A mezzanotte in punto, come da accordi, Marco Cicoli era davanti al cancello del Palazzo della Cultura e, come da accordi, modulò il concordato fischio di riconoscimento. Dovette ripetersi una, due, tre volte, e quindi bestemmiare sommessamente, prima che dal buio oltre il cancello emergesse la sagoma barcollante del suo amico Peppe. Cicoli avvertì subito che c’era qualcosa di strano nell’incedere del suo amico, come un’incertezza premonitrice, e quando quello finalmente gli arrivò di fronte, anche se dall’altro lato del cancello, le sue impressioni furono drammaticamente confermate. Davanti a lui la faccia stravolta di Peppe prometteva guai.
“Ma che hai fatto?” domandò Cicoli. L’amico gli rivolse uno sguardo strabico, mentre estraeva di tasca sigarette e accendini.
“Fermo - intimò Cicoli – qualcuno potrebbe notare la fiamma dell’accendino.”
Esitando un attimo, Peppe ripose le sigarette, e sempre in silenzio si concesse qualche secondo per grattarsi il mento.
“Insomma, che hai fatto?” gli chiese di nuovo Cicoli, e l’amico gli rispose balbettando che, come da accordi, all’ora di chiusura si era chiuso in bagno, e quindi se ne era stato rinchiuso nel sottoscala del Palazzo della Cultura ad attenderlo per oltre 4 ore. E siccome ad un certo punto aveva iniziato a sentirsi nervoso, si era preso qualche goccia di valium.
“Quante gocce di valium?” sibilò allarmato Cicoli.
“Dieci” rispose Peppe. Poi, fissando lo sguardo sulla punta delle proprie scarpe, ammise biascicando “E poi altre dieci, perché non sentivo l’effetto delle prime.”
Marco Cicoli alzò uno sguardo furente alla luna, maledicendo la stupidità dell’amico e la propria incapacità a scegliersi un complice decente per quella che doveva essere una storica rapina. Ma poi, sempre guardando la luna, si disse che visto che ormai erano lì, tanto valeva provarci.
Entrando nel sottoscala, Marco Cicoli venne immediatamente colpito dal tanfo delle decine di sigarette che Peppe si era fumato durante le quattro ore di attesa.
“Ma sei scemo? – si rivolse bisbigliando al compare – Potevi far scattare l’allarme anti-incendio!”
“Quale incendio?” domandò imbambolato Peppe, ricevendo per tutta risposta un sommesso vaffa… .
Cicoli si guardò intorno: nell’oscurità scintillava un lucido palchetto in parquet, e davanti delle file di sedie e un mixer audio. Uno spazio piccolo, ma perfetto.
“Stronzi – si rivolse a mezza voce Cicoli all’amico – questo spazio, in teoria, avrebbe dovuto ospitare le band emergenti e le compagnie teatrali della città. Uno spazio da autogestire, avevano detto vent’anni prima quando era stato costruito, e invece alla fine si sono occupati tutte le stanze per farsi gli affari loro, e la sala conferenza la usano solo per presentare i loro fottuti libri, e i libri dei loro amici, oppure ospitare politici provenienti da Roma per un pomeriggio in passerella nel cuore della provincia italiana.”
“E riempiono di soldi quel ciccione della televisione” aggiunse astioso Peppe, che odiava ogni singola persona che apparisse in televisione.
“Già” grugnì Cicoli. A quell’epoca suonava in un gruppo punk, e quel palco se l’era sognato settimane intere, senza mai riuscire a metterci piede sopra. Sognava di suonarci davanti alla sua ragazza, ai suoi amici, sognava concerti e jam session, sognava il nome della sua band, i Senza Scienza, sui manifesti del corso. E invece niente, quel posto era rimasto chiuso per anni, praticamente inutilizzato. Stronzi, si ripeté mentalmente, li odiava quegli stronzi. Per quello aveva pensato di rubare quel quadro. Anzi, per quello lo stava facendo, a costo di accompagnarsi ad un complice gonfio di valium e obbiettivamente anche un po’ rincoglionito di suo.
Per entrare nella pinacoteca bastò aprire una porta, perché Peppe, prima d’imbottirsi d’ansiolitici, aveva avuto la precauzione di bloccare la maniglia.
Marco Cicoli inspirò il familiare odore di chiuso della stanza, e una volta abituatosi al buio iniziò a far scivolare lo sguardo su una collezione di opere dal cospicuo valore artistico e monetario. Un ben di Dio, avrebbe detto sua nonna. Cicoli dentro di sé dovette combattere con quel naturale istinto di avidità che spesso coglie chi vive perennemente con le tasche vuote, quella bulimia del desiderio che assale chi nelle vetrine vede solo oggetti che non può permettersi. Con aria sognante passò un dito sulla polvere che rivestiva la protezione in vetro di un quadro di Boccioni, e poi si chinò ad odorare i colori ad olio di una tela del Montanarini, ma la sua estasi durò poco, interrotta da un tonfo soffocato alle sue spalle. Voltandosi di scatto, Cicoli scoprì l’amico che sosteneva a fatica una testa di bufalo in marmo del Cambellotti sul punto di cadere dal piedistallo che la sorreggeva, e si precipitò ad aiutarlo.
“Lo stavo solo accarezzando” biascicò a mo’ di scusa Peppe: barcollante com’era si stava solo rivelando un pericolo ambulante per i pregiati pezzi sparpagliati disordinatamente nella sala. Un elefante in un negozio di porcellane, avrebbe detto un inglese.
Insieme tirarono su il bufalone sul suo sostegno in legno, dopo di ché Cicoli ordinò in tono imperioso all’amico di rimanere fermo e non muoversi più, mentre lui, con passo sicuro, si avvicinava al quadro che tanto a lungo aveva desiderato. Si allungò sulla parete, lo staccò con gesti prudenti dal muro, se lo infilò amorevolmente sottobraccio, e insieme a Peppe ripercorse a ritroso il tragitto già fatto. Chiusero ogni porta lasciata aperta e si avviarono verso l’uscita. Poi, così come erano entrati, uscirono, e si diressero veloci alla macchina, parcheggiata poco distante.
Una volta in macchina Peppe si addormentò subito, mentre Cicoli guidava nella notte cercando di tornare a casa senza imbattersi in qualche posto di blocco.
Il giorno dopo Marco Cicoli cercò notizie del furto sui siti internet, ma non ne trovò cenno. Il giorno dopo ancora comprò tutti i quotidiani locali, ma del furto ancora nessuna menzione. E così avvenne il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Allora Cicoli si convinse che nessuno si era ancora accorto del furto, e mentre in volto gli si allargava un sorriso soddisfatto tirò quel sospiro di sollievo che da quattro giorni tratteneva in gola.
Quindi, con studiata lentezza, si alzò dal letto e andò ad aprire l’armadio adagiato sulla parete opposta. Infilando cautamente le mani, spostò le giacche dal carrello delle grucce, e tornò a sdraiarsi sul letto con aria sognante. Con la testa appoggiata sul cuscino, adesso poteva ammirare il quadro in tutta la sua magnificenza, le tonalità in ombra, le figure perfette, i colori distesi con pennellate sicure sulla tela ruvida.
Si accese una sigaretta, e strizzando assorto gli occhi disse: “Sei mio. Sei tutto mio.”
“Ma che hai fatto?” domandò Cicoli. L’amico gli rivolse uno sguardo strabico, mentre estraeva di tasca sigarette e accendini.
“Fermo - intimò Cicoli – qualcuno potrebbe notare la fiamma dell’accendino.”
Esitando un attimo, Peppe ripose le sigarette, e sempre in silenzio si concesse qualche secondo per grattarsi il mento.
“Insomma, che hai fatto?” gli chiese di nuovo Cicoli, e l’amico gli rispose balbettando che, come da accordi, all’ora di chiusura si era chiuso in bagno, e quindi se ne era stato rinchiuso nel sottoscala del Palazzo della Cultura ad attenderlo per oltre 4 ore. E siccome ad un certo punto aveva iniziato a sentirsi nervoso, si era preso qualche goccia di valium.
“Quante gocce di valium?” sibilò allarmato Cicoli.
“Dieci” rispose Peppe. Poi, fissando lo sguardo sulla punta delle proprie scarpe, ammise biascicando “E poi altre dieci, perché non sentivo l’effetto delle prime.”
Marco Cicoli alzò uno sguardo furente alla luna, maledicendo la stupidità dell’amico e la propria incapacità a scegliersi un complice decente per quella che doveva essere una storica rapina. Ma poi, sempre guardando la luna, si disse che visto che ormai erano lì, tanto valeva provarci.
Entrando nel sottoscala, Marco Cicoli venne immediatamente colpito dal tanfo delle decine di sigarette che Peppe si era fumato durante le quattro ore di attesa.
“Ma sei scemo? – si rivolse bisbigliando al compare – Potevi far scattare l’allarme anti-incendio!”
“Quale incendio?” domandò imbambolato Peppe, ricevendo per tutta risposta un sommesso vaffa… .
Cicoli si guardò intorno: nell’oscurità scintillava un lucido palchetto in parquet, e davanti delle file di sedie e un mixer audio. Uno spazio piccolo, ma perfetto.
“Stronzi – si rivolse a mezza voce Cicoli all’amico – questo spazio, in teoria, avrebbe dovuto ospitare le band emergenti e le compagnie teatrali della città. Uno spazio da autogestire, avevano detto vent’anni prima quando era stato costruito, e invece alla fine si sono occupati tutte le stanze per farsi gli affari loro, e la sala conferenza la usano solo per presentare i loro fottuti libri, e i libri dei loro amici, oppure ospitare politici provenienti da Roma per un pomeriggio in passerella nel cuore della provincia italiana.”
“E riempiono di soldi quel ciccione della televisione” aggiunse astioso Peppe, che odiava ogni singola persona che apparisse in televisione.
“Già” grugnì Cicoli. A quell’epoca suonava in un gruppo punk, e quel palco se l’era sognato settimane intere, senza mai riuscire a metterci piede sopra. Sognava di suonarci davanti alla sua ragazza, ai suoi amici, sognava concerti e jam session, sognava il nome della sua band, i Senza Scienza, sui manifesti del corso. E invece niente, quel posto era rimasto chiuso per anni, praticamente inutilizzato. Stronzi, si ripeté mentalmente, li odiava quegli stronzi. Per quello aveva pensato di rubare quel quadro. Anzi, per quello lo stava facendo, a costo di accompagnarsi ad un complice gonfio di valium e obbiettivamente anche un po’ rincoglionito di suo.
Per entrare nella pinacoteca bastò aprire una porta, perché Peppe, prima d’imbottirsi d’ansiolitici, aveva avuto la precauzione di bloccare la maniglia.
Marco Cicoli inspirò il familiare odore di chiuso della stanza, e una volta abituatosi al buio iniziò a far scivolare lo sguardo su una collezione di opere dal cospicuo valore artistico e monetario. Un ben di Dio, avrebbe detto sua nonna. Cicoli dentro di sé dovette combattere con quel naturale istinto di avidità che spesso coglie chi vive perennemente con le tasche vuote, quella bulimia del desiderio che assale chi nelle vetrine vede solo oggetti che non può permettersi. Con aria sognante passò un dito sulla polvere che rivestiva la protezione in vetro di un quadro di Boccioni, e poi si chinò ad odorare i colori ad olio di una tela del Montanarini, ma la sua estasi durò poco, interrotta da un tonfo soffocato alle sue spalle. Voltandosi di scatto, Cicoli scoprì l’amico che sosteneva a fatica una testa di bufalo in marmo del Cambellotti sul punto di cadere dal piedistallo che la sorreggeva, e si precipitò ad aiutarlo.
“Lo stavo solo accarezzando” biascicò a mo’ di scusa Peppe: barcollante com’era si stava solo rivelando un pericolo ambulante per i pregiati pezzi sparpagliati disordinatamente nella sala. Un elefante in un negozio di porcellane, avrebbe detto un inglese.
Insieme tirarono su il bufalone sul suo sostegno in legno, dopo di ché Cicoli ordinò in tono imperioso all’amico di rimanere fermo e non muoversi più, mentre lui, con passo sicuro, si avvicinava al quadro che tanto a lungo aveva desiderato. Si allungò sulla parete, lo staccò con gesti prudenti dal muro, se lo infilò amorevolmente sottobraccio, e insieme a Peppe ripercorse a ritroso il tragitto già fatto. Chiusero ogni porta lasciata aperta e si avviarono verso l’uscita. Poi, così come erano entrati, uscirono, e si diressero veloci alla macchina, parcheggiata poco distante.
Una volta in macchina Peppe si addormentò subito, mentre Cicoli guidava nella notte cercando di tornare a casa senza imbattersi in qualche posto di blocco.
Il giorno dopo Marco Cicoli cercò notizie del furto sui siti internet, ma non ne trovò cenno. Il giorno dopo ancora comprò tutti i quotidiani locali, ma del furto ancora nessuna menzione. E così avvenne il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Allora Cicoli si convinse che nessuno si era ancora accorto del furto, e mentre in volto gli si allargava un sorriso soddisfatto tirò quel sospiro di sollievo che da quattro giorni tratteneva in gola.
Quindi, con studiata lentezza, si alzò dal letto e andò ad aprire l’armadio adagiato sulla parete opposta. Infilando cautamente le mani, spostò le giacche dal carrello delle grucce, e tornò a sdraiarsi sul letto con aria sognante. Con la testa appoggiata sul cuscino, adesso poteva ammirare il quadro in tutta la sua magnificenza, le tonalità in ombra, le figure perfette, i colori distesi con pennellate sicure sulla tela ruvida.
Si accese una sigaretta, e strizzando assorto gli occhi disse: “Sei mio. Sei tutto mio.”
Benvenuto! Grande anteprima. Bel racconto. :)
RispondiEliminala scena della testa di bufalo di ha fatto scoppiare a ridere!:)
RispondiEliminae abbiamo anche un miccio "originale" del 2010... :)
RispondiElimina(p.s. mi riferivo all'illustrazione)... :)
RispondiEliminaIntanto un benvenuto anche da parte mia.
RispondiEliminaChe Carlo sia bravo per me non è una novità: ho letto tanti suoi racconti e soprattutto conosco quel personaggio che è Marco Cicoli al quale l'autore è tanto attaccato che non capisco perchè non ci abbia scritto un romanzo vero e proprio. Qualche volta glielo ho anche detto. Semplicemente una conferma.
Benarrivato Carlo!
RispondiEliminaCondivido con voi, leggere i suoi racconti è sempre un buon leggere.
Questo racconto fà venir voglia di fare una visita sul luogo del delitto.
Mi piace molto il messaggio che arriva "trasversalmente", di curarsi di più dei tesori che abbiamo anche qui nella Pinacoteca di Latina.
Il quadro "rubato" è fantastico: è il dipinto di Van Gogh, quello con il vaso di girasoli, solo che in questo sono tutti appassiti e spennacchiati... :D
RispondiElimina...e grazie alla tag sull'immagine, ho appena scoperto chi è l'autore ;)
RispondiEliminatag sull'immagine? dove? scusate sono rinco...
RispondiEliminaSe apri l'immagine puoi leggere il nome del file in una "targhetta" che appare passando sopra col mouse... (ma si legge pure nella barra dell'indirizzo) e nel nome del file è compreso il nome dell'artista: Banksy. Di lui conosco alcune opere fatte tipo stencil ma non questa: ed io che pensavo fosse una genialata di Carlo... :D
RispondiEliminaanche io pensavo fosse una creazione di Carlo! anzi lo davo per scontato!
RispondiEliminaPerò Carlo ha citato l'autore nel nome del file:
RispondiEliminaterritorio_bansky+copy.jpg
Ho preso il giornale: auguri Carlo per il battesimo... territoriale
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