sabato 27 novembre 2010

LE 285 CERIMONIE DI MEJ di Angelo Tozzi

L’astronave atterrò silenziosamente sulla piazza, gremita di gente vociante e festante. Tutti avevano nella mano sinistra un cavolo per la cerimonia di Kestwaq. Al Presidente non piaceva quella cerimonia. A dire il vero odiava tutte le cerimonie ma doveva presenziare, volente o nolente.
Il problema nasceva dal loro numero. Sul suo pianeta erano tante, troppe. 285. A volte, poteva accadere che in un giorno se ne festeggiassero addirittura 12. Ecco il perché dell’odio, verso le cerimonie, da parte del Presidente del pianeta Mej.
Lui sapeva che sarebbe stata una giornata mortalmente noiosa e faticosissima. Sapeva che sarebbe andato a letto a notte fonda e questo non gli andava proprio giù. Lui, che gradiva addormentarsi alle diciannove di ogni sera. Ma a quelle stramaledette cerimonie doveva proprio partecipare.
Era la Tradizione. Il popolo di Mej la chiamava così, Tradizione. Ma il Presidente era a conoscenza della verità. Una orrenda e crudele verità. Non c’era altro modo di definirla questa Tradizione. Saltare una, soltanto una, cerimonia comportava la sua morte per asfissia. Il chip impiantato all’interno del suo cranio, gli avrebbe fatto avvizzire i polmoni in meno di venti secondi. Più di qualche volta il Presidente presenziò con la febbre a 40° o, addirittura, con un attacco di panico da infarto.
Lui era l’uomo più importante del pianeta Mej. Ma non a vita, fortunatamente. Ancora due cerimonie e sarebbe andato in pensione. Una quel giorno, l’altra dopo 72 ore. E la sera stessa di quell’ultima cerimonia gli avrebbero espiantato il chip dal cervello.

“Evviva il presidente! Evviva! Evviva!”
Lui scese dall’astronave con l’uniforme rossa da cerimonia. Per tradizione in inverno indossava quella estiva, rossa, e in estate quella invernale, viola. Nell’altra stagione, il primautunno, indossava nulla. Assolutamente niente.
“Bastardi! Vi amo tutti!” Questa era la frase rituale che apriva ogni cerimonia.
“Evviva il nostro caro Presidente!” E questa era la risposta del popolo.
Con un gesto della mano, lui fece segno di tacere.
Tra due ali di folla si inginocchiò. Una bambina, sorridendo, gli diede un cavolo.
“Presidente. Ma perché ti inginocchi se tu sei meglio di noi? Noi ci dobbiamo inginocchiare. Non tu.”
Così disse la bambina.
“E’ la Tradizione, piccola” rispose paternamente il Presidente.
Nel silenzio totale, lentamente, la bambina piegò le ginocchia e si mise a fianco del Presidente. Nella stessa identica posizione.
La folla cominciò ad applaudire.
Come se il Maestro della Tradizione avesse dato un segnale, tutti si inginocchiarono.
Ora la cerimonia era impossibile da portare a termine.
I soldati della scorta del Presidente cominciarono a gridare.
“Alzatevi! Alzatevi, svelti! Non potete stare in ginocchio davanti al Presidente!”
Nessuno aveva intenzione di cambiare idea. Cominciarono a lanciare i cavoli contro i soldati.
Il Presidente si alzò da terra e battè tre volte le mani.
La folla, sempre in ginocchio, smise di fischiare e urlare contro i soldati.
“Bastardi! E’ la Tradizione! Questa è la Tradizione!”
Nessuno si alzò in piedi.
Il capo della scorta, una donna molto vecchia, si avvicinò al Presidente.
“Credo che la situazione stia sfuggendo dal nostro controllo. Cominciamo a sparare? Presidente, mi dica cosa devo fare.”
La bambina aveva ascoltato tutto.
“Sparare? Volete sparare? Ma siete matti?” gridò, rivolta al Presidente.
“Piccola, la Tradizione è una cosa seria. Non si possono sovvertire le regole, che sono state scritte e di conseguenza vanno rispettate.”
“Fai schifo!” rispose la bambina, con uno sguardo pieno di odio.
Un soldato le sparò in fronte.
Dalla folla si alzò un grido.
“Uccidete anche me! Uccidete anche meeeee!”
I soldati aprirono il fuoco. Il Presidente, con un sorriso maligno, cominciò ad applaudire freneticamente.
I soldati continuarono a sparare, fino a che l’ultimo della folla, un bambino di cinque anni, non restò ucciso.
“Bastardi! La Tradizione! La Tradizione! Un popolo, non è un popolo sano se vuole gli stessi diritti e doveri del proprio Presidente! Vi amo tutti!”
Questo, gridò a una piazza coperta da sangue e corpi immobili.
Ricominciò ad applaudire con foga mentre saliva la scaletta dell’astronave. Entrò, si tolse le scarpe e si accomodò sulla poltrona di cuoio. Un soldato gli mise tra le mani un cavolo. Era sporco di sangue.
“Presidente. Al decollo deve sputargli sopra, altrimenti la cerimonia non sarà conclusa.”
Il Presidente, con gli occhi sbarrati, guardò il soldato. La cerimonia. La cerimonia non era neanche iniziata. Non poteva essere vero. La frase di apertura l’aveva detta. Ma non aveva fatto in tempo a mangiare il cavolo cerimoniale!
L’astronave iniziò a decollare in verticale. Il presidente, in preda al terrore, cominciò a sudare. Spalancò la bocca in modo spaventoso e diede un morso al cavolo insanguinato. Un istante dopo iniziò a morire lentamente, con le mani che cercavano di slacciare il colletto della divisa rossa. Con gli occhi fuori dalle orbite, diede un altro morso. Ma non servì a nulla, perché il Presidente morì un istante dopo.
L’astronave continuò silenziosamente il suo viaggio, verso il Palazzo Presidenziale.

sabato 20 novembre 2010

TANGO!


INSIEME di BobSaintClair

MariaSara aveva una sola passione, Ramon.
Ma no! Piuttosto sarebbe corretto dire che Ramon aveva una sola passione, MariaSara.
E neppur così sembrerebbe poi di dir la verità, ohibò!
Dunque, per meglio cavarsi d'impiccio e in tutta leggerezza, daremo lustro a quell'esimio detto di quell'esimio dotto di quell'esimia città, il qual disse: "Non esiste una sola verità in amore" ed evitando di arrecar torti, preciseremo: MariaSara e Ramon amavano il tango.
Dall'eco lontana delle cronache, che al tempo assidue rimbalzavano copiose su e giù per la pittoresca ciudad argentina, rimane oggi solamente velata leggenda dei nostri appassionatissimi tangueros, pur tuttavia assurgendo, con gli onori e i meriti del caso, a simbolo e vanto di una musica, epica e magica, che resterà per sempre sicuro elisir e incanto per ogni coppia si cimenti nel ballo o per chiunque, semplicemente, si abbandoni all'ascolto. Nei fatti...

Fu il più bruciante, prodigioso e irreale, incontro che la storia tanguera di Buenos Aires ricordi: i corpi s'attrassero fin dal primo, seducente e fiero sguardo; magia sensuale si insinuò nelle vene; alcol e fumo a imbiondire l'avanzare reciproco; ritti nel busto, sinuosi e cadenzati nelle movenze, si unirono con impeto calibrato: eccoli vis-à-vis, per poi perdersi e riprendersi, dominati da un'ossessione sottile che li consumava.
Al suono intenso della musica, la gente della tangueria si scansò rapida nel vederli avvinghiati, presagendo attraverso essi l'imminente, palpitante, energia: le mani, fusione sofferta e leggera; gli addomi, emozione lancinante in bilico tra eros e violenza; madidi di pathos, eleganza ed intesa, esprimevano un crescendo vertiginoso che doveva per forza sfociare in qualcosa di più grande, o loro lo erano davvero, sì, i più grandi, in quell'eterno momento musicale di pura celebrazione, unione di un uomo con la sua donna.
I passi, su quell'aria romantica, passionale, struggente, si tramutarono in linguaggio sopraffino, slegando travolgente una corrispondenza d'amorosi sensi.
Erano incarnazione, erano Tango!



TANGO di Rossana Carturan

Respiro a fondo, mentre sento il cuore strozzarsi in gola. Deglutisco. Prepotente cerca espedienti per esplodere. Lo raggiro pensando che la mano roteerà la maniglia in una presa decisa, oltre la quale l’istante dovrà perdurare, rendersi efficace, memorizzare, assimilare.
La purezza muscolare...rosso e nero...l’abbraccio, melodia di un accompagnamento..
Eccolo, fedele nello sguardo malinconico, come pioggia parsimoniosa che si posa ovunque. Partecipe di un gioco di società che lo porta ad essere preda di un rivivere e conservare. Diffidente alla mediocrità dei nemici.
Continua, sincopato.. regolare..avanza..
Si dondola sulla sedia girevole e tra telefoni, carte, sprechi e pc, consuma le giornate. Sono il suo intervallo, posso gioire di quell’attimo di assenza che conferma, invece, la pienezza di un uomo ricco di sé. Un caffè ed il suo sorriso.
Il piede sfiora…un tacco si solleva..
Gesti morbidi i suoi, privi di rassegnazione. E’ indifferente che il tempo, scivolando prepotentemente sul volto, sugli occhi, li abbia improvvisamente segnati. Lui che si dà con semplicità e mi accorda se stesso
Nessuna oscillazione..tutto. in un asse perfetta..rosso indietro..
La sensualità di un gioco a due, l’inebriarsi di immaginarie morbidezze, che non avranno forse mai verità, sono di sicuro la miglior difesa. Ci sono. Il mio sogno ad occhi aperti. Il caffè è sulla scrivania.
Nero avanza..incrocia e chiude..
Un cucchiaino di zucchero, uno solo, si scioglie in migliaia di granelli disubbidienti rivendicanti un’autarchica emozione. Sono lì, nudi, tra una penna ed un astuccio. Non dire, Non ora, non ora che il polpastrello punisce. Mi guarda garbato, mi aiuta con il sorriso. Il corpo scinde la testa, secoli di romanzi si schiantano. Io e lui . Lui ed io.
Cuadrato…caminada.. i colori si mescolano..
Il caffè è finito. Il piattino trema sulla mano incredula a quell’atto di erotismo che elude ogni improbabile certezza. La porta si chiude.
Resolucion



MILANO 1975. TANGO DEFORMATO di Daniela Rindi

I mastini si vestono di nero, con giubbotti, guanti e rayban sul viso, scarpe lucide, passo cadenzato, sguardo ceruleo e minaccioso.
Avanzano credendo di aver vinto, avanzano nascosti nella sera,
avanzano…
Sotto i portici il rimbombo dei tacchi, suoni forti, sono forti, a far giustizia ci vuole poco quando sei padrone della città.
Un momento di debolezza, un momento di solitudine, si vince facilmente non pensando da soli.
Un ragazzo, una piazza, una San Babila senza babele, solo un gioco di parole per esprimere ciò che non c'è.
Arrivano, al passo, un tango deformato, disperato, rabbioso, geloso, intorno alla vendetta.
Non c'è un volto, non c'è età, c'è solo una guerra non digerita,
l'affronto di un potere non riconosciuto, con il senso del macabro.
Un lento rosario di noia con la goffaggine del nulla, prende di mira un bersaglio con paranoico sadismo, con l'odio di tutti i vinti.
Jeans scampanati, camicione, eskimo e capelli lunghi sono sufficienti per spaccare un cuore.
Ora si tolgono gli occhiali, le maschere vanno giù, non ne hanno più bisogno, sono sicuri di aver vinto.
Rimane il pianto silenzioso di una città, tanta gente con le bandiere rosse che sventolano e quel vento di maggio che se l'è portato via.

domenica 14 novembre 2010

SIGNIFICATIVAMENTE INSIGNIFICANTE di Alessandra Iori

Significativamente insignificante, ecco come era stata definita da taluni famelici colleghi la sua tardiva presenza alla cena con gli ospiti canadesi. Il capo l’aveva guardata obliquamente quando si era introdotta nella sala ristorante, al momento del dessert, trafelata e anche un po’ scoordinata nella sua mise fin troppo remissiva: tailleur grigio topastro e ballerine. Salutò sommessamente e non cercò nemmeno di scusarsi, percependo un sottile ma persistente disinteresse da parte di quell’orda di omaccioni trangugianti, che a malapena riusciva a mettere a fuoco la mousse al cioccolato, attraverso untuose ciglia-separé. Titolo del film: “Le invasioni barbariche al ristorante dell’hotel Hilton di Roma”; soggetto, sceneggiatura e regia: Alice Lusto.
Meglio sedere, molto molto discretamente, accanto al direttore del personale, Dottor Silvestri, appena rinominato “salva-dipendenti”. Praticamente UN EROE. La settimana precedente aveva evitato un ulteriore caduta di mannaia sui giovani lavoratori a contratto, rammentando al grande capo del quartier generale di Amsterdam che la società si sarebbe trovata prematuramente sprovvista degli unici impiegati in grado di portare a termine un megaprogetto finanziato dall’Unione Europea. Grazie a questo sagace intervento del Dottor Silvestri, il “cervellone” con gli zoccoli di legno ai piedi si era attribuito il merito di non aver più fatto prendere il volo ad una decina di milioni di euro, che avrebbe fortunosamente rimpinguato le desertiche casse del Gruppo entro dicembre.
Alice era stremata, demotivata e preoccupata. Permanente status di precarietà = annichilimento della personalità e depauperamento delle energie. Nonostante fosse una talentuosa neo-laureata, portatrice sana di costanza e tenacia, continuava suo malgrado a far parte del cospicuo numero di cosiddette “anime da limbo”. Non poteva esserci definizione più calzante per quei passivi individui senza futuro, costretti a rappresentare anonimi involucri professionali, le cui potenziali carriere iniziavano inesorabilmente ad ossidarsi nei database degli uffici Recruitment di chissà quali aziende pubbliche e private.
Sentirsi a disagio accanto alle tiratissime bambolone del Dipartimento Marketing o partecipare alle filosofiche elucubrazioni dei colleghi patiti del fantacalcio? Meglio la seconda, quella sera decisamente “meglio la seconda”. Silvestri le aveva fatto subito spazio e le aveva porto il proprio piatto, ancora intonso, con una multicolore coppa trionfo-di-macedonia, lontana mille miglia dal suo umore nero. Schiudendo le sue lucide labbra aranciate, lo ringraziò con sincera riconoscenza. Non riuscì, però, ad evitare di distogliere prontamente lo sguardo da una vistosa macchia di vino rosso che inneggiava al Dio Bacco sulla cravatta regimental di quel gioviale “salva-dipendenti”. Tutto ciò che la circondava le provocava un irragionevole senso di disgusto, anche le prevedibili e ricorrenti battute degli Yuppies di nuova generazione (geneticamente modificati?) sulla sua naturale avvenenza, sulla sua fresca e semplice bellezza mediterranea. Grandi iridi scure, pilotate da un’accademica, quasi chirurgica curiosità verso le nebbiose vite di quegli omologati e patetici sparvieri dirigenziali, scrutavano, avidamente, le ignare cavie. In un quasi ossessivo gioco di specchi, Alice registrava con minuziosa pazienza ogni dettaglio ricorrente e ripetitivo all’interno di quel cumulo insulso di pose e icone linguistiche standardizzate. Così, finiva con l’alimentare le loro perverse pretese materialistiche, concentratesi su una squisita collega, tutt’altro che ambiziosa che, apparentemente, sembrava non volersi concedere nemmeno alle più alte ed appetitose sfere manageriali.
Se avessero potuto raggiungere le onde magnetiche dei cinici pensieri della limpida Alice, se avessero potuto leggerne le conclusioni acide e prive di compassione, se ne avessero ascoltato le sentenze senza appello, avrebbero avuto una rivelazione inaspettata, avrebbero ricevuto uno shock devastante.
La pseudo-religiosa devozione della giovane al dovere e alla rispettabilità mascherava bellamente la più esaustiva negazione del mondo maschile, anzi un’assoluta abnegazione all’eliminazione del genere maschile dal proprio personalissimo mondo. Alice-Paese-delle-Meraviglie volteggiava e roteava nelle sue totalitarie creazioni subcoscienti, in cui gli uomini erano asserviti ai suoi desideri più originali e imprevedibili. Le sue fantasie monocromatiche riducevano questi esseri-sudditi ad alacri formiche, subordinate ai comandi di una regina assolutistica e asessuata. Nulla, però, giungeva in superficie, sui tratti teneri e regolari di un volto delicato, sulle pieghe morbide dei suoi occhi e della sua bocca. Era una creatura leggiadra, creata magistralmente da una natura inconsapevolmente complice, sì complice di un asettico e distruttivo isolamento. Alice, suprema imperatrice di una generazione che del pulsante RESET aveva fatto il proprio strumento risolutivo, evitava ogni rischio di coinvolgimento personale, ogni seppur minimo contatto individualizzato. La sua irreversibile risposta emotiva era lo zero assoluto, la sua rigida modalità operativa un perpetuo “re-roleplay”, il suo sommo obiettivo, possibile e riprogrammabile, una sterile e virtuale distanza da tutto e da tutti.

sabato 6 novembre 2010

INTERSTELLAR OVERDRIVE di Naima

“...Arriva un momento... un momento nella vita di ogni uomo, in cui la relazione tra spazio e tempo... non ha più importanza... Succede quando si raggiunge un livello di coscienza più elevato... o quando – per i comuni mortali – sta sopraggiungendo la fine.Per me non ha più importanza... Da quando non so... diventa difficile ricordare e forse non serve: ogni dettaglio, comunque, è riportato in questo diario di bordo. Certo, ci sono gli strumenti a registrare ogni cosa, persino le variazioni del mio respiro e del mio battito cardiaco, ed il comandante di una nave ha ben altre questioni di cui occuparsi ma, trasferire il proprio resoconto del viaggio al diario di bordo, significa lasciare qualcosa di diverso dalla fredda registrazione degli strumenti ed io cerco di essere molto scrupoloso in questo, ecco perché ogni giorno alla stessa ora, puntuale, come adesso, mi trovo a confidare ogni osservazione e strategia, ogni mio pensiero a questa macchina...: diventa un racconto a volte intenso e carico d’umanità... il racconto della debolezza dell’uomo... Per svolgere al meglio il mio ruolo e la mia missione, ho esercitato il distacco dalle passioni e questo mi ha consentito di mantenere il controllo sulle situazioni più difficili, salvando così il mio equipaggio, riportando ogni volta la nave a casa... Le emozioni, prima o poi, offuscano le menti, anche dei più valorosi... fino a perderli tutti... Nessuno si è salvato, nessuno tranne me.
Provo uno strano senso di onnipotenza ad esser scampato, il solo tra tutti i membri dell’equipaggio, alla morte... Ma la mia è forse una condizione priviegiata: quale comandante di una nave siderale, di questa sono parte... con essa in simbiosi... il suo cuore vivo e pulsante... l'ingranaggio fondamentale di un mezzo che ha durata illimitata: vi sono connessioni che rendono il mio corpo e la mia mente parti integranti dell’astronave, mi tengono in vita finchè vive la nave e questo mi conferisce una sorta di immortalità. Se giochi di potere tra i governi non ci obbligassero continuamente ad un inutile rinnovamento della flotta, queste navi potrebbero viaggiare in eterno... e con molta probabilità è quello che farà la mia nave, se non incontrerà ostacoli.
Il mio viaggio dura da 1025 anni: da quando la nave è alla deriva. Non ho più speranza di tornare, di fermarmi... Nessuno del mio equipaggio è sopravvissuto... e pur avendo raggiunto un livello superiore di coscienza, ho necessità di stabilire un dialogo, di trasmettere il mio pensiero, non solo al diario di bordo... Mi sento solo ma, si sa, la solitudine fa parte del destino di un comandante... così come del destino degli dei...
A viaggiare così a lungo verso l’infinito, non puoi non riflettere sulla divinità, porti questioni sull'invisibile burattinaio che regge i fili delle nostre esistenze e sul senso di tutto questo.
Non ho mai creduto. Ho una natura profondamente scettica. Eppure, in alcuni momenti mi sono sorpreso a parlare con Lui... e persino ad attenderne una risposta... Talvolta ho l’impressione di giocare una partita a scacchi... una partita con un unico giocatore che svolge entrambe le parti... azione e reazione... botta e risposta... Altre volte invece, mi convinco che Egli mi ascolti e che replichi con azioni che vanno interpretate con mente sottile e alle quali io ancora non ho accesso... e allora il gioco si fa più simile a quelle interminabili sfide che lancio al computer di bordo e che spesso, immancabilmente vinco: “Regina in Afiere 6” “Cavallo mangia Regina...” risponde la voce virtuale, calma e rassicurante. “Alfiere in Re 7...Scacco matto” la mia mossa finale... sorprendente anche per un calcolatore che elabora ennesimi numeri e proabilità in un infinitesimo di secondo: la prova che la mente umana, la MIA mente, per qualche inspiegabile motivo, vince ancora sulla macchina... e forse su tutto, anche su di Lui.Ecco... Forse ora riesco a spiegarmi il perché non giunga risposta al mio principale quesito: la ragione di tutto e del perché io sia costretto a vagare in eterno nel cosmo infinito. Capisco perfettamente perché non arrivi un segno da parte del Generatore dei nostri destini. Mi appare evidente dunque, in questo istante, il motivo per cui Egli non possa rispondermi... naturale... ed estremamente logico: ...la sola ragione ammissibile è che...IO sono l'Eterno incontrastato Viaggiatore e Padrone del Cosmo, il Vincitore di ogni partita, la mente al di sopra di ogni cosa... e dunque... IO... sono DIO...