lunedì 17 agosto 2009

LA DACIA DI MARIJA di Aldo Ardetti


L’aria umida e piovigginosa creava luccichii e gelidi riverberi di luce. Il quartiere Sholkovkaija si svegliava con il rumore del viavai quotidiano sui marciapiedi di asfalto rattoppato. Gli imbocchi della metropolitana entravano nella terra, nella città sotterranea.
Dal mercato si alzavano voci di richiamo. Al cielo salivano pennacchi e nuvole di fumo. Il vapore delle fabbriche periferiche e dei grandi impianti di riscaldamento per gli appartamenti condivisi nei palazzi lungo le ulitze e i bul’var, avvolgeva la città dove viaggiavano bottiglie di birra e vodka che, ad alcuni, avrebbero fatto compagnia durante la lunga giornata.
Quell’angolo della sua città osservava Marija dal balcone del suo appartamento, negli spiragli concessi dal fogliame delle betulle mentre pensava con trepidazione all’orto della sua dacia. Da quando era andata in pensione preferiva partire prima dell’estate e prolungare la permanenza in campagna fino all’inizio dell’autunno.
«A contatto con la natura respiro meglio» ripeteva.
Le piaceva il lavoro nell’orto dove raccoglieva i prodotti tirati su con tanta passione contadina e che a Mosca, al mercato Sholkovskij, costavano un occhio.
«Meno male che ho questa casetta» e ringraziava Konstantin, il marito defunto che gliela aveva lasciata.
Minuta ma forte ed energica, Marija approntò valigie, zaino, sacchi e scatoloni che contenevano il necessario per i primi giorni, soprattutto generi di difficile reperibilità come pane e zucchero. Portava con se barattoli di conserva e altri da riempire dopo la raccolta degli ortaggi e delle bacche del generoso bosco.
Quando tutto si presentava ben confezionato, raggiungeva la stazione Saviolovskij per un viaggio che doveva durare tutta la notte: primo tratto parallelo alla linea Mosca-San Pietroburgo per poi deviare – treno non privilegiato – verso nord-est, ed attraversare le sterminate campagne dei kolkoz e sovkoz e lande ammantate di nebbia. Il treno si fermava in ogni stazione, anche in quelle quasi inesistenti, tanto breve era la sosta e tanto in fretta il solitario capostazione salutava l’ultimo vagone che spariva nella notte nera e desolata.
Marija non riposava bene, non riusciva a chiudere occhio per vigilare sull’appetibile carico alimentare, alla luce scialba delle lampade del corridoio che si oscuravano al continuo passare di irrequieti passeggeri. Aspettando l’alba che l’avrebbe accompagnata a destinazione, affrontava il viaggio ben infagottata per respingere il residuo freddo russo. Di notte, con i finestrini velati dai fiati, non riusciva a distrarsi, così portava alla bocca piccoli pezzi di pane con pesce e verdura per sostenersi e far trascorrere il tempo.

Alla stazione Chvojnaja scese coi numerosi e pesanti bagagli che richiesero tempo e fatica. Sul piazzale, alle spalle del caseggiato, l’attendeva il parente che si era precipitato a soccorrere la congiunta. Esisteva un servizio di autobus ma per il bagaglio e per evitare lunghe e solitarie attese, Marija preferiva avvisare in anticipo e imbarcarsi su quel furgone sul quale, in quella decina di chilometri da percorrere, era difficile evitare un fastidioso singhiozzo.
Attraversarono un bosco di betulle, di salici piangenti e chiazze d’acqua nel terreno accidentato, abeti, pini le cui foglie aghiformi lacrimavano latice e gocce di rugiada, tremule e mirtillo e l’èrica con le bacche blu sotto un tappeto colorato dai boléti e dall’agàrico delizioso.
Marija arrivò alla sua dacia, il suo rifugio circondato da betulle e pioppi, ciliegi selvatici, cespugli di lilla, viburno e uva spina. Spalancò porte e finestre e iniziò a rassettare non prima di aver offerto un bicchierino al provvidenziale chauffeur. Mettendo da parte la stanchezza riempì d’acqua il samovar e accese la stufa per far asciugare l’ambiente. Decise di preparare una sostanziosa e fumante zuppa di carne e verdura e, mentre la assaporava, iniziò a pensare ai giorni a venire, al lavoro da fare ora che il disgelo aveva liberato la terra, mentre osservava la piccola ed unica icona posta a guardia della casa.
Murcik, il gatto dal pelo bianchissimo d’angora, con un paio di balzi s’era sistemato in un cantuccio sopra il forno. Se ci fossero state le figlie, Olga e Dar’ja, il grammofono con l’altoparlante a tromba avrebbe inondato le stanze di antiche arie slave; ma le ragazze avevano preferito restare a Mosca, in attesa della bella stagione, con la permissiva babushka Masha.

Marija, in un viaggio precedente, aveva portato anche tre galline allevate con mille attenzioni e cure sul balcone della casa moscovita. Le aveva date in custodia a dei parenti del villaggio affinché diventassero grandi. Avere galline in campagna era sempre stato un suo sogno, un desiderio che ora aveva realizzato ma, con quel tempo, anche le gallinelle si nascondevano, non davano le sospirate uova, si comportavano in maniera strana e mangiavano male, inappetenti.
«Si vede che i primi giorni hanno mangiato troppi vermi e adesso non li guardano nemmeno» ragionava dubbiosa e preoccupata.

Con il sopraggiungere del caldo il lavoro nell’orto procedeva con soddisfazione. Non così si poteva dire delle galline. Avevano un’aria malaticcia e Marija cominciò a disperarsi: «Ho paura che dovrò separarmi da loro. All’inizio si sono riprese così bene, piene di energie. Tutti si meravigliavano per come erano belle.»
Il terzo giorno, dopo le meraviglie dei vicini, una si ammalò; poi toccò alla seconda e così pure alla terza, la gallina più tranquilla. Quest’ultima non in maniera grave. Tutto iniziò quando alla gallina più vispa apparvero dei foruncoletti sulla cresta. Pensò si fosse raffreddata e iniziò a curarla spalmandole un unguento alla tetraciclina che usava lei stessa. Le ferite cominciarono ad asciugarsi ma la cresta diventò dura come il legno e ogni volta non poteva guardarla senza che le sgorgassero copiose lacrime. Murcik assisteva malinconico nel vedere la padrona demoralizzata ma non poteva riferire suggerimenti, una qualche soluzione che pure doveva aver pensato, dare una... zampa d’aiuto.
La stessa cosa accadde con la seconda gallina che, con il becco, si ferì gravemente strappandosi tutta la pelle delle zampe.
«Non so che malattia sia questa» si domandava disperata la donna.
Cominciò a far mangiar loro dell’ortica pensando che una aumento di vitamine risolvesse il problema, ma diventarono ancora più brutte.
Non avendo altri rimedi non le restò che pensare ad una sorta di malocchio, un maleficio per il quale provò magici scongiuri. La situazione precipitò: «Sono sfortunata con le galline» sentenziò e, dopo qualche giorno, restò sola.

Dopo lo zappettio nell’orto, Marija si inoltrava nel bosco calpestando il muschio che ondeggiava sull’acqua paludosa. Rincasava con cesti colmi di funghi, cercati anche tra il lichene bianco dei cerbiatti, che essiccava o in salamoia conservava nei barattoli; in altri finivano le squisite marmellate di mirtillo e di ribes.
Sopraggiunse l’autunno e Marija si preparò per il viaggio di ritorno. Portò con se le preziose conserve che in città avrebbero fatto risparmiare e sopportare meglio il rigore del clima invernale.
Qualcosa, come ogni anno, regalò o dette in consegna ai parenti. Parte la nascose in casa o la interrò. Ma queste sono illazioni di alcuni vicini e del sottoscritto.
Marija tornò a Mosca pensando alla successiva primavera, soddisfatta dei frutti e dei prodotti abbondanti del suo orto e del bosco ma con una spina nel cuore, una delusione che le procurava un acuto dolore. Dal balcone della sua casa i suoi pensieri perforavano il vuoto mentre un altro giorno moriva chiudendo il sipario sulle lunghe ombre della sera.
(pubblicato in data 17 agosto 2009)

lunedì 10 agosto 2009

ROVESCIO IMPROVVISO di Pasquale Bruno Di Marco


Viene giù troppo forte. Costretti dalla pioggia violenta all’intimità umida dell’androne di un palazzo per uffici, in attesa di poter uscire. La donna con il vestito chiaro fissa la strada, lo sguardo perso nei pensieri e un leggero sorriso sulle labbra. Occhi scuri grandi, capelli lunghi, le si indovina un corpo formoso sotto i vestiti leggeri inumiditi.
Gli uomini le girano intorno, spesso a contatto, piacevolmente costretti dalle circostanze e dalle dimensioni del luogo. Nessuno parla, apparentemente tutti seguono rapiti e intimorito lo spettacolo della pioggia assordante che violenta la strada.

«E’una giovane madre – pensa l’uomo con gli occhiali - passandole vicino ho sentito per un attimo l’odore di talco, come quello che usava mia moglie con nostro figlio. Sicuramente sta pensando al suo bambino, lo immagina che fa i capricci dolcemente rimproverato dalla nonna e non vede l’ora di tornare a casa.»

«Lo conosco quel sorriso – pensa l’uomo con l’impermeabile nero – un sorriso da santa. Un sorriso che dice casa e famiglia. Ma se poi vai a scavare, chissà cosa scopri. Ne ho conosciute come te, che ti credi. Conosco il tipo. Sono sicuro. Sei la segretaria di un professionista e, sicuramente, anche l’amante.»

«Lo stesso profumo – pensa l’uomo con l’ombrello – e anche la stoffa del vestito che sento a contatto con la pelle della mia mano è così simile. Un po’ le somiglia. Anzi il sorriso è proprio come il suo. Quel sorriso che mi ha conquistato inesorabilmente. Quanto tempo è passato?»

La pioggia insiste cadendo con la stessa violenza. Il rumore forte costringe ognuno nell’isolamento dei propri pensieri, lo spazio minimo che li avvolge costringe i corpi in una intimità casuale e inevitabile.
L’uomo con gli occhiali sposta il peso del corpo da una gamba all’altra sfiorando la donna.

«Mi piace sentirlo così vicino, questo odore di talco. Mi ricordo che poi le rimaneva addosso quando il bambino si addormentava e io potevo riavvicinarmi a lei. I nostri corpi vicini. Come adesso sono vicino a questa donna. E poi lei si concedeva a me. Da quanto non lo facciamo più? Da quanto tempo non sento un contatto così intimo? Grazie a questa pioggia che ci costringe qui dentro. Però, forse, non dovrei sfiorarla così ma proprio non resisto.»

L’uomo con l’impermeabile si sporge per controllare la strada urtando leggermente la donna e subito scusandosi con voce sommessa ma decisa.

«Adesso ti sono vicino, così vicino che sento l’odore della tua pelle. Ho accarezzato per un momento i tuoi fianchi e tu hai avuto un brivido. Vedo anche un luccichio nei tuoi occhi. Lo sapevo, sei una donna calda, appassionata. Una donna che vive per la passione fisica. Riesco a immaginarti a letto quando ti scateni e diventi una tigre del sesso, sbrani gli uomini con le tue voglie, instancabile. Le conosco le femmine come te.»

L’uomo con l’ombrello ha il volto rivolto verso l’esterno ma con gli occhi cerca il viso della donna.
Ne cerca lo sguardo per poi ritrarsi se per caso lo incontra.

«Perché mi hai lasciato? Perché te ne sei andata? Non capivo quello che dicevi quando mi hai abbandonato. Oddio. La odio e la amo ancora. Mi sento vibrare dentro. Lo senti anche tu, anche tu che sei così simile a lei? Anche tu mi faresti soffrire come ha fatto lei? Donna sconosciuta, io sento che potrei amarti e odiarti, come odio e amo lei. »

La pioggia sembra calare di intensità.
E’ solo un attimo ma la donna, decisa, apre l’ombrello ed esce incurante degli schizzi d’acqua che la bagnano mentre la tempesta si scatena di nuovo.
I tre uomini si ritrovano tutti e tre a guardarla, l’uomo con gli occhiali fissandola intensamente, l’uomo con l’impermeabile sorridendo, l’uomo con l’ombrello scuotendo lievemente il capo.
Per un istante si guardano tra loro come se si accorgessero solo allora di aver condiviso un momento di intimità con quella sconosciuta. Nessuno dice nulla rinchiudendosi di nuovo nei propri pensieri. Solo una volta giunti a casa si accorgeranno di non avere più il portafogli.



(pubblicato in data 10 agosto 2009)

lunedì 3 agosto 2009

TRAUMA di Aldo Ardetti


Di nuovo aveva sognato di cadere nel vuoto e poi una piccola mano carezzargli la fronte fino a scivolare sulla guancia sfiorandola appena, beneficiando così di una eccitazione al solletico. Non voleva aprire gli occhi per timore di sgradite sorprese; piuttosto cercare un orientamento mentale, approfittare di quel dolce momento ritardando il completo risveglio che, quando avvenne, gli occhi si dischiusero lentamente turbati dalla luce asettica, antipatica disturbatrice.
Le carezze della piccola mano erano sparite e fu quasi certo di aver sognato, di essersi sbagliato quando, superato un primo disorientamento accompagnato da una sensazione di vuoto, aveva preso coscienza della situazione e del posto. Non riusciva a muoversi: sentiva tutto il corpo indolenzito, bloccato. Altre volte, in quella immobilità, un freddo antico che lo avvolgeva dalla testa ai piedi. Non realizzò quanto tempo fosse trascorso e iniziò, con l’aiuto del ricordo, a fare un viaggio a ritroso: la strada che lo aveva condotto su quel letto. In un bagliore vide le viscere in cui era precipitato; la curva a destra leggermente in discesa e il fiume che, alle chiuse sotto il ponte, mormorava nel buio. E, dopo l’errore, la paura totale, la disperazione passiva. D’istinto – seppur inutile e sciocco – aggrapparsi allo sterzo mentre l’auto piombava nel baratro squarciando le acque. Poi il nulla.
Con fatica riuscì a riprendere sonno e nuovamente si sentì carezzare il viso. Era la piccola mano che lo sfiorava e, toccandolo appena, creava un alito, un leggero e fresco soffio gradevole ai sensi.
Chi sei? Cosa vuoi?
Passi e un frusciare d’attorno gli procurarono un leggero sussulto. Una suora vestita di bianco controllava che tutto fosse a posto cercando di non scuotere il letto. Una suora con un passato difficile: era stata una donna di strada. Quante volte si era sentita chiamare puttana ma poi aveva scelto il velo, una conversione che le aveva dato quella serenità che non aveva mai vissuto.
«Scusi, chi c’era prima di lei. Ha visto uscire qualcuno?»
La suorina rispose negativamente con la testa.
«Da quanto tempo sono qui, come ci sono arrivato?»
«Questa notte. Stia calmo, non si agiti! Deve ringraziare Iddio se è ancora vivo. E’ proprio il caso di dire che è stato ripescato in tempo. Le è stata fatta la TAC e non è stato riscontrato nessun trauma cranico, solo alcune cicatrici, qualche escoriazione, qualche ematoma. Ha perso un po’ di sangue ma è bastato un flacone di plasma... – e dopo una pausa accompagnata da un lungo sospiro –Ma saranno i medici a dirle tutto.»
Quindi aggiustò la piega del lenzuolo sulla coperta, rimboccò e aggiunse:
«E’ stato fortunato, uno svenimento che le poteva costare caro. Lei deve avere la pelle dura!»
Mentre il paziente asseriva con un cenno di sorriso traboccante di orgoglio, al passato prossimo si aggiungeva un altro particolare: la bambina. Dove era la bambina, perché non gli era venuta subito in mente? Come aveva potuto non pensare alla sua assenza?
E la percezione di caldo e freddo continuava la sua intermittenza secondo il grado di agitazione.
«La bambina, la mia bambina. Dio, è salva, la mia bambina è salva?» e si disperò mentre combatteva per respingere brutti pensieri di un tragico destino.
Se fosse accaduto l’irreparabile, gli sarebbe rimasto un marchio incancellabile nella mente e nell’anima.
Nel frattempo era entrato il primario con i suoi dottori di reparto. La suora si fece da parte e cercò di evitare sguardi indagatori infilando con discrezione l’uscita e assicurando la chiusura della porta per il giro delle visite mediche.
«Non si agiti! Di sua figlia le daremo notizie prima possibile.»
esordì il primario che, già dal corridoio, aveva sentito la richiesta.
«Come sta mia figlia, s’è fatta molto male?»
«Adesso stia calmo. Le ho detto che le faremo sapere. Capisco la situazione ma… »
e lasciò cadere ulteriori rassicurazioni.
Più si obbligava a ricordare, più lo abbracciava la sofferenza. Provò un senso di solitudine e di totale abbandono che sono propri dell’impotenza, dell’aver procurato un danno e di non poter porvi rimedio. Una sensazione di sconforto perché era costretto ad arrendersi. E allora si sciolse in un pianto, una esplosione di lacrime violenta che si abbatté sulle responsabilità, creando un senso di colpevolezza e di rimorso.
Passò altro tempo, altri giorni e altre notti di sofferenza in quell’oceano di malore interiore. Quella piccola mano era rimasta sospesa tra il nulla e l’aldilà fintanto che il padre potesse riconoscerla. Solo per quello.
Il sipario poteva chiudersi e quella mano sparire nel fiume, dentro l’acqua che aveva corrotto la purezza del suo sangue. Nessun cambiamento, tutto era già scritto, nessun miracolo e l’adolescenza solamente un futuro impossibile.
Di nuovo la suora varcò la porta della camera.
Questa volta le mani erano due, grandi e rugose e gli stringevano forte le braccia mentre dalla finestra si vedevano i tenui colori ingrigiti della sera e entrava il profumo della linfa di foglie spezzate di agave. All’orizzonte il sole lanciava gli ultimi dardi di calore e di luce prima di sciogliersi completamente nel mare.


(pubblicato in data 3 agosto 2009)

lunedì 27 luglio 2009

NEMESI ATIPICA (parte 3 di 3) di Pasquale Bruno Di Marco


«Ride, ride sempre, parlo e ride, sto zitto e ride, mi guarda e ride. Quanto è scemo. Scemo e stronzo. Mi sfotte in continuazione. Con questa storia del pronto soccorso poi, si sta divertendo come un matto. Io soffro e lui ride.
Sono ancora tutto acciaccato dopo dieci giorni, sento tutti i muscoli indolenziti, anche perché quell’infermiera m’ha tenuto fasciato così stretto. Meno male che poi ha dato retta a quel medico, anche se lei dice che è un cretino, anzi che tutti gli uomini sono cretini.
Chissà che storie avrà avuto. E quanto deve avere sofferto. E quanto avranno sofferto quei cretini che stavano con lei. Magari fasciava stretti pure loro. Però è carina.
Un po’ pazza, ma chi non lo è? »

«Mario non lo è.
Mario è proprio scemo e pure stronzo. Ma ve l’ho detto che tartaglia? Ci mette mezz’ora a dirmi una battuta cattiva su di me. Un po’ perché balbetta e un po’ perché ride in continuazione. Mi da così ai nervi che lo ammazzerei. Ma come? Io prendo su di me l’incarico fondamentale di portare la giustizia divina nel mondo e quello mi prende per i fondelli? E va bene! Sarà lui la mia prossima vittima. »

«O meglio la prima visto che gli altri tentativi non sono andati come dovevano. Sfortuna, perché le trappole hanno funzionato come previsto, solo sfortuna. Ma lui pagherà per tutte le prese per i fondelli che ho subito. Si, sta per pagare e so già come.»

«Ho studiato tutto, stavolta proprio tutto: arrivo al lavoro, i movimenti, i tempi. Mario arriva al lavoro alle 6,30 e subito si dirige spogliatoio, si toglie la giacca entra nel suo w.c. personale – personale perché nessun altro ha il coraggio di entrarci dopo che c’è stato lui – e ci rimane dai trenta ai quaranta minuti.
Poi viene in magazzino e fa sempre lo stesso giro, finge di controllare e di mettere a posto per circa trenta, trentacinque minuti, sparisce e ricompare alle 10,30 per la pausa, in cui fa colazione con quel beverone di un colore strano che realizza con polvere di liquirizia e acqua, almeno credo.
Problemi di fegato, dice lui.
Ma questo non gli impedisce di scroccarmi sempre le cose che sto mangiando.
Ogni volta che mi vede masticare qualcosa mi chiede sempre cosa è e se ne ho anche per lui, e quando lo dice fa la faccia da cane bastonato e zoppica pure.
E’ l’unico momento in cui lo fa, mai visto zoppicare in altre occasioni, anzi, se gli serve, corre come un disgraziato.
Ma ho scoperto che soffre anche di cuore e quindi potrei fare in modo di dargli qualcosa che aggravi la sua situazione e lo porti a lasciare questa valle di lacrime.
Ho letto che il medicinale che prende mia nonna può essere letale anche per chi non ha alcun problema di salute, per lui basterebbero poche gocce.
L’organismo lo assorbe completamente e quindi non ne rimarrebbe traccia. Il delitto perfetto. Ci vuole l’occasione giusta.
Potrei farmi vedere che mastico sempre le gomme senza zucchero, queste tipo confetto che fanno pure bene ai denti. Per lui è un’esca irresistibile, sicuramente me la chiederà ed io avrò preparato un altro pacchetto pieno di gomme appositamente preparate con il medicinale di nonna.
Pacchetti uguali ma con una tacca su quello predisposto, che posso avvertire al semplice tocco, così, quando lui me la chiederà davanti agli altri, io infilerò la mano in tasca e prenderò quel pacchetto con le gomme “trattate” e… alè, la missione sarà compiuta.»

«Ho scelto queste che danno pure l’alito profumato, le mastico tutto il giorno tanto che il capo ormai mi chiama “il ruminante”. Sono due giorni e ancora non me ne ha chiesta una!
Che stia male?
Eppure le sue abitudini sono invariate.
Colazione alla stessa ora, con lo stesso beverone. Forse dovrei metterlo lì il veleno, anche se, con quel colore che esce fuori quando lo prepara sembra già una pozione adatta per ammazzare i cristiani. Magari basta concentrarmi e sperare che gli ingredienti facciano effetto.
Così sarebbe un suicidio però e come serialkiller farei una figura del cacchio. Sono pronto comunque anche all’alternativa di lasciare cadere poche gocce nel beverone.
Stamattina rispetta i tempi in modo perfetto: 30 minuti di bagno, 30 minuti di finto lavoro e ora è sparito, ricomparirà tra 3 minuti, alle 10,30, per prepararsi il beverone.
E quindi ho fatto bene oggi a portarmi la boccetta del veleno per mischiarlo agli ingredienti che usa. Almeno la pianterò di masticare le gomme del pacchetto buono.
Anzi dei pacchetti buoni visto che ne ho consumato almeno 3 in 2 giorni, sempre attento a non prenderlo dal pacchetto “trattato” che invece sta qui nella tasca ancora integro.
Eccolo qui in tasca lo sento.
Mah? Come mai è aperto?... come è possibile?... cavolo! stamattina ho comprato uno nuovo che ho appena aperto, oh no! È questo quello con la tacca, allora …ho in bocca la gomma “trattata”… ma allora… mi sono avvelenato!… oddio mi… sento male… aiuto… mi… sento... »


«Di nuovo qui allora.»
«Aiuto, mi sono avvelenato… aiuto.»
«Ti ricordi di me? Ci vediamo spesso ultimamente.»
«Si, certo, tu sei l’infermiera Giovanna e io sto morendo.»
«Stai calmo ti stiamo controllando. Sei arrivato qui svenuto con la bava alla bocca, ti ha portato il tuo collega, quello che tartaglia. Ma sta sempre a masticare gomme quello? Ora faremo una bella la lavanda gastrica, ti infilerò questo bel tubicino giù per la gola e ti daremo una bella pulita alla tua pancia e tutto quello che c’è dentro verrà fuori e non ti farà male. Capito?»
«Si, cioè ma…»
«Buono, ci penso io.»
«Urgh!»
«Bravo, sei stato molto bravo. Non ti lamenti mai, veramente dai soddisfazione ad una come me che ci mette passione in quello che fa.»
«Grazie, Giovanna, posso… posso chiamarti così?»
«Certo, puoi chiamarmi Giovanna quando parliamo da amici, ma quando sono nell’adempimento delle mie funzioni chiamami signora Giovanna, serve rispettare i ruoli.»
«Ah!... va bene, signora Giovanna.»
«Bravo. Ed ora per stare sicuri, per essere certi che non ci sia più niente nel pancino ti farò un bel clistere.»
«Eh, ma…»
«Chiudo la porta a chiave non ti preoccupare. Non entrerà nessuno.»
«Ah! Si cioè … meglio, credo.»
«Bravo piccolino che non si ribella. Ho capito sai, non c’è più bisogno che fingi con me. Anche tu hai capito per questo contini a farti male.»
«Come… cosa hai capito tu e… cosa avrei capito io?»
«Che ti sei innamorato di me, piccolino. Ma non c’è più bisogno che ti inventi queste scuse per potermi incontrare, io ti ho capito, ti guardo negli occhi e so cosa vuoi da me.»
«Oh, si, cioè, io ti ho pensato spesso, dalla prima volta che ti ho incontrata qui al pronto soccorso…»
«E ho capito subito che eri diverso da tutti gli altri. E me lo hai dimostrato assecondandomi sempre senza ribellarti, non come hanno fatto tutti gli altri finora che non sapevano accettare me e il loro ruolo.»
«Sì, io voglio assecondare tutti i tuoi desideri, tutte le tue aspirazioni e inol…»
«E poi mi hai dimostrato di saper soffrire.»
«Eh si, il rapporto sano come dicevamo l’altra volta lo richiede.»
«Rapporto sano, sì, è vero, anche se non secondo i canoni comuni, ma in realtà il nostro sarà più naturale degli altri.»
«Naturale?… cioè ho capito bene tu ed io insieme, cioè tipo innamorati?»
«Più che innamorati, piccolino, noi ci combiniamo perfettamente, siamo concavi e convessi. La mia deviazione, la presunta deviazione secondo i canoni ufficiali della normalità è compensata, anzi, è perfettamente armonizzata dalla tua.»
«Cioè… intendi dire che noi siamo fatti l’uno per l’altra?»
«Sì, amore mio. Nessuno finora mi aveva accettata per quella che sono. Chiunque mi è stato vicino è fuggito, anche chi aveva provato pur conoscendomi non ha resistito molto, forse pensava, sperava di cambiarmi.»
«Io non desidererò mai cambiarti.»
«Lo vedo nei tuoi occhi, mio docile tesoro.»
«Io ti amo e ti vorrò sempre tanto, tanto, tanto bene.»
«Anche io ti amo, piccolino, e ti farò sempre tanto, tanto, tanto male.»

fine


(pubblicato in data 27 luglio 2009)

lunedì 20 luglio 2009

NEMESI ATIPICA ( parte 2 di 3) di Pasquale Bruno Di Marco


«Pausa, finalmente.
Una settimana che sono rientrato al lavoro e già non ce la faccio più. Non sono fatto per il lavoro fisico e invece qui devo usare tutto meno che il cervello.
Una settimana e la ragioniera mi avrà rivolto si e no 10 parole: tutti ordini.
Neanche una volta che mi abbia chiesto come sto. Ho fatto tre giorni di ospedale per riprendermi dal semiassideramento. Tre giorni con quell’infermiera che si prendeva cura di me. Bellina, un po’ rotondetta mi pare, bionda e due occhi che mi fissavano intensamente ogni volta che mi parlava. Mi metteva un po’ in soggezione, veramente. Anche perché ogni volta che mi parlava sembrava mi desse degli ordini anche lei. Mi ha fatto un sacco di quelle fiale che facevano un male cane, ma non osavo dirle nulla. Mi curava, che vuoi che sia un po’ di dolore? E poi mi fissava con quello sguardo appuntito. Mi ricordava la maestra delle elementari che ogni tanto, mentre spiegava, si interrompeva all’improvviso e mi fissava così, come se cercasse solo un pretesto per mettermi in punizione.»

«La ragioniera, invece, non mi calcola proprio. Guardala là. Secca come un chiodo. Però le tette non ce l’ha affatto piccole. Vuoi vedere che ha ragione Mario, che si è rifatta tutta. Sempre con vestiti stretti per far vedere che è ancora soda anche se non giovanissima. Palestra, ci vuole far credere. Mario ha detto che una volta ha visto dentro la borsa quello che si porta dietro. Hai una dipendenza da clisteri, bella. Perché saresti pure bella se non avessi alterato così il tuo corpo. “Il tuo corpo è un tempio” diceva il mio maestro di arti marziali. Anche se poi lo incontravo che fumava in ascensore con una bottiglia di birra in mano.
Lei però ha proprio alterato il suo corpo e la sua faccia, con quelle labbra rifatte e quei zigomi imbottiti di botulino. Tutto per diventare una icona di questa società dell’apparenza. Niente è più naturale e nemmeno i nostri corpi lo devono essere: è questo che ci impongono. Snaturarci per non riconoscerci più.»

«Ma io non mi farò imporre questa filosofia malefica, mi ribello a questo omologazione di bellezza artefatta e pure irraggiungibile. Tu, stolta, hai deciso di diventare un clone di modelli televisivi e violentando così il tuo corpo ne hai violato il tempio! È giusto che la punizione ti colpisca, attraverso te si riverberi in tutte la copie che tu rappresenti e raggiunga il modello originale, motore di tutta questa follia. E io sarò il mezzo attraverso il quale la punizione si compirà. Sarò la tua Nemesi.»

«Ho studiato tutto: arrivo al lavoro, i movimenti, i tempi. La ragioniera arriva al lavoro alle 8,30, subito si dirige nel suo ufficio in quel box metallico che domina tutto il magazzino dall’alto. Alle 10,30 esce dall’ufficio e va al bar “da Ciccia” di fronte per fare colazione: cornetto integrale al miele e cappuccino. Torna al magazzino, sale le scale in ferro e torna nel suo ufficio per ricominciare il lavoro. Le scale sono il punto adatto. Ho studiato il suo modo di scendere, è sempre di corsa mentre parla al cellulare o cerca cose nella borsa. Non afferra mai il corrimano, mica è una vecchietta coi dolori articolari, lei fa palestra. Basterà fare in modo che inciampi, una caduta con 18 scalini da ruzzolare. Il mezzo: un filo di nylon, invisibile con la luce scarsa che c’è qui dentro, teso ad una altezza di circa 30 cm in modo che ostacoli il piede al momento dello stacco dal gradino, con il corpo sbilanciato. A quel punto lei avrà le mani occupate come al solito e non riuscirà a frenare la caduta.
Predisporrò il filo prima del suo arrivo, ma solo prima della uscita della ragioniera a metà mattina metterò un peso per farlo tendere in modo adatto.
Dopo l’incidente staccherò il peso e tirerò il filo dall’altra parte facendolo sparire. Et voilà il gioco è fatto. Per tutti sarà un incidente. Perfetto.»

«E’ quasi l’ora. La ragioniera è in ufficio, il filo è pronto, manca solo l’operazione zavorra. Annodo il peso.
Qualcosa non va. Avevo calcolato che doveva allungarsi di circa cm 50 e invece non si è quasi mosso. Eppure è teso, a meno che… cribbio! Si è incastrato sotto il gradino, e ora? Che faccio? Non posso lasciarlo lì. Devo sganciarlo. Sono le 10,20. Salgo piano. Ecco, sono quasi al filo. Devo lavorare accovacciato per non farmi vedere che la porta dell’ufficio è a vetri per la metà superiore. Ci sono riuscito. Adesso si tende come previsto, posso tornare giù. Ma prima controllo che fa la ragioniera. E’ davanti al pc che lavora. Anzi, no! Guarda un sito porno! Donne nude che si … ma allora lei è una di quelle… cioè no, di quell’altre… spegne il pc! Mi devo levare di qua veloc… porca vacca il filo!... Ah… acc... ork… ahi! »

«Ahi!»
«Buono, sei di nuovo al pronto soccorso. Stavolta qualche contusione e qualche abrasione.»
«Come dice?»
«Non ti ricordi di me, allora.»
«Si, certo, ahi! Lei è l’infermiera dell’altra volta, come sta?»
«Meglio di te, sicuramente. Ti sto applicando le cure del caso: tintura di iodio sulle abrasioni.»
«Ahi, ma brucia.»
«Se brucia è perché sta facendo effetto.»
«Ahi! Ma mi sono rotto tutto? Ho tutte queste fasciature addosso che ...»
«Te le ho fatte io. Ora stai fermo qui che c’è il medico che mi chiama nell’altra stanza. Controlla le tue lastre. Fermo qui e non ti muovere.»
“Mi ha lasciato solo, fasciato con le braccia dietro la schiena e le gambe strette l’una con l’altra che possono muoverle solo insieme. Comunque si prende cura di me e ci tiene. Sta consumando una bottiglia intera di quel prodotto sulle mie ferite, brucia da pazzi però. Eccola di nuovo! ”
«Cretino!»
«Ma non ho detto niente.»
«Ce l’ho col dottore.»
«Scusi, che ha detto?»
«Non capisce niente come tutti gli uomini. Stai buono adesso che ti devo togliere le bende, cosi poi sarai libero di andare in giro a farti male da solo.»
«Non servono allora.»
«Non servono secondo quel cretino di un medico.»
«Non è bravo?»
«E’ un maschio e quindi un cretino per definizione.»
«Secondo lei tutti i maschi sono cretini, anche suo marito?»
«Non sono sposata.»
«Cioè, volevo dire il suo fidanz…»
«Non sono fidanzata!»
«Strano, una bella ragazza come lei.»
«Lo vedi che siete tutti dei cretini?»
«Ma io non volevo offenderla, volevo dire che magari qualcuno diverso ci sarà pure, ahi, può fare un po’ più piano? Dicevo qualcuno con una sensibilità che, ahi! Che…»
«Gli uomini non capiscono una donna che non cerca protezione, ne hanno paura, non hanno sufficiente intelligenza e fantasia per uscire dagli schemi mentali da trogloditi che governano le loro menti. Una donna che prende l’iniziativa li disorienta. Una donna che sa quello che vuole e per ottenerlo è disposta ad imporsi, se necessario, li terrorizza. Vogliono avere loro la guida anche se non sanno dove andare. Io invece conosco i miei obiettivi e questo li fa sentire inferiori. Hai capito ora?»
«Si, signora, ahi!, cioè, ma possibile che nessuno abbia mai provato, ahi!…»
«Ci provano ma, appena capiscono, scappano, hanno paura gli idioti. E quindi adesso rivestiti e vattene pure tu.»
«Mi dimette?»
«E’ il medico che ti dimette, piccolino. Fosse per me ti curerei ancora.»
«Allora grazie, signora.»
«Giovanna.»
«Signora Giovanna.»
«Giovanna.»
«Si, Giovanna, bene… e comunque io credo che esistano uomini che non sarebbero terrorizzati da una donna che prende l’iniziativa, che accetterebbero anche di farsi guidare, che…»
«E che non avrebbero paura di soffrire?»
«Beh, certo in un rapporto a due c’è bisogno anche di saper soffrire.»
«E che saprebbero assecondare tutte le aspirazioni di una donna forte?»
«Certo, Giovanna, la comprensione dei desideri dell’altro è alla base di un rapporto sano e…»
«Tu credi eh?»
«Si io credo che…»
«E allora… fila!»
«…»
«Ho detto: VAI!»
«Va bene, arrivederci, Gi…eh, scusi, signora Giovanna.»
(continua)


(pubblicato in data 20 luglio 2009)

lunedì 13 luglio 2009

NEMESI ATIPICA (parte 1 di 3) di Pasquale Bruno Di Marco


«Allegare curriculum vitae… Il curriculum. E che ci scrivo? Il sottoscritto ecc. ecc., percorso scolastico, università, corsi di specializzazione, master, pubblicazioni e fino a qui bene, anzi benissimo. Ma esperienze lavorative che ci scrivo? Che, a parte stage di formazione professionali pagati profumatamente dal sottoscritto, sto facendo lavori a tempo determinato al massimo di tre mesi? Che sono iscritto a tutte le agenzie di lavoro interinale del mondo? E che sono quasi tre mesi che lavoro sottopagato e al nero qua dentro agli ordini di quel cafone ignorante del capo magazziniere, con un collega ritardato che mi piglia costantemente per il culo e la ragioniera bonazza che non mi degna di uno sguardo?
Ma guardali questi simpaticoni come chiacchierano. Io approfitto della pausa per cercare un lavoro vero sfogliando le pagine degli annunci e loro fanno comunella alla faccia mia. Il capo magazziniere poi, ‘sto pennellone semicalvo con l’helicobatter pilori incancrenito, si crede chissà chi solo perché può tiranneggiare me e ‘sto tonto di Mario.
Poi fa il piacione con la ragioniera, e quella ride, ride come un’idiota per quei complimenti cafoni, riciclati dagli amici del bar del mercoledì sera. E invece, quando ci provo io con frasi galanti piene di citazioni colte, quella fa la faccia storta e mi guarda come se avessi ruttato. E quello scemo di Mario scoppia a ridere e mi piglia per i fondelli.
Li odio. Li odio tutti. Come odio questa società malata che premia i peggiori mettendoli ai posti di comando e io, che non ho mai accettato di piegarmi a chiedere favori e che non intendo far carriera leccando i piedi al potente di turno, vengo trattato come un essere inferiore.
Basta! Basta accettare passivamente. Tu, società, vuoi che io ti dichiari guerra. E guerra sia. Basta essere la vittima di questa situazione assurda. Da oggi in poi ribalterò tutto: io sarò il carnefice. Vedremo chi è inferiore. Voglia che il sangue scorra a fiumi. Sarò spietato peggio Jack lo squartatore, peggio di Harry pioggiadisangue, peggio di Landrau, Verdoux e Barbablù messi insieme. Sarò il re dei serialkiller, altro che Psyco. Hannibal Lecter mi fa un baffo. Lucarelli ci scriverà un’enciclopedia su di me. Sarò il genio del male, anzi della giustizia, meglio sarò l’angelo della vendetta! Sceglierò le mie vittime. Sarò giudice e arbitro del loro destino. Deciderò io quando la loro misera vita di lacchè del sistema avrà fine. Sì! Sarò l’angelo della vendetta! Sarà la loro Nemesi!
E so già quale sarà il primo ad essere punito.»

«Ho studiato tutto: il percorso, i movimenti, i tempi. Il capo magazziniere va al solito bar tutti i mercoledì sera alle 10, gioca a carte con i soliti tre, fa le solite battute, solite considerazioni sulle prostitute, tutti gli altri per quelle dell’est, lui per quelle di colore, solita birra e gazzosa, come beveva il nonno, dice lui. Poi, secondo quanto ha perso, torna casa in un orario che varia dalle 1,30 alle 2,30. Rispetto al percorso diretto fa la solita deviazione per vedere quelle che battono proprio dietro casa sua e che, secondo me, non ha mai avuto il coraggio di frequentare, nonostante le chiacchiere. E comunque passa vicino questo cancello leggermente arretrato che è il punto ideale. E anche questa notte invernale è ideale: la nebbia intensa mi permetterà di avvicinarmi senza che se ne accorga, poi un colpo perfetto con il cric alla base del collo, come nelle prove che ho fatto con il manichino dell’Upim, ed è fatta, secco! Certo che forse appostarmi qui a mezzanotte è un po’ presto ma non voglio lasciare niente al caso. Ripassare il piano, allora, che una volta fatto secco bisogna far sparire il corpo. Così la polizia penserà che è scappato all’estero a nascondersi. Mario dice che secondo lui il capo magazziniere si frega i soldi dalla cassa d’accordo con la ragioniera. Vai a vede’ so’ pure amanti questi due! Veramente Mario dice di no, quella è frigida, fa solo finta di ride alle battute, lo fa solo per tenerselo buono. Certo che il freddo stasera non scherza! Sono vestito pure un po’troppo leggero. Mica mi potevo imbacuccare che devo essere sciolto nei movimenti, veloce e letale come un ninja. Solo che l’umidità mi penetra nelle ossa, …mi verranno i reumatismi, o, peggio, la polmonite… ci vorrebbe la mutua anche per i serial killer …veramente sono ancora aspirante serial killer, nel senso che devo ancora cominciare. Stasera è il debutto! Ci vuole un po’ di training autogeno… dai sono l’angelo vendicatore… O l’angelo sterminatore…Vabbè… l’angelo della morte… l’angelo che porta la punizione divina, se non rimane congelato con tutto ‘sto freddo… Non ho pensato a qualche frase ad effetto da dirgli prima di colpirlo, che ne so: è la tua ora, bastardo! …Uhm! ...No così pare uno spaghetti western, manca solo Sergio Leone che da il ciak. No, no, vediamo: hai finito di angariare i lavoratori per dare sfogo alla tua frustrazione! ...No! Troppo anni 70 e soprattutto troppo lungo, non sto ancora a metà che quello se ne scappato a casa. O dalla polizia… Oppure capace che si gira e mi mena direttamente che è pure più grosso di me. No, no meno subito e bene… Solo che sto freddo… mi sta congelando… il braccio è tutto intorpidito… e non sento più i piedi… magari provo a muoverli un po’... poco però che magari arriva adesso… e mi sente… faccio pure fatica… a tenere gli occhi aperti… sta nebbia è terribile… non si vede niente… è tutto bianco… lattiginoso… sembra che lo sguardo… ci galleggi dentro... mi fanno male gli occhi… quasi quasi li chiudo… solo un momento… sono l’angelo sterminatore con… gli occhi chiusi… e porto… la… »

« Ti sei svegliato, finalmente.»
« Dove...?»
«Pronto soccorso. Non ti muovere. Hai una coperta termica addosso e sei attaccato ad un monitor cardiaco.»
« Come...?»
« Ora devo praticarti delle flebo “calde”. »
« Ahi!»
«Lo so che ti fanno male ma servono a ristabilire la temperatura normale.»
« Ma che è successo?»
« Ti hanno portato qui stamattina verso le quattro, semiassiderato. Ti ha trovato uno che ha detto che ti conosce, che lavora con te, il tuo capo mi pare. Praticamente ti ha salvato la vita. E’ rimasto fino a poco fa a vedere se ti riprendevi.»
« Il capo… ? …il capo magazziniere!»
«Ci ha raccontato che stava rientrando a casa e ti ha trovato per terra svenuto con il cric in mano.»
«Il cric… ?»
«Sì, ma non ti preoccupare, ha detto che andava lui a vedere dove sta la tua macchina e a far cambiare la gomma a terra. Che fai piangi?»
«No, cioè si, deve essere colpa delle flebo: fanno male.»
«Te l’ho detto che sono dolorose.”
«E quante ne devo fare?»
«Quel cretino del medico, quando è uscito con tutti gli altri, ha detto che un paio potrebbero bastare, ma io voglio essere sicura e te ne faccio dodici!»
«Ma…?»
«Ora zitto! E poi io sono infermiera!»
(continua)

(pubblicato in data 13 luglio 2009)

lunedì 6 luglio 2009

CONSAPEVOLMENTE DISABILE di Daniela Rindi


“Esistere è una inclinazione che non dispero di fare mia”, eppure tutto è iniziato da questa frase. Un libro, E.M.Cioran, ha stravolto la mia vita. Avevo compiuto da poco il mio sessantatreesimo compleanno, quando mi ritrovai seduto sul letto di quella camera d’ospedale, al primo piano di un’importante clinica milanese. Le gambe ciondoloni, lo sguardo fisso sul dottore, come sempre abbronzato, che mi stava consigliando di trasferire mia moglie a casa.

Non aveva più speranza, il tumore al peritoneo era arrivato ai polmoni. Un’equipe medica, a pagamento, avrebbe seguito la malata terminale presso l’abitazione, fino all’ultimo respiro. Trangugiai il filo di saliva che mi era rimasto in bocca e scoppiai a piangere. In quel pianto liberatorio c’era il dolore di un mese di veglia, passata accanto al letto, tra l’incredulità, la speranza e l’assurdo. C’era la rabbia contro un Dio cui non avevo mai creduto e continuavo a non credere. Il mio rapporto di odio con lui mi rendeva l’ateo più credente al mondo. C’erano i miei figli, i miei nipoti, ai quali era tolta una parte di vita e c’era il mio cuore. Dilaniato. A me era tolto tutto.

Ero appena andato in pensione e avevo iniziato a fare programmi con lei, finalmente potevamo dedicarci a noi, alla nostra vecchiaia, al nostro tempo insieme. I soldi messi coscienziosamente da parte, grazie all’ostinata presenza di mia moglie sull’argomento… si preoccupava lei del nostro futuro, voleva trascorrerlo tranquilla… mi aveva messo nella condizione di prenotare dei viaggi. Per primo voleva andare a Ischia, poi vedere l’America… Come tutto questo si rivela oggi amaramente inutile. Come non vorrei avere avuto ragione, mai come oggi. Lei, così ingenua, così meravigliosamente terrena, mi rendo conto solo adesso della sua grandezza.

Un mese di malattia, dove ti aggrappi a qualsiasi illusione, un mese di vita. Lei con il sorriso, finché ha potuto permetterselo, con la forza di tranquillizzare la mia disperazione. Entrammo insieme, ma uscii da quell’ospedale da solo, con una piccola valigia in mano, tutto quello che mi rimaneva di lei. Non avevo pensieri particolari, anzi non avevo pensieri. Tutto era passato su di me in un lampo, una vita era finita, la mia. Avevo amato, goduto, sofferto, gioito, ma quel giorno si era portato via tutto.
Un pensiero in realtà c’era, che si agitava nervosamente nella testa …cosa avrei scritto sulla lapide. Non si è mai preparati al peggio. Ho sempre odiato i cimiteri, le onoranze funebri, le tombe innalzate al ricordo di chi non c’è più e adesso mi ritrovavo a farne i conti. Come si può scrivere la fine di una vita in poche righe? Andai indietro con la memoria, cercando di ricordare le piccole cose, fino a quando approdai ad un bracciale d’argento che gli avevo regalato al ritorno da una tournée. Sopra c’erano scritti alcuni versi di una poesia di Bertold Brecht:



Un dì nel mese azzurro di settembre
quieto all’ombra d’un giovane susino
tenevo il quieto e pallido amore mio
fra le mie braccia come un dolce sogno…




Non andai subito a casa, non avevo fretta, non c’era più nessuno ad aspettarmi preoccupato. Piansi nuovamente. Il senso di vuoto che avevo nel cuore mi annientava. Come potevo sopravvivere senza di lei, senza la sua voce, la sua testa, il suo corpo? La vita è veramente tutta qui? Un’illusione di felicità che si dissolve nella morte? Mi ritrovai a passeggiare per Brera, attorno tante bancarelle, si… l’antiquariato le piaceva tanto, rovistare tra le vecchie cose alla ricerca della pietra filosofale… Schernita da me ogni volta, infastidito, come mi sembrava importante quella mattina, fatta di nulla!

Mi avvicinai alla bancarella dei libri usati e iniziai a leggere titoli a caso. Tra le mani mi capitò La tentazione di esistere, lessi l’incipit:

“Per quasi tutte le nostre scoperte siamo debitori alle nostre violenze, all’esacerbarsi del nostro squilibrio. Persino Dio, per quanto si incuriosisca, non lo scorgiamo nell’intimo di noi stessi, bensì al limite esterno della nostra febbre, esattamente nel punto in cui, la nostra rabbia fronteggiando la sua, ne risulta una collisione, uno scontro rovinoso per Lui non meno che per noi.”

Quel libro, a distanza di anni è ancora sul mio comodino, per me è lei, rappresenta la mia esistenza. Non l’ho mai letto.



(pubblicato in data 6 luglio 2009)