempo.
Eppure era una bella ragazza: alta, elegante, sempre ben curata e occhi che ricordavano il colore del mare.
Spesso la rincorrevano le frasi di ammirazione costruite con parole prettamente maschili.
«…’fanculo tutti» fu, infine, il saluto di commiato e uscì risoluta, nonostante la pioggia battente, a cercare altre storie in una nuova vita semplice e vera, dove la gente riusciva ancora a emozionarsi, dove poter riemergere per prendere una boccata di aria fresca.



(pubblicato in data 27 ottobre 2009)

martedì 13 ottobre 2009

LA BELLA CETRIOLINA (parte 2 di 2) Favola di Francesca Pichirallo e Pasquale Bruno Di Marco

Bortolo non trovò di meglio che rivolgersi di nuovo alla zia Camillamolla, che era quella che da sempre in famiglia dispensava consigli su tutto a tutti. La zia lo tranquillizzò consigliandolo di aprire un negozio di parrucchiere:
«Caro il mio Bartolino, qui nel bosco non c’è nessuno che sappia curare i capelli di una signora. Apri un bel negozio, diventa un bravo parrucchiere e fatti una bella clientela. Vedrai che, prima o poi, anche Cetriolina verrà a farsi lavare i capelli da te e allora…»
Il sorriso che illuminò il volto di Bortolo rimase ancora per un istante nell’aria mentre lui si precipitò ad organizzare il tutto. Visto che il bosco non si trovava in Italia ma nel paese delle fiabe, il negozio di parrucchiere venne aperto la settimana dopo. Bortolo aveva un sacco di difetti, ma si rivelò un bravissimo parrucchiere e in poco tempo si fece una clientela numerosa e dovette prendere anche delle aiutanti. Un giorno finalmente si presentò la bella Cetriolina e Bortolo capì che era giunta la sua grande occasione. Ormai si faceva chiamare Lollo e parlava con un falsissimo accento francese che però alterava la sua voce. Era sicuro che Cetriolina non avrebbe riconosciuto nell’elegante parrucchiere il giovane che trovava tanto antipatico. Fece accomodare la cliente nella migliore poltrona e cominciò a servirla personalmente. Le accarezzò i capelli facendole i complimenti per la morbidezza ed il colore. Erano già belli ma con uno shampoo fatto con il suo prodotto speciale sarebbero diventati irresistibili. Cetriolina, che aveva deciso di affrontare una volta per tutte il suo bel pompiere, voleva essere al massimo del suo splendore e fu ben lieta di farsi convincere. Bartolo, anzi Lollo intanto organizzava tutto. Fece uscire le aiutanti a cui ordinò di portare fuori le clienti con la scusa di provare un effetto di acconciatura con immersione nell’ambiente naturale. Era ormai famoso per i suoi esperimenti e le clienti accettarono con entusiasmo. In realtà voleva rimanere solo con Cetriolina così quando le avrebbe messo al pozione miracolosa sulla testa l’unica persona che avrebbe potuto vedere per prima sarebbe stata la sola presente nel salone, cioè lui. Che genio che era. Fremeva tutto contento, e dopo aver inumidito i capelli della ragazza che, con gli occhi chiusi, si abbandonava alle sue cure, prese la pozione e cominciò a versarsela in una mano. Quanto ne sarebbe occorsa? Voleva essere sicuro. Il Mago aveva detto poche gocce, ma basteranno? Ancora un po’, ancora.
«Voglio essere sicuro, ancora.»
Alla fine mise più di metà boccetta sulla testa della ragazza e cominciò a fregare i capelli massaggiando contemporaneamente il cuoio capelluto. Anche lui chiuse gli occhi per assaporare quei momenti, gustandoli attimo per attimo, e già si vedeva abbracciato a lei mentre si guardano occhi negli occhi, le labbra che si avvicinano, sempre di più, piano, piano fino a che si toccano e lui finalmente avrebbe potuto sentire sulle labbra il sapore di schiuma… schiuma? Come schiuma? Bartolo spalancò gli occhi e si accorse che tutto il suo locale era invaso dalla schiuma e che ormai stava arrivando fin sopra ai suoi capelli. Anche Cetriolina gridò di spavento vedendosi sommersa da quella montagna di soffice bianchezza.
«Aiuto! Aiuto!»
Fuori le aiutanti e le clienti si accorsero di quello che stava succedendo. Fortuna che i pompieri stavano lì vicino e arrivarono in un attimo. Ignazio davanti a tutti, qualcuno gli ha detto che Cetriolina era in pericolo. Sfondò la porta e, senza indugio, si tuffò nella schiuma. Lasciandosi guidare dalla voce della ragazza, la raggiunse e la portò fuori in braccio in mezzo al prato.
«Via lasciateli soli che lei ha bisogno di aria.»
Aria, giusto. Ignazio, pompiere provetto, aveva seguito anche il corso di pronto soccorso con tanto di esame superato con il massimo dei voti. Respirazione bocca a bocca, allora. Cetriolina aprì gli occhi in quel momento e la prima persona che vide fu proprio Ignazio mentre si chinava per farle una respirazione da manuale. Che magnifica opportunità. Lei la trasformò in un bacio appassionato. Ignazio, per un attimo sorpreso, ricambiò con ardore.
Applausi liberatori di tutti che non vedevano l’ora che questi due si decidessero. Bartolo-Lollo intanto era uscito dal suo locale, pieno di schiuma e con le lacrime agli occhi. Zia Camillamolla lo prese sotto braccio e lo consolò:
«Su, nipotino. Che hai da fare quella faccia? E’ andato tutto bene no?»
«Ma zia! Come sarebbe tutto bene? Cetriolina sta lì, nelle braccia di Ignazio e io rimango senza niente»
«Senza niente? Non direi proprio. Per correre dietro a quella ragazzina hai messo in piedi un bel negozio di parrucchiere piuttosto ben avviato ormai e tu sei un artista dell’acconciatura molto ricercato. Niente male per uno che prima era uno sfaccendato che credeva di essere il principe degli gnomi ubriachi. E poi…»
«E poi?» chiese Bartolo che aveva ripreso a sorridere.
«Hai sempre da parte la tua pozione. Aspetta che arrivi una bella ragazza nel tuo negozio e stavolta… attento al dosaggio!»

fine


(pubblicato in data 13 ottobre 2009)

lunedì 5 ottobre 2009

LA BELLA CETRIOLINA (parte 1 di 2) Favola di Francesca Pichirallo e Pasquale Bruno Di Marco


La bella Cetriolina, dolce e paffuta, amava andare a pescare allo stagno delle Rane Paciose. Appena aveva un po’ di tempo libero, canna da pesca, cappello di paglia, cestino della merenda, e via di corsa sulla riva. In realtà lei non pescava affatto, si limitava a buttare in acqua la lenza a cui, invece dell’amo e dell’esca, attaccava un cartellino con su scritto “CIAO!”, che ai pesci Cetriolina voleva bene. Si stendeva sull’erba, mangiando lentamente mentre leggeva romanzi d’amore o guardava passare le nuvole. Se qualcuno veniva a salutarla con l’intenzione di mettersi a chiacchierare, lei gli faceva:
«Shhht! – mettendo il dito davanti la bocca e poi aggiungendo sottovoce – Zitto! Mi spaventi i pesci.»
E quello era costretto a rinunciare. Il sistema funzionava e Cetriolina si godeva il suo relax. Almeno sino a quando Bortolo, il principe degli gnomi beoni o almeno lui si definiva così, si invaghì di lei e cominciò a corteggiarla. Quello non lo sopportava proprio, non riusciva a stare zitto. E poi lei era innamorata di Ignazio il pompiere, di cui amava gli occhi grandi e buoni, i modi educati, e soprattutto la sua timidezza, infatti Ignazio non parlava mai o quasi. Lui sì, che sarebbe stato perfetto, chissà che belle giornate in riva allo stagno avrebbero potuto passare insieme, lei, lui e i pesci. Solo che la sua timidezza gli impediva di manifestare il suo amore. Lei era sicura che lui l’amasse ma non osava prendere l’iniziativa per paura di spaventarlo.
Bortolo, sfrontato e sfaccendato, era invece uno che non si tirava indietro ed era anche molto insistente, tanto che Cetriolina, per non vederlo, fu costretta a sospendere le sue gite allo stagno. Bortolo però non intendeva rinunciare, perché diceva in giro da sempre che nessuna aveva saputo dirgli di no e continuò a cercarla per parlare con lei. Nulla da fare, la ragazza era tanto ostinata a rifiutarsi anche solo di scambiare un saluto che il povero Bortolo diventò triste. E non è una bella cosa da vedere, un presunto principe degli gnomi ubriachi in piena crisi depressiva. Dietro consiglio della zia Camillamolla, andò a consultare un mago che, a sentire la zia, sicuramente avrebbe potuto aiutarlo. Si presentò così nello studio del grande Zuppaduva, famoso mago e incantatore, creatore di filtri magici e stornelli da serenata. Il ragazzotto spiegò il suo problema: questa bella ragazza non lo filava per nulla, forse a causa della sua bassa statura, forse del viso non proprio perfetto, forse per il fisico non proprio atletico, e qui fece una pausa sperando che il mago lo interrompesse ma quello sembrava seguisse la sua esposizione annuendo e basta. Poi il grande Zuppaduva iniziò una filippica interminabile, almeno così sembrò a Bortolo sull’amore tra due ragazzi giovani e belli, tra una ragazza giovane e bella e un ragazzo neanche troppo giovane che al massimo, con un eufemismo spericolato, si può definire un tipo, tra una ragazza giovane, bella e simpatica e un ragazzo che è meglio pestare una caccola di muflone che incontrarlo, tra una ragazza giovane, bella, simpatica, ed educata e un giovane che pensa che infilarsi un dito nel naso sia un modo divertente per dimostrare la propria disinvoltura, insomma non la finiva più. Si era infatti addormentato quando Zuppaduva lo svegliò scuotendogli il braccio per riprendere dal punto dove era arrivato, poi però il mago rifletté meglio e rinunciò perché si era ricordato del frastuono che faceva quel tipo russando. Passò quindi alle due possibili soluzioni: la prima intervenire sull’aspetto estetico e sulla personalità del soggetto interessato attraverso lunghe sedute in palestra e lezioni di stile ed eleganza, la seconda preparare una pozione che scateni l’amore tra i due soggetti. Bortolo ci rifletté a lungo, più o meno un nano secondo e decise che la seconda era senz’altro la migliore. Il mago borbottò tra sè facendo il preventivo che poi presentò al cliente il quale deglutì, sbarrò gli occhi ma rimase deciso: si realizzi la magica pozione. Il mago studiò il caso, analizzò, verifico gli ingredienti e alla fine uscì dal laboratorio con una boccetta e le istruzioni d’uso: la potentissima pozione doveva essere messa sulla testa del soggetto, il quale, non appena avrebbe sentito gli effetti, si sarebbe innamorato della prima persona che avrebbe visto.
«Sulla testa? – fece Bortolo – Ma in nessuna fiaba si è mai sentito!»
«E in questa si!» chiuse il mago mettendola alla porta.
(continua)


(pubblicato in data 5 ottobre 2009)