L’astronave atterrò silenziosamente sulla piazza, gremita di gente vociante e festante. Tutti avevano nella mano sinistra un cavolo per la cerimonia di Kestwaq. Al Presidente non piaceva quella cerimonia. A dire il vero odiava tutte le cerimonie ma doveva presenziare, volente o nolente.
Il problema nasceva dal loro numero. Sul suo pianeta erano tante, troppe. 285. A volte, poteva accadere che in un giorno se ne festeggiassero addirittura 12. Ecco il perché dell’odio, verso le cerimonie, da parte del Presidente del pianeta Mej.
Lui sapeva che sarebbe stata una giornata mortalmente noiosa e faticosissima. Sapeva che sarebbe andato a letto a notte fonda e questo non gli andava proprio giù. Lui, che gradiva addormentarsi alle diciannove di ogni sera. Ma a quelle stramaledette cerimonie doveva proprio partecipare.
Era la Tradizione. Il popolo di Mej la chiamava così, Tradizione. Ma il Presidente era a conoscenza della verità. Una orrenda e crudele verità. Non c’era altro modo di definirla questa Tradizione. Saltare una, soltanto una, cerimonia comportava la sua morte per asfissia. Il chip impiantato all’interno del suo cranio, gli avrebbe fatto avvizzire i polmoni in meno di venti secondi. Più di qualche volta il Presidente presenziò con la febbre a 40° o, addirittura, con un attacco di panico da infarto.
Lui era l’uomo più importante del pianeta Mej. Ma non a vita, fortunatamente. Ancora due cerimonie e sarebbe andato in pensione. Una quel giorno, l’altra dopo 72 ore. E la sera stessa di quell’ultima cerimonia gli avrebbero espiantato il chip dal cervello.
“Evviva il presidente! Evviva! Evviva!”
Lui scese dall’astronave con l’uniforme rossa da cerimonia. Per tradizione in inverno indossava quella estiva, rossa, e in estate quella invernale, viola. Nell’altra stagione, il primautunno, indossava nulla. Assolutamente niente.
“Bastardi! Vi amo tutti!” Questa era la frase rituale che apriva ogni cerimonia.
“Evviva il nostro caro Presidente!” E questa era la risposta del popolo.
Con un gesto della mano, lui fece segno di tacere.
Tra due ali di folla si inginocchiò. Una bambina, sorridendo, gli diede un cavolo.
“Presidente. Ma perché ti inginocchi se tu sei meglio di noi? Noi ci dobbiamo inginocchiare. Non tu.”
Così disse la bambina.
“E’ la Tradizione, piccola” rispose paternamente il Presidente.
Nel silenzio totale, lentamente, la bambina piegò le ginocchia e si mise a fianco del Presidente. Nella stessa identica posizione.
La folla cominciò ad applaudire.
Come se il Maestro della Tradizione avesse dato un segnale, tutti si inginocchiarono.
Ora la cerimonia era impossibile da portare a termine.
I soldati della scorta del Presidente cominciarono a gridare.
“Alzatevi! Alzatevi, svelti! Non potete stare in ginocchio davanti al Presidente!”
Nessuno aveva intenzione di cambiare idea. Cominciarono a lanciare i cavoli contro i soldati.
Il Presidente si alzò da terra e battè tre volte le mani.
La folla, sempre in ginocchio, smise di fischiare e urlare contro i soldati.
“Bastardi! E’ la Tradizione! Questa è la Tradizione!”
Nessuno si alzò in piedi.
Il capo della scorta, una donna molto vecchia, si avvicinò al Presidente.
“Credo che la situazione stia sfuggendo dal nostro controllo. Cominciamo a sparare? Presidente, mi dica cosa devo fare.”
La bambina aveva ascoltato tutto.
“Sparare? Volete sparare? Ma siete matti?” gridò, rivolta al Presidente.
“Piccola, la Tradizione è una cosa seria. Non si possono sovvertire le regole, che sono state scritte e di conseguenza vanno rispettate.”
“Fai schifo!” rispose la bambina, con uno sguardo pieno di odio.
Un soldato le sparò in fronte.
Dalla folla si alzò un grido.
“Uccidete anche me! Uccidete anche meeeee!”
I soldati aprirono il fuoco. Il Presidente, con un sorriso maligno, cominciò ad applaudire freneticamente.
I soldati continuarono a sparare, fino a che l’ultimo della folla, un bambino di cinque anni, non restò ucciso.
“Bastardi! La Tradizione! La Tradizione! Un popolo, non è un popolo sano se vuole gli stessi diritti e doveri del proprio Presidente! Vi amo tutti!”
Questo, gridò a una piazza coperta da sangue e corpi immobili.
Ricominciò ad applaudire con foga mentre saliva la scaletta dell’astronave. Entrò, si tolse le scarpe e si accomodò sulla poltrona di cuoio. Un soldato gli mise tra le mani un cavolo. Era sporco di sangue.
“Presidente. Al decollo deve sputargli sopra, altrimenti la cerimonia non sarà conclusa.”
Il Presidente, con gli occhi sbarrati, guardò il soldato. La cerimonia. La cerimonia non era neanche iniziata. Non poteva essere vero. La frase di apertura l’aveva detta. Ma non aveva fatto in tempo a mangiare il cavolo cerimoniale!
L’astronave iniziò a decollare in verticale. Il presidente, in preda al terrore, cominciò a sudare. Spalancò la bocca in modo spaventoso e diede un morso al cavolo insanguinato. Un istante dopo iniziò a morire lentamente, con le mani che cercavano di slacciare il colletto della divisa rossa. Con gli occhi fuori dalle orbite, diede un altro morso. Ma non servì a nulla, perché il Presidente morì un istante dopo.
L’astronave continuò silenziosamente il suo viaggio, verso il Palazzo Presidenziale.
Il problema nasceva dal loro numero. Sul suo pianeta erano tante, troppe. 285. A volte, poteva accadere che in un giorno se ne festeggiassero addirittura 12. Ecco il perché dell’odio, verso le cerimonie, da parte del Presidente del pianeta Mej.
Lui sapeva che sarebbe stata una giornata mortalmente noiosa e faticosissima. Sapeva che sarebbe andato a letto a notte fonda e questo non gli andava proprio giù. Lui, che gradiva addormentarsi alle diciannove di ogni sera. Ma a quelle stramaledette cerimonie doveva proprio partecipare.
Era la Tradizione. Il popolo di Mej la chiamava così, Tradizione. Ma il Presidente era a conoscenza della verità. Una orrenda e crudele verità. Non c’era altro modo di definirla questa Tradizione. Saltare una, soltanto una, cerimonia comportava la sua morte per asfissia. Il chip impiantato all’interno del suo cranio, gli avrebbe fatto avvizzire i polmoni in meno di venti secondi. Più di qualche volta il Presidente presenziò con la febbre a 40° o, addirittura, con un attacco di panico da infarto.
Lui era l’uomo più importante del pianeta Mej. Ma non a vita, fortunatamente. Ancora due cerimonie e sarebbe andato in pensione. Una quel giorno, l’altra dopo 72 ore. E la sera stessa di quell’ultima cerimonia gli avrebbero espiantato il chip dal cervello.
“Evviva il presidente! Evviva! Evviva!”
Lui scese dall’astronave con l’uniforme rossa da cerimonia. Per tradizione in inverno indossava quella estiva, rossa, e in estate quella invernale, viola. Nell’altra stagione, il primautunno, indossava nulla. Assolutamente niente.
“Bastardi! Vi amo tutti!” Questa era la frase rituale che apriva ogni cerimonia.
“Evviva il nostro caro Presidente!” E questa era la risposta del popolo.
Con un gesto della mano, lui fece segno di tacere.
Tra due ali di folla si inginocchiò. Una bambina, sorridendo, gli diede un cavolo.
“Presidente. Ma perché ti inginocchi se tu sei meglio di noi? Noi ci dobbiamo inginocchiare. Non tu.”
Così disse la bambina.
“E’ la Tradizione, piccola” rispose paternamente il Presidente.
Nel silenzio totale, lentamente, la bambina piegò le ginocchia e si mise a fianco del Presidente. Nella stessa identica posizione.
La folla cominciò ad applaudire.
Come se il Maestro della Tradizione avesse dato un segnale, tutti si inginocchiarono.
Ora la cerimonia era impossibile da portare a termine.
I soldati della scorta del Presidente cominciarono a gridare.
“Alzatevi! Alzatevi, svelti! Non potete stare in ginocchio davanti al Presidente!”
Nessuno aveva intenzione di cambiare idea. Cominciarono a lanciare i cavoli contro i soldati.
Il Presidente si alzò da terra e battè tre volte le mani.
La folla, sempre in ginocchio, smise di fischiare e urlare contro i soldati.
“Bastardi! E’ la Tradizione! Questa è la Tradizione!”
Nessuno si alzò in piedi.
Il capo della scorta, una donna molto vecchia, si avvicinò al Presidente.
“Credo che la situazione stia sfuggendo dal nostro controllo. Cominciamo a sparare? Presidente, mi dica cosa devo fare.”
La bambina aveva ascoltato tutto.
“Sparare? Volete sparare? Ma siete matti?” gridò, rivolta al Presidente.
“Piccola, la Tradizione è una cosa seria. Non si possono sovvertire le regole, che sono state scritte e di conseguenza vanno rispettate.”
“Fai schifo!” rispose la bambina, con uno sguardo pieno di odio.
Un soldato le sparò in fronte.
Dalla folla si alzò un grido.
“Uccidete anche me! Uccidete anche meeeee!”
I soldati aprirono il fuoco. Il Presidente, con un sorriso maligno, cominciò ad applaudire freneticamente.
I soldati continuarono a sparare, fino a che l’ultimo della folla, un bambino di cinque anni, non restò ucciso.
“Bastardi! La Tradizione! La Tradizione! Un popolo, non è un popolo sano se vuole gli stessi diritti e doveri del proprio Presidente! Vi amo tutti!”
Questo, gridò a una piazza coperta da sangue e corpi immobili.
Ricominciò ad applaudire con foga mentre saliva la scaletta dell’astronave. Entrò, si tolse le scarpe e si accomodò sulla poltrona di cuoio. Un soldato gli mise tra le mani un cavolo. Era sporco di sangue.
“Presidente. Al decollo deve sputargli sopra, altrimenti la cerimonia non sarà conclusa.”
Il Presidente, con gli occhi sbarrati, guardò il soldato. La cerimonia. La cerimonia non era neanche iniziata. Non poteva essere vero. La frase di apertura l’aveva detta. Ma non aveva fatto in tempo a mangiare il cavolo cerimoniale!
L’astronave iniziò a decollare in verticale. Il presidente, in preda al terrore, cominciò a sudare. Spalancò la bocca in modo spaventoso e diede un morso al cavolo insanguinato. Un istante dopo iniziò a morire lentamente, con le mani che cercavano di slacciare il colletto della divisa rossa. Con gli occhi fuori dalle orbite, diede un altro morso. Ma non servì a nulla, perché il Presidente morì un istante dopo.
L’astronave continuò silenziosamente il suo viaggio, verso il Palazzo Presidenziale.