venerdì 18 marzo 2011

GRASSO BRUNO (parte 2 di 2) di Aristide Bellacicco

Una settimana dopo, ancora per il freddo, era andato a rifugiarsi nel posto più vicino, che era la chiesa di sant’Alberta della Misericordia, in via Lubecca. Il pastore Grucio, mentre officiava la funzione delle dodici, aveva subito notato dall'altare quell’uomo enorme e con la barba lunga che sonnecchiava su un banco della terza fila. Dopo la messa era andato a parlargli. Non aveva capito bene di cosa si trattasse, ma la spontanea distinzione di quel signore, i modi ducati e gentili e il riflesso di un’antica e particolare cultura che si sprigionava da ogni sua parola, l’avevano colpito.

Così, gli aveva offerto quella sistemazione provvisoria nella sacrestia, insistendo suo malgrado sul termine “provvisoria” e, nello stesso tempo, rendendosi conto che forse non sarebbe stata tale.

Aveva anche avuto un notevole diverbio col sacrestano, il quale proprio non capiva perché bisognasse trasformare la sacrestia in un dormitorio pubblico.

‘Ma no’ aveva replicato il pastore Grucio ‘è solo per una persona e provvisoriamente. Non ci darà nessun fastidio.”

Ma il sacrestano aveva insistito con atteggiamento caparbio e risentito, come se fosse un secondo padrone della chiesa con tutto il diritto di avere voce in capitolo. Allora Grucio aveva tagliato corto dicendo che se non gli stava bene poteva anche andarsene, con tutto che gli dispiaceva, ma la decisione spettava solo a lui e ormai era deciso.

Ora, Karolus era consapevole del debito di riconoscenza che aveva verso il pastore Grucio. Non solo per il letto e il poco cibo che desiderava, e nemmeno per quelle regolari consumazioni del vino da messa, ma per l’essersi esposto, per lui, alle critiche di molti parrocchiani benpensanti.. Nonostante le cautele del pastore e dello stesso Karolus, era inevitabile che un membro della comunità, entrando in sacrestia ad ore insolite, notasse la branda ripiegata e aspirasse nell’aria un odore allarmante, che non doveva esserci, qualcosa che rimandava alla strada e a una sporcizia trascinata lì da una presenza sorprendentemente estranea. Quando pure, per un occasionale ritardo o anticipo, non si imbattesse, di mattina o di sera, in quella figura enorme, deformata dal grasso bruno, spesso irsuta, male in arnese e non perfettamente lavata, che stazionava con imbarazzo in quell’angolo della sacrestia e sorrideva inchinandosi. Eppure, nel modo in cui diceva ‘buonasera’ c’era qualcosa che disponeva all’indulgenza e, forse, in modo misterioso, a una sorta di istintivo rispetto che spingeva le persone a replicare al saluto in maniera loro malgrado gentile e riguardosa.

Nonostante ciò, mai una volta Karolus aveva detto ‘grazie’ al pastore Grucio. Farlo, gli sarebbe sembrato volgare e umiliante. Bastava il silenzio, si diceva, e la gentilezza dei modi. Anche l’accettazione della tolleranza di Grucio, certo, e la reciproca condivisione di una tenerezza non sancita da regole.

Ma per ringraziare veramente serviva qualcos’altro, che avrebbe dovuto riguardare entrambi e forse tutti, o almeno una parte di tutti.

Un giorno, Karolus avvertì un mutamento in se stesso. Era una tendenza senza preciso indirizzo, come un accenno generico a un divenire offuscato che però, alla sua sensibilità di disegnatore e progettista di storie, la diceva lunga. Gli sembrava di ritrovarsi in una di quelle gloriose giornate del suo passato in cui percepiva il nascere di un nuovo personaggio, proprio come quando aveva concepito e disegnato le prime avventure di Maria Diotallevi. Una strana e confusa gioia lo invase. Subito dopo, si accorse che stava dimagrendo. Non che si pesasse, ma i calzoni gli andavano larghi, e chiese al pastore Grucio se poteva procurargliene degli altri.

‘Prova questi’ gli disse Grucio ‘e anche una giacca, ecco. Ma che ti succede? In quel cappotto ci navighi dentro.” Gliene trovò un altro, meno abbondante, ma dopo due giorni era largo anche quello.

Karolus gli disse che andava bene così. ‘E’ il grasso bruno, pastore. Se ne va. E’ normale’.

Continuò a mendicare, ma divideva il denaro raccolto fra le bevute di wisky e una parte che non spendeva. Quando fu sufficiente, attraversò la città fino a un grande negozio di pittura e colori dove si serviva quando era un importante disegnatore.

Il padrone del negozio non lo riconobbe. Rimase stupito che un barbone facesse richieste così precise ed esigenti. Quando Karolus volle vedere un aerografo, l’uomo si accigliò.

‘Perché non spende questo soldi per mangiare’ gli chiese ‘forse le farebbe bene.’

Karolus si guardò i calzoni e strinse la cinghia di un buco.

‘Fai presto, Edmund’ disse ‘io sono Karolus. Dammi questo benedetto aerografo.’

L’uomo chiamato Edmund impallidì.

‘Karolus? Ma che dice. No. Ma che dici.”

Poi lo riconobbe. Stava per lasciarsi andare alle parole, ma Karolus lo fermò.

‘Non è il momento, Ed. Dammi tutto e l’aerografo. Forza. Il grasso bruno sta scomparendo. Io esco dal letargo. Sbrigati.’

Nonostante non capisse nulla, Edmund fece ciò che Karolus gli aveva chiesto. Mise tutto in un grande busta di plastica.

‘Ma hai ricominciato a lavorare?’ chiese ‘Voglia iddio di sì. Karolus.’

‘Dio?’ disse Karolus ‘dio non c’entra. Almeno non credo. Ma senti, l’hai più visto F.? Hai capito chi. L’amico di Stromm. L’hai più visto?’

Edmund rimase in silenzio. Poi disse:

‘No. Si serve da Herling.’

Karolus rise.

‘Meglio così’ disse ‘è un incompetente. E poi è caro. Ciao Ed.’

Karolus scese nella stazione della metropolitana che era lì vicino. Scaricò il contenuto della busta davanti al muro che stava proprio di fronte alle biglietterie. Era bianco,vuoto, come se respirasse in solitudine aspettando un grande disegnatore di storie che lo liberasse dallo spreco di esistere.

Karolus riempì l’aerografo e cominciò.

“Le avventure di Marta Diotallevi” scrisse.

All’inizio la gente non ci fece caso, pensando che fosse uno dei tanti perduti che cercava qualche soldo. Ma molti si fermarono dopo le prime figure.

Guardavano.

‘E poi?’ disse uno.

Karolus continuò a disegnare.

Un funzionario della metro si avvicinò. Gli mise una mano sulla spalla.

‘Si sente male?’ domandò.

Karolus scosse la testa. Strinse di un buco la cinta dei calzoni.

‘Non mi interrompa’ disse ‘ il grasso bruno sta per finire.’

‘Ah’ diceva la gente, che era sempre di più ‘ e poi? Come mai Marta non si uccide? Certo, ecco. E poi?’

Alla decima scena Marta cominciava a scrivere un diario.

‘Ma sì disse la gente ‘ è così che bisogna fare. Non tacere nulla. Bravo. E poi?’

Marta Diotallevi faceva una cosa straordinaria, incredibile. La gente applaudì.

‘E poi ?’

Nessuno scendeva più verso i treni. Compravano il biglietto ma poi restavano a guardare la storia di Marta Diotallevi.

Il funzionario della metro fece un passo indietro.

‘Fantastico’ disse ‘Vuole qualcosa da mangiare?’

‘Sto quasi per finire’ disse Karolus.

La gente aspettò. All’ultima scena molti dissero ‘oh!’ e si fermarono a pensare alla propria vita.

Karolus lasciò cadere l’aerografo. Era così magro che quasi non si vedeva.

Cadde a sedere ai piedi del muro tutto disegnato.

‘Aspettate’ disse ‘manca ancora il finale.’

‘Forza’ disse la gente ‘finisci.’

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