lunedì 27 dicembre 2010

SOGNO di Pasquale Bruno di Marco

Cammina davanti a me lentamente e io la seguo a poca distanza. Si ferma e si volta a guardarmi. Pochi istanti di riflessione poi viene verso di me con gli occhi fissi sui miei. Si ferma davanti al mio viso, quasi le punte dei nasi si sfiorano. Pochi istanti ancora e mi gira intorno, si pone alle mie spalle e mi sussurra
«Chiudi gli occhi».
Poi sento che mi prende le mani, mi fa allargare le braccia, prende un respiro infinito e ci alziamo in volo. La sensazione è talmente forte che mi toglie il respiro e ho paura di aprire gli occhi. Poi lo faccio e vedo.
Voliamo insieme, sovrapposti, lei sopra di me, sento la proiezione del suo corpo sul mio. Forse è più giusto dire che lei mi trasporta in volo anche se non mi tocca. Come se mi avesse inglobato nella sua aura. Dall’alto vedo la città delinearsi nei suoi cerchi concentrici originali violentata da tracciati più recenti che non hanno saputo rispettarne l’antico disegno. Ci abbassiamo nel nostro volo gemellato e percorriamo i canali costituiti dalle facciate degli edifici. Non esistono altri esseri umani, anche se noi in questo momento non possiamo considerarci tali.
Planiamo nella piazza centrale fino sull’acqua della fontana e sento crescere un senso di grave malinconia in lei. Poi, quasi con uno strappo, mi riporta in quota.
Voliamo sulla campagna irreggimentata dai canali e dalle scoline, verso il mare, e seguendo la teoria dei laghi costieri, fino ad un’altra città appoggiata su uno dei laghi. La città è situata verso l’interno e per raggiungere il mare è costretta a scavalcare il lago con un lungo ponte in cemento. Con un lento volo radente percorriamo quest’altra città, anch’essa priva di vita, poi il ponte con un’accelerazione che mi impedisce il respiro, fino alla duna per poi impennarci in un volo verticale che mi stordisce.
Mi ritrovo solo in volo, dentro una nuvola. Mi sento perduto, riesco a gestire il mio volo ma non so dove andare. Il respiro bloccato in gola, volgo lo sguardo in ogni direzione ma non vedo nulla.
Perso nelle spire nebbiose, vedo improvvisamente davanti a me una roccia e mi abbraccio a questa come un naufrago tra le onde si aggrapperebbe ad un relitto galleggiante. Aderisco completamente con tutto il mio corpo a quell’appiglio tanto bramato mentre ansimo cercando di recuperare me stesso e la mia calma.
Quando sento che il mio cuore ha ricominciato a pulsare ad una velocità normale apro gli occhi cercando di capire dove sono. Le brume si allargano lentamente rivelandomi che sono aggrappato alla cima di un promontorio e davanti a me si allunga una terra verdeggiante la cui parte più lontana è ancora avvolta dalle nebbie.
Comincio a scendere dalla cima, più vado verso il basso e più le rocce sono mischiate a morbida terra in cui il mio piede affonda. Avvicino il mio volto a quelle zolle e mi accorgo che quelli che credevo arbusti sono in realtà alberi in miniatura e in mezzo a loro ogni tanto una minuscola casetta grande come la mia mano.
Più scendo verso valle e più gli alberi si ingrandiscono e così tutto il resto fino a che, quando sono alle pendici del monte, la casa che mi si para davanti e grande a sufficienza perché io possa entrarci. Una casa di campagna, con il tetto di paglia, come quelle del nord Europa.
La porta è aperta. Entro, sento le voci. Le seguo. Entro nella stanza dove molte persone stanno festeggiando qualcosa e non badano a me. Mi sento sollevato e cerco acqua da bere. Una mano si allunga verso di me con un bicchiere pieno, fresco ed invitante.
Mi giro. E’ lei.

sabato 18 dicembre 2010

RISTORO di Aldo Ardetti

Fa molto caldo e non è piena estate. Per tutta la mattinata non si è sentito un filo di vento. Dalle finestre e sui balconi delle case di pietra, penzola ad asciugare il bucato di panni colorati, poi appare la gradazione del verde e i fiori dei giardini e, in fondo, il profilo della montagna che va a tuffarsi nel turchese del vasto mare aperto.
S’è fatta l’ora del pranzo e cerchiamo un riparo per una pausa all’ombra.

Sotto il pergolato quattro turiste americane, che possono far parte del club delle paffutelle, parlano allegramente senza disturbare. E’ divertente stare ad ascoltare. Con una pronuncia biascicata apprezzano, usando aggettivi a raffica, tutto ciò che hanno visto senza dimenticare nulla, ripetendo un elenco a memoria. Soprattutto si soffermano su quello che hanno mangiato mentre gustano un gelato per dessert.
Non è buona educazione ma continuo a osservarle, e mi diverte il loro modo di parlare di certi personaggi disneyani.
«Così si fa, lasciare i mariti a casa a fare la guardia al cane e prendersi un po’ di libertà!» esclama una voce femminile che le sta ammirando.
Ci siamo seduti in questo ristorante provenienti dal bel giardino della città – che da queste parti chiamano Villa – e aver percorso una strada stretta in salita, adatta a un grimpeur, che serpeggia tra le antiche case di pietra lavica.
Oltre alle simpaticone d’oltre oceano, siamo in compagnia di una signora di mezz’età che siede a un tavolo poco distante e, nonostante il mio curiosare, riesco a conversare con la mia compagna. Mi riesce perché ogni tanto lascia parlare anche me.
A un tavolo vicino si siede una coppia di giovani. Lei bionda e chiara di carnagione nonostante la stagione, lui, invece, moro e abbronzato, il tipo mediterraneo che, dopo un po’, si alza per andare verso i bagni.
Al ritorno dalla toilette, il tizio abbronzato va a sedersi al tavolo della donna che abbiamo notato al nostro arrivo. Con nonchalance si è seduto di fronte. Alla donna è venuto spontaneo salutare con un «Buonngioornooo» con tono ironico nonché interrogativo. Deve essere una persona di spirito per mantenere un atteggiamento di non eccessiva sorpresa – deve aver pensato a uno scherzo o a un gioco.
All’improvviso si sente una fragorosa risata, quella della ragazza bionda dalla pelle di luna che, con altrettanto spirito esclama: «Amooore, sono quiii».
Tutti si girano da quella parte.
«L’ho scelto e accettato proprio per questo. E’ fatto così, sbadato, sempre con la testa tra le nuvole» e preferisce non finire la frase ragionando che non è necessario aggiungere altro.
Lo sbadato raggiunge il proprio posto e la situazione si ricompone.
Qualcuno ha iniziato a dettare nomi suggeriti dal menu.
Le portate lasciano scie di buon odore che torturano l’appetito, aumenta il senso di vuoto degli stomaci con quei piatti fumanti disturbati dal fumo di sigaretta che qualcuno ha acceso approfittando del fatto di essere all’aperto.
Un avventore, nel momento della mescita dalla bottiglia scelta, comincia a mulinare il bicchiere e poi ad annusarlo, infine a degustarne il contenuto con lentezza accademica. Questa cerimonia dura per qualche minuto. Il cameriere comincia a roteare gli occhi al cielo finché un gesto gli concede di abbandonare felice la postazione.
«Non sapevo ti intendessi di vino, che tu fossi un sommelier?» gli chiede meravigliata la ragazza seduta di fronte.
«Infatti non lo sono, ma così fan tutti» risponde lui senza vergogna. E’ vero, la maggior parte delle persone si immedesima nel ruolo, pur non essendo esperti enologi, mima un’esperienza che non possiede.
Sono sicuro che questi atteggiamenti siano conosciuti da alcuni di voi.
Mentre sul nostro tavolo iniziano manovre di allestimento, sento una voce giungere alle mie spalle: «Sembra che me l’abbia fatto apposta» dice un’anziana donna, ossuta e con un naso pronunciato, capelli castano-chiari – una volta sicuramente biondi – tirati e raccolti a coda di cavallo. Di fianco, a un tavolo alla sua sinistra, siede un signore che a vederlo sembra un vagabondo con la barba incolta e vestito fuori tempo. Mi sembra di averlo già incontrato in città. Sì, è proprio lui: è facile vederlo sui bus cittadini, andare avanti e indietro per la città per sentirsi tra la gente. Qualcuno azzarda che è un nobile decaduto. Ho capito che su quest’uomo si rincorrono leggende.
«Volevo farla contenta e invece… Eh, mia sorella… apposta me l’ha fatto».
«E sì, sembra proprio così, poveraccia» interviene il vicino senza capire molto della conversazione.
«Ma quale poveraccia, mia sorella è morta alla vigilia del suo compleanno, cento anni avrebbe compiuto».
«Beata lei, e allora qual è il problema?».
«Il problema è che poteva aspettare qualche giorno. Avevo pensato di farle una festa, ma una festa… Sarebbe bastato un giorno».
«Peggio per lei!» risponde risoluto l’uomo.
L’anziana donna lo guarda di traverso.
«Avevo in programma una festa, di quelle che si ricordano per sempre. E invece è andata a morire il giorno prima del suo compleanno» ripete indispettita.
«Che Dio l’abbia con sé» fa l’uomo con un sospiro di rassegnazione.
«Che cavolo, non poteva aspettare?» ripete ancora sottovoce.
La donna, che ha gli anni vicini a quelli della sorella defunta, non si cura di nascondere lo sconforto abbassando il tono della voce.
Il vicino continua ad andarle dietro: «Mi commuovo sempre davanti alla bontà» e si porta il tovagliolo alla bocca.
«Dispettosa!» è l’intervento conclusivo della mancata organizzatrice di feste.
Ripenso a tutte le storie sentite per caso, alle tante voci ascoltate e non cercate: Non so se intenerirmi o mettermi a ridere. Accetto di intenerirmi.

Si affaccia un refolo di vento. Le quattro americane continuano a conversare con voce allegra.
«Everything was very good» dice una.
«Oh yes, you’re right…» fa un’altra.
Con il miglior sorriso di una persona appagata, quella che sembra il capo gruppo, chiede il conto: «The bill, please».
Pagano il conto ma non si alzano subito, come a voler godere fino all’ultimo momento quell’atmosfera sotto il pergolato.
All’improvviso il capo comitiva lancia un urlo: «Oh, mio Dio!».
Le compagne sussultano preoccupate «Che c’è, cosa succede?» portandosi la mano al petto.
«Non abbiamo lasciato la mancia» risponde sentendosi colpevole. Allora chiama la ragazza che le aveva servite e non finisce di scusarsi passandole un biglietto da cinquanta. Solo dopo le quattro donne abbandonano soddisfatte il locale mentre la ragazza, seguendole per un tratto, ringrazia emozionata «Grazie, grazie mille».
Comincio a roteare la forchetta nel piatto mentre le quattro signore paffutelle continuano il loro giro turistico, questa volta prendendo per la discesa.
Qualcuna ha aperto il ventaglio che fa vibrare veloce nell’aria.

domenica 12 dicembre 2010

CIME (DI RAPA) TEMPESTOSE di Daniela Rindi

I puntata. Catherine era da tempo che non andava a trovare la sua amica Ellen in campagna, forse da più di dieci anni, da quando aveva divorziato dal marito. In effetti, forse per quel motivo. Non poteva sopportare di trovarsi a contatto con una famiglia ancora felice, con bambini cane e gatto, il tutto circondato dalle aspre, ma affascinanti colline dello Yorkshire. Un antico casale su tre piani con le finestre rosse e un giardino che in realtà sembrava un parco, immense distese di brughiera che affacciavano dalla finestra, una distesa brulla che in inverno si confondeva all’orizzonte con la foschia azzurrina del cielo mattutino...questa l’ultima cartolina, l’intensa immagine che ha ancora negli occhi. Però ora era arrivato il momento, si sentiva nuovamente forte e pronta per affrontare l’amica con la sua vita placida e tranquilla, da “casa nella prateria”. Le indicazioni ricevute da suo marito, perché l’amica Ellen non ha ancora capito dove abita, sono piuttosto dettagliate ma preferisce in ogni caso viaggiare con la luce del giorno, decide quindi di partire verso le cinque del pomeriggio. Mentre è in macchina imbottigliata nel traffico e nei super alcolici mignon ripensa malvolentieri alla sua vita da single divorziata. È stufa, ci vorrebbe un uomo “vero” accanto, che si prenda un po’ cura di lei. Basta con avventure senza senso e tanto sesso! Vuole innamorarsi nuovamente…ma di chi? Quale uomo sopra i quarant’anni, bello, disponibile, ricco, intelligente e affettuoso è ancora solo? Se esiste è divorziato con figli, quindi anche lui con una vita bruciata, piena di dolori, odi, doveri e responsabilità verso l’ex moglie, in pratica un nevrotico, isterico, pedante e forse represso. Se invece è single, probabile che abbia qualche problema d’instabilità emotiva, o d’identità, o è uno sfigato pazzesco, o peggio impotente. Ad ogni modo è uscita dalla città finalmente e si prepara a prendere l’autostrada. Il bigliettino su cui ha appuntato le indicazioni è scritto male e di corsa, nemmeno lei capisce tanto bene quale uscita deve prendere, la prima, la seconda o la terza? Vada per la terza, almeno se sbaglia può tornare indietro. Dopo tre ore di viaggio abbondante si ritrova in aperta campagna ma nessuna indicazione precisa, solo una successione di paesi con nomi similari e neanche un’anima. Il buio è sceso da un pezzo e ha pure iniziato a piovere.

- Pronto? Chi parla?-
- Ellen sono io…
- Io chi?
- Io Catherine! Scema!
- Ah, Catherine…ma dove sei? Oramai sono le 9 di sera, ti avevamo dato per dispersa…
- Infatti, lo sono. Ho finito il credito e non ho il carica-batterie in macchina.
- Ma adesso da dove chiami?
- Da un telefono pubblico…sì Ellen, n’esistono ancora per fortuna! Ma non facciamo discorsi inutili, non ho abbastanza spicci, mi sono persa.
- Ma dove sei esattamente?
- Se lo sapessi non ti chiamerei no?
- Già…ma dammi un piccolo indizio, altrimenti come faccio ad aiutarti?
- Mm…vedo davanti a me una collinetta con una croce…
- La croce è azzurrata, con bordi bianchi e la parte destra è fulminata?
- Esattamente…
- Sei all’ingresso di casa nostra!
- Pure la croce hanno messo…
- Che dici Catherine?
- Nulla… arrivo, tra 2 minuti sono lì….
- Ah, Catherine, attenta ai cani…
- Cosa?...
Click.

Un abbaio di cani, urla e guaiti accompagnano il trillare del campanello di casa e Catherine va ad aprire la porta. Appare Catherine trafelata, con la lingua fuori, coperta di fango e la valigia in mano.

- Cacchio potevi dirmi dei cani…
- Te l’ho detto…
- Mm…Caspita che bella casa che hai!
- E’ sempre la stessa da dieci anni.
- Non me la ricordavo così.
- E’ identica….
- Va bene come dici tu…ciao Ellen sei cambiata… più bella!
- Sono sempre la stessa da dieci anni.
- A me sembri più bella
- Sono identica…
- Ok Ellen, dove posso posare le valigie?

Catherine si guarda attorno e ricorda chiaramente quando venne l’ultima volta col marito. Anche all’epoca si erano persi, per colpa sua naturalmente.
All’interno l’arredamento è assolutamente lasciato al caso, non c’è né logica né intenzione nella posizione di mobili e suppellettili, però questo disordine di gusto e colori danno all’ambiente un’impronta un po’ bohemien.

- Hai cenato Catherine?
- Sì non preoccuparti, un panino per strada…ma dove sono i tuoi figli e il marito?
- Hareton è andato a portare da un’amica la grande che starà fuori il week-end e la piccola Frances è già a letto.
- Che traffico!
- Già tutta vita…vieni Catherine, lascia la valigia in salotto, dormirai nel divano- letto stasera.
- Ma la camera degli ospiti?
- E’ diventata uno studio, o almeno dovrebbe essere.
- Perché dovrebbe?
- Perché quello stronzo di mio marito inizia sempre tutto e non finisce mai nulla!
- Ah…ok il salotto va benissimo.
- Senti Catherine domani mi devo alzare molto presto, ti dispiace se andiamo a dormire che per me è già tardi? Ci racconteremo domani…
- Ah…tutta vita!
- L’ho già detto io.
- Scusa marchesa, ma Hareton?
- Non ti preoccupare per lui, la strada per il letto la conosce…
- D’accordo…il divano letto è già fatto?
- Certo! Mica tratto male i miei ospiti!
- Ovvio…
- Ah Catherine dimenticavo, il cane dorme sempre in salotto, sulla sua cuccia. Attaccato al calorifero.
- Perché legato?
- Stasera è previsto un brutto temporale… domani ti spiego.
- Ok…e il gatto?
- Se non ti dà fastidio lui gira liberamente, solitamente ha i suoi angoli per dormire…
- Va bene, nessun problema, amo gli animali.
- Notte Catherine
- Notte Ellen.

(continua…)

sabato 4 dicembre 2010

NON SO SE SOPRAVVIVERO’ A QUESTA VITA - Cronaca 1 di BdM

Come sono arrivato qua non me lo ricordo, come non ricordo tante altre cose. La testa mi gira, i ricordi affiorano lentamente e alla rinfusa. Mi chiamano Dirtydancing e, anche se mi suona strano, rispondo sempre, sorridendo. Meglio assecondare fino a che non mi si schiariscono le idee.
Quando ho chiesto per la prima volta dove mi trovavo il tipo vestito di bianco - almeno credo poiché, a causa dei giramenti di testa, mi sembrava di vederlo in mezzo ad una nebbiolina – mi ha guardato per un po’ prima di rispondermi:
“Ma siamo in Paradiso, no?” con un tono che sembrava una bonaria presa per i fondelli. E quando anche il secondo e il terzo mi hanno risposto così ho deciso che, almeno per adesso, è meglio assecondarli. Meglio aspettare di recuperare tutte le facoltà fisiche e mentali prima di andare a fondo alla faccenda e capire che posto è questo e perché ci son finito. Per ora, quindi, va bene e non mi ribello all’idea che questo sia il Paradiso. E’ il dubbio che lo sia sul serio m’è venuto proprio l’altro giorno quando, credo, di aver quasi incontrato il “padrone di casa”.
Mi trovavo nel retro di un’osteria, “La buona novella e il buon novello” mi pare che si chiamasse. Me ne stavo per i fatti miei quando altri quattro, che si trovavano lì a cena, hanno deciso di mettersi a giocare a poker.
“Niente americanate!”
ha subito chiarito uno in modo burbero, con una voce un po' adenoidea, indicando il suo dirimpettaio. L’altro ha aspirato dal sigaro, gli ha soffiato il fumo in faccia e l’ha rassicurato:
“Ovvio, Mike. Solo il buon vecchio poker angelicato”
Ho cominciato ad osservarlo. Capelli neri pettinati con la riga in mezzo, occhiali tondi e nasone baffuto. E poi giacca, cravatta, pantaloni alla cavallerizza e stivali. Quello si è accorto che lo studiavo, si è messo a ridere e m’ha subito invitato al loro tavolo.
“Ma sì che sono io – m’ha detto battendomi la mano sulle spalle con un certo vigore – sono proprio quello che tira la pistola a Dylan !”
E si è messo in posa prendendosi i lembi della giacca come se dovessi fargli una foto.
“Ti presento Charlie” ha detto indicandomi uno con una bombetta, baffetti e bastone, il tutto in bianco e nero.
“Oggi non parla perché è in versione prima maniera” e m’ha strizzato l’occhio come per dire che c’eravamo intesti.
Il terzo era ancora più curioso perché sedeva comodamente sulla sedia mischiando le carte mentre la testa era appoggiata sopra un vassoio posto sul tavolo.
“Questo è Johnny”. E poi m’ha bisbigliato nell’orecchio:
“Aveva perso la testa per una ballerina ma noi gliel’abbiamo ritrovata, come puoi vedere”.
Stringo la mano al corpo di Johnny mentre la testa mi guarda severa.
“E questo è Mike, un tipo un po’ burbero ma un vero artista”.
Alzo la mano per salutare ottenendo in cambio un grugnito. Hanno cominciato a giocare e io sono rimasto a guardare. Scommettevano forte e intanto chiacchieravano come vecchi amici.
Solo Charlie, sempre in bianco e nero con tanto di bombetta e bastone, non parlava ma continuava a ridere a crepapelle senza emettere suono. Si divertiva a far cadere la testa di Johnny dal tavolo ogni volta che quello si accingeva a guardare le carte per decidere cosa fare. Quello, senza testa, non poteva vedere ed era costretto a passare.
Il poker, si sa è un passatempo, una scusa per stare insieme e fare quattro chiacchiere.
“Mike - ha chiesto il tipo col sigaro ad un certo momento - ma quando sei arrivato qua che ti hanno parlato delle immagini che hai realizzato?”
“Immagini? I miei capolavori!” ha precisato deciso l’artista squadrandolo di traverso.
“Sì. I tuoi capolavori, tipo quelle cose che hai fatto alla cappella Sistina. Mi pare di aver sentito che il Capo si è lamentato per come l'hai ritratto. Lui si vede più giovane, almeno così dicevano due cherubini l'altro giorno".
Charlie intanto appoggiava la bombetta sulla testa di Johnny coprendogli gli occhi. Quello si arrabbiava perché non vedendo non riusciva a muovere le mani in modo giusto per liberarsene.
Mike non rispondeva, ma si vedeva che si stava innervosendo.
“E pure la storia del non finito. C’era Policleto l’altro giorno che ne discuteva con Canova. Da quello che ho percepito, secondo lui, era solo una scusa che ti saresti inventato per evitare di pagare gli aiutanti”.
Charlie dava le carte facendo il buffone e Mike ha cominciato a borbottare come una pentola di fagioli sul fuoco.
“Sai, pure la Madonna non è mica tanto contenta con quelle braccia muscolose del Tondo Doni. Preferisce l'atmosfera serena ma intensa, così la definita, serena ma intensa, de la vergine delle rocce. Le hanno sentito dire che il da Vinci sì, che le capisce le donne, e le madonne".
“Ma che da Vinci e da Vinci, - ha tuonato Mike - sempre con questo da Vinci che solo perché non era capace di disegnare bene s'è inventato lo sfumato! Se non glielo dicevo io, al da Vinci, di venire a studiare un po' di cadaveri, e quando imparava il grullo a fare il corpo umano, ma andasse a fare i giochi di prestigio per i principi!”.
Ormai era partito, bastava una piccola imbeccata.
“Eppure è apprezzato come scienziato …”
“Ma nun mi fa pensare a quella volta che dovevamo fare l'affreschi a Firenze, che s'è inventato pe' manda tutto ammonte! Ancora mi girano. E voi ogni volta mi fate 'ste storie! Basta, nun gioco più! E ripigliatevi pure i soldi. E Madonna! Ma guarda un po' maremma bonina...
“CHI USA QUESTO LINGUAGGIO IRRIGUARDOSO?”
Una voce rimbombante con tanto di effetto luminoso: il signore ha tuonato a sua volta, come sa fare solo lui.
“Uffa, Signore. E tu che lo chiedi a fare che sai già tutto? Sono stato io, Michelagnolo.”
“MI MERAVIGLIO DI TE, MICHELANGELO. SEMPRE A FARTI PRENDERE IN GIRO DA GROUCHO. MA NON HAI CAPITO CHE QUANDO STAI VINCENDO A POKER ANGELICATO TI FA ARRABBIARE COSÌ MOLLI TUTTO E GLI DEVI RESTITUIRE I SOLDI? E TU CHARLOT, PIANTALA DI NASCONDERE LA TESTA A SAN GIOVANNI DECOLLATO CHE L'ALTRO GIORNO ME LA SONO RITROVATA NEL BUCATO. VI SISTEMO PER BENE A VOIALTRI, UNO DI QUESTI GIORNI.”
Per un attimo mi sono preoccupato ma subito Mike, che s’era rabbonito, mi ha rassicurato:
“Tranquillo. Dice sempre così, ma in fondo l’è un bonaccione, ci perdona sempre”.
Mah. Sarà. Io ero e sono sempre più perplesso e confuso. Adesso, non so bene perché, mi aspetto che da un momento all’altro spunti qualcuno desideroso di offrirmi un caffè.