martedì 24 novembre 2009

NOEMI INVIATA DI MODA A MILANO di Anna Profumo


Telefonata molto disturbata, non ho capito dove fosse. La Direttrice del resto viaggia in continuazione. Minnie Phoottow si è sincerata che avessi organizzato tutto per essere a Milano il giorno dopo, per la sfilata di Dolce e Gabbana, mi ha salutato e subito dopo ha riagganciato. Mentre schiacciavo il pulsantino per chiudere la conversazione, ho avuto un pensiero.
«Ma io, come ci arrivo a Milano?» Come ho potuto dimenticare. Dovevo prenotare per tempo!
Alla ricerca di un volo! L’unico disponibile per Milano o dintorni, atterra a Bergamo. Poco male, parte la mattina presto, avrò tutto il tempo di raggiungere la passerella per l’ora fissata.
L’appuntamento con gli stilisti è nel pomeriggio, prima della presentazione ufficiale. Siamo d’accordo che sceglierò un capo della collezione con cui tornare a Roma. Le sarte fanno il miracolo, riadattano il capo in maniera meravigliosa, in 30 minuti trasformano una 38 per una modella alta un metro e novanta di cui più della metà sono gambe, in una 44 per una donna alta un metro e sessanta, con i tacchi. Non avete idea di cosa si provi a camminare per alcune ore tra creature che sono alte il doppio di te e ne pesano la metà. Tante tutte insieme e bellissime. “Ma, ricordiamo il nostro slogan: siamo l’abito che indossiamo. Noi, siamo bellissime!”
Punti di forza della collezione Dolce e Gabbana di quest’anno, primavera/estate 2009: tute colorate con alte righe orizzontali e grandi dettagli floreali.
Ho scelto un abito tuta. Aderente e lungo, a righe bianche e rosse. “Sobrio”, fascia il corpo ricadendo morbidamente. Completa l’abito, il cappello a falda larghissima, anch’esso a righe rosse. Floscio, ricade incorniciandomi l’intero busto come fosse uno scialle. Alla modella alta un metro e novanta arrivava sotto le scapole a me un po’, molto un po’, più giù. L’ampia falda è sollevata davanti a scoprire il viso. La sfilata inizia in ritardo e finisce tardissimo. Mi trattengo qualche minuto, giusto il tempo per ringraziare e salutare. Questo modello sembra ideale per chi deve lanciare la macchina nel traffico della sera in direzione dell’aeroporto, lasciarla parcheggiata in un parcheggio multipiano e prendere al volo un aereo. Ho pochissimo tempo. Il traffico che si dipana per le arterie sembra precedermi e seguirmi - imbottigliarmi. Fortunatamente il cappello aiuta a concentrare la vista frontalmente, non concede distrazioni: “Il vecchio sulla bici facesse un po’ d’attenzione, non ha visto che giravo a destra?”
«Si, si, inveisci pure, fiato sprecato non ti sento. Raggiunta una certa età si sentono i padroni del mondo!»
Un abito così lascia libera nei movimenti. Noi donne moderne, possiamo lanciarci nel fiume caotico della città, seguire le indicazioni per l’aeroporto, percorrere la strada che termina in un incrocio a cui, contro ogni buonsenso devi girare per forza a sinistra per immetterti in una strada a senso unico, adeguarti alla corrente e guadagnare la riva destra prima che si presenti la nostra uscita. Nascosta, ben bene, dal furgone che trasporta le mozzarelle di bufala. I clacson “ululano”: «E che caspita, ma non l’avete vista la freccia?»
“Prendiamoci il nostro spazio, care amiche! Il nostro abito ci aiuta, siamo quel che indossiamo”.
Ma non perdiamoci d’animo. Ecco li giù l’aeroporto. Imboccando l’ingresso del parcheggio multipiano. Ci sentiamo rinfrancate per aver scelto l’abito giusto, noi novelle pilota di formula traffico.
Ci avviciniamo alla colonnina di ingresso dove ritiriamo il nostro biglietto – non ci facciamo prendere dal panico. Non riusciamo ad infilarlo nell’apposita asola sul parasole? Lo conficchiamo, nella falda frontale del cappello – il nostro cappello.
Salde affrontiamo le salite del multipiano:
Piano primo - completo. Noi con ferma determinazione saliamo.
Piano secondo – completo. Noi con salda concentrazione saliamo.
Piano terzo – completo. Noi con sangue freddo continuiamo la salita, freniamo appena in tempo. Ma dove hanno spostato l’accesso? Facciamo manovra per imboccare la nuova rampa.
Piano quarto – completo. Imboccando la nuova rampa. Noi con rigore estremo, sterziamo con decisione facendo stridere, involontariamente, le ruote. Fanno un certo effetto, ci sentiamo un po’stuntman al femminile.
Piano quinto – completo. Noi, donne moderne con spirito critico, sporgendoci con enfasi dal finestrino, mandiamo bonariamente a quel paese l’autista del suv che scende dalla rampa guidando contromano.
Sempre, Piano quinto – Recuperiamo il controllo e ci dirigiamo verso l’unico posto libero, determiniamo il nostro diritto ad occuparlo lanciando con abile mossa il cappello che volteggia in aria descrivendo piroette, come fosse quello di Zorro. Gli altri autisti restano a bocca aperta e naso per aria. Noi parcheggiamo. Qualcuno fa anche i complimenti: «Hai visto quella?»
L’ascensore è rotto, cinque piani di scale a scendere trascinando la valigia. La tuta è fondamentale, non fosse per i tacchi che un paio di volte si infilano nel bordo della stoffa, quasi rotoliamo per le scale. Amiche, tutte le volte che possiamo, prendiamo l’ascensore!
La nostra missione si compie quando davanti allo sportello dell’autonoleggio troviamo tanti, che tornano in macchina a prendere il biglietto. Noi lo estraiamo dalla falda del nostro cappello, restituiamo documenti e chiavi. Caparbiamente, percorriamo il tratto che ci separa dal banco del check-in. Sventoliamo la prenotazione perché ci facciano passare, le folle si aprono come fosse il Mar Rosso. Non capisco proprio perché la signorina sia così insistente. Manifesto il mio disappunto, vuol farmi togliere il cappello ed imbarcarlo.
«In fondo può benissimo essere considerato un semplice bagaglio a mano.»
«Non entrerebbe nella cappelliera.» Dice.
Mi fa perder tempo e l’aereo. Prima di perder la pazienza. Cedo. A malincuore, lo imbarco.
Care Amiche, Dolce e Gabbana vi favoriscono negli spostamenti e per il parcheggio. Ma attenzione! in aereo, salite senza cappello.
Dalla vostra inviata Noemi Ciambella

(pubblicato in data 24 novembre 2009)

martedì 17 novembre 2009

L’ISOLA di Aldo Ardetti


L’Isola non era un pezzo di terra circondato dalle acque ma il nome di un bar, il Bar Isola. Quando mi capitava di passare da quelle parti rivedevo sul marciapiedi di asfalto i segni delle sedie e dei tavolini che ogni mattina venivano portati fuori dal locale e ritirati la sera fino a che i marciapiedi del centro non furono rivestiti di marmi che nascosero ogni… traccia storica. Nei giorni bagnati qualcuno ci ha fatto scivolate spettacolari.
A casa, poi, è rimasto un regalo di Valerio e Gino, i proprietari del locale: una bottiglietta di Cinzano bianco definito speciale dalla casa. Chissà quanto varrà per i collezionisti di mignon. Parliamo di almeno 30 anni fa. E’ parcheggiata dentro un bicchiere abbandonato. Inizialmente la capovolgevo per far inumidire il tappo e mantenerne la funzionalità ma l’espediente non è servito: oltre ad evaporare metà del contenuto, il restante si è ossidato – il Vermouth da giallo pallido è diventato scuro – e il copri tappo, un cappuccio ricavato da sottile lamina di alluminio, mostra delle perdite ormai essiccate.
Il Bar Isola aveva due entrate o meglio, l’abitudine voleva che da una si entrasse e dall’altra si uscisse ma la regola non era tassativa. Sulla destra c’era un piccolo banco frigorifero e subito dopo la cassa. Più avanti – praticamente sul lato più lungo, quello principale – il bancone vero e proprio che finiva col la Faema dei cappuccini e caffè. All’angolo sinistro c’era il flipper – che allora era più meccanico ed elettrico che elettronico – con il quale si rivaleggiava per aggiornare il primato. La restante parete e la vetrina di lato all’altra porta, erano destinate alle esposizioni a seconda delle festività. Era situato in centro, e oltre agli abituè, entravano passanti occasionali. Soprattutto con il tempo uggioso.
I proprietari non erano più giovani ma avevano una vitalità invidiabile, soprattutto Valerio. Piccolo ma energico e senza paura. Serviva soprattutto quest’ultima con certi avventori. Visite antipatiche erano sempre in agguato. I due titolari avevano alle spalle mestieri differenti ma, non volendo stare fermi, avevano pensato a questa attività come investimento pur potendo andare tranquillamente in pensione e fare la bella vita.
La differenza tra cliente fisso e passante era che il primo poteva segnare e saldare il conto ogni settimana – possibilmente – e instaurare un rapporto amichevole coi titolari.
L’Isola sembrava il nome azzeccato per il ritrovo, il punto di riferimento per turnisti di fabbrica, cassintegrati, lavoratori a giorni alterni quando andava bene. Offri tu che offro io e finivano bottiglie di brandy e casse di birra. Ognuno poi, sembrava occupasse per affezione lo stesso posto, lo stesso angolo del bancone o del tavolino. Ma le abitudini perdevano efficacia quando il piccolo locale si sovraffollava. Estranei che cercavano di entrare nel gruppo, nel giro delle bevute neanche si trattasse di passatelle. Stranieri e anche gente proveniente dai paesi islamici non disdegnavano bere alcolici in terra straniera.
Sfidante di bevute un inglese, un bulgaro o rumeno; quest’ultimo non confessò mai la propria nazionalità. Erano i tempi della guerra fredda e dei profughi politici dell’est in transito nei campi di accoglienza prima della definitiva destinazione: Stati Uniti, Canada, Australia,… Tutti sembravano rincorrere il tempo o cercare di fermarlo a seconda del bisogno. A volte anche con i pettegolezzi e soventi litigi che duravano, questi ultimi, il tempo per il successivo bicchiere.
Il più simpatico degli indigeni era Nando detto Fortebraccio, segaligno ma forte come un boxeur e campione di bicchierate, che lasciava dietro di sé scie di profumo agrumato. Uomo di saloon amava ripetere: «Noi giocavamo con la creta, non con la plastilina», per ricordare la condizione sociale di provenienza con le corrispondenti possibilità economiche; una famiglia proletaria che si era aggiustata ma guai a dirgli imborghesita.
Sempre inattesa appariva Lorella – non più giovanissima – con un corpo da far invidia ad una trentenne. Abitava in un paesino sui monti e, per tastare la vita, scendeva in pianura per conoscere la città. Dicevano che vivesse facendo la prostituta e che spesso si appartasse nei gabinetti anche con persone molto più grandi di lei. Voci asserivano che accadesse anche in quello dell’Isola.
Accadde pure che Rosy, la figlia di Gino, rimanesse incinta. Nessuno seppe chi fosse il responsabile anche se un nome veniva fatto a bassa voce. La ragazza non lo confessò mai ai propri genitori.
Molti sapevano che aveva più di un amante – ragazzi e uomini sposati – e che alcuni di essi li ricevesse in casa mentre i suoi erano al lavoro. I genitori la fecero volare a Londra per non suscitare scandali e perché allora rappresentava l’unica via d’uscita per risolvere quel tipo di problema.
Un giorno entrò Peppe Carale con la sua spalla, un delinquentello come lui. Era il primo pomeriggio e il bar, semideserto, sonnecchiava. Angelo, appoggiato al banco, sorseggiava un caffè ancora bollente. L’episodio iniziò con uno scambio di battute e il delinquente, che si infastidiva facilmente e ormai sulla strada dell’ubriacatura, ordinò al suo compare: «Dagli un pugno sul naso a quello!»
Angelo rimase di stucco: «Ma come, eravamo amici da ragazzini, abitavamo nello stesso quartiere…»
Per fortuna il pugno non partì e l’aria ritornò serena.
Alcuni mesi più tardi Peppe Carale morì in un incidente automobilistico mentre era inseguito dalla Polizia.
Il Bar Isola non esiste più. Il locale è stato ristrutturato tante volte quante le attività commerciali che vi si sono succedute.
Era una piccola parte del palcoscenico della nostra giovane vita: un luogo del nostro spazio e del nostro tempo. Per alcuni un luogo per combattere la solitudine.
Rimane il ricordo – tra bagliori didascalici, voci e rumori lontani – in una storia di bar.

(pubblicato in data 17 novembre 2009)

martedì 10 novembre 2009

UN AMORE PICCOLO MA GRANDE di Daniela Rindi


Un vestitino verde a pois, sandali bianchi, il viso sempre imbronciato... così mi ricordo la bambina dagli occhi verdi e i capelli biondi spettinati, della quale mi innamorai a dieci anni. Lei ferma in mezzo alla piazza, i genitori a pochi metri.
Chissà perché era sempre arrabbiata?

Veniva a passare le vacanze in questo piccolo paese sulla riviera pontina, con uno strano nome, molto accattivante e mitologico, dove vivo tuttora.
Lei era del nord Italia.
I suoi genitori affittavano ogni anno la stessa casa, non lontano dalla mia, per cui riuscivo a controllarla in quasi tutti i suoi spostamenti. Sua madre la portava in spiaggia la mattina presto, seduta sul retro della bicicletta, le gambe ciondoloni, lo sguardo perso nel vuoto e rincasavano a pomeriggio inoltrato.

L’unico momento in cui potevo incontrarla da sola era prima di cena. Lei, normalmente scendeva per strada e cominciava a giocare con i gatti. Gattini randagi, che considerava suoi, come tutti i bambini.
Li aveva chiamati Minou, Matisse e Bizet, come gli Aristogatti. Non aveva amici, se anche ogni tanto qualcuno le si avvicinava, attirato dagli animaletti, lei lo demotivava velocemente, raccogliendo infastidita i suoi gattini, spostandosi in un altro posto.

L’unica persona che sembrava tollerare ero io, forse perché per nulla interessato al suo gioco.
Il cortile di casa mia era infestato da quei maledetti animali, che pisciavano ovunque lasciando una puzza insopportabile, trasformando quel luogo, a mala pena dignitoso, in un ghetto zozzo.
Un tardo pomeriggio d’agosto, in una giornata grigia, senza sole, eravamo assieme.
Passeggiando arrivammo ad un piccolo ponte, che attraversava un torrente in secca.
Ci mettemmo seduti per terra, lei iniziò a provocare, approfittando della mia debolezza.
Mi tirava piccoli sassi, allungandosi col collo per catturarmi una smorfia. Cercavo di nascondermi dietro al mio ciuffo rosso, guardando per terra, disegnando distrattamente piccoli cerchi con un bastoncino di legno. Mi imbarazzava sentire accelerare il battito del mio cuore. Ma non si delimita l’amore.

Si alzò di scatto, la seguii con lo sguardo, era altera e bella, i suoi capelli arruffati la coronavano come una principessa. Si appoggiò con i gomiti al muretto, guardò giù e mi disse:
«Per un mio bacio salteresti giù dal ponte?»
Deglutii l’eccesso di saliva e tentennando mi alzai anch’io. La fissai negli occhi, pregandoli di svelarmi la burla, ma non stava giocando, avevano l’aria di sfida.

«Solo un salto…»

Guardai giù, saranno stati almeno quattro o cinque metri!
Tutto il mio piccolo e insicuro mondo interiore era in subbuglio, come potevo deluderla, o mostrare a me stesso di essere un codardo?

E poi un bacio… quante notti avevo passato a sognarlo ad occhi aperti! Quante volte avrei voluto sussurrargli all’orecchio “io ti amo veramente”. Salii sul muretto, lei mi guardò impaurita, ma troppo tardi. Spiccai quel volo senza pensare, facendomi inghiottire dal vuoto, assaporando quegli istanti fatti di nulla. Un Angelo disposto a cadere per amore. Un Angelo stupido.

Quando ripresi i sensi avevo una caviglia fasciata e ancora un dolore atroce. Un capannello di gente non mi lasciava respirare. Con un braccio scansai una vecchia e grassa signora che mi sovrastava, la vidi… lei ferma in mezzo alla piazza, i genitori a pochi metri. Sono passati tanti anni, da quel tardo pomeriggio d’estate. Il bacio non lo ricevetti mai.

Ora sono un adulto, con meno capelli rossi e senza acne, sposato, con tre figli, divenuto Direttore Responsabile del miglior albergo di questa piccola cittadina sul litorale pontino, con uno strano nome, molto accattivante e mitologico. Sono soddisfatto.

Elisa, così si chiamava la bambina dagli occhi verdi e il viso sempre imbronciato, non l’ho più vista. I suoi genitori, a seguito di quell’ increscioso incidente, decisero di cambiare luogo di villeggiatura: la Sardegna. La persi per sempre.
Ma la notte ancora mi sveglio per l’inquietudine, a causa di una domanda che mi tormenta nella testa, rimasta senza risposta... Chissà perché era sempre arrabbiata?


(pubblicato in data 10 novembre 2009)

martedì 3 novembre 2009

NOEMI INVIATA DI MODA A PARIGI di Anna Profumo


Vengo distratta dal rumore del Vespa che ci passa accanto. Ogni volta che ne vedo uno penso al film “Vacanze romane”, e mi si materializza davanti l’immagine di Gregory Peck e Audrey Hepburn sorridenti, con il Colosseo alle spalle. Seguo con lo sguardo la sagoma dell’uomo con il casco che ci sfreccia accanto, fino a che non viene nascosta e sostituita dall’immagine della mia interlocutrice. Sto prendendo un caffè con la mia nuova Direttrice. Minnie è una donna incredibile, spericolata ed assolutamente originale. Mi ha appena affidato la rubrica Provati per voi, sarò l’inviata per la nuova testata che sta per uscire “The Club”, in italiano sarebbe stato “La Mazza” ma ha preferito darle un carattere internazionale dal doppio senso, più consono alla nostra epoca. Minnie Phoottow mi ha chiamata la settimana scorsa.
«Signora noi pensiamo lei faccia al caso nostro. Mi hanno parlato di lei, sono sicura sia la nuova figura dell’inviata cui stavo pensando».
«Comincerà Lunedì, non perdiamo tempo. Parigi e le sfilate di moda saranno il suo battesimo. Ha capito tutto?» Mi stava dicendo.
«Tutto chiaro. Prenoto il volo e faccio la valigia. Da lunedì sera comincerà a ricevere i miei articoli.»

Non mi limiterò a raccontare le sfilate dei maggiori Stilisti di moda, ma per creare un filo diretto con i lettori: indosserò gli abiti più interessanti e li sfoggerò dal panettiere, al mercato a lavoro e nei luoghi che anche le lettrici potranno frequentare. Questo perché con la rubrica Provati per voi, il direttore del giornale vuole portare le grandi firme nel quotidiano. Mai più pensare questi abiti come status symbol irraggiungibili e - visto che l’abito fa il monaco – propone di cambiare! Basta diete, palestra e chirurgia estetica, sovvertire “l’Ordine”, noi siamo quello che indossiamo. Caliamoci nella parte e cominciamo la nostra giornata vestendoci da vincenti. La nostra bandiera diventerà: “Possiamo indossarli anche noi!”
Parigi è bellissima in questa stagione. Peccato che il mio tempo sia tutto assorbito dal nuovo lavoro. Oggi indosserò un abito di Dior. Linee fondamentali della sua collezione primavera/estate 2009: bustini strizzati in vita con impunture a contrasto e abiti realizzati con trasparenti e vaporosi tessuti.
Scelgo un abito nero. Il bustino senza maniche, aderentissimo, mi fascia in vita. Davanti partono due foglie di pelle sagomate. Formano una profonda scollatura. Sono ribattute con bianche impunture marcate, a formare le coppe del seno. La gonna, un velo vaporoso di tessuto candido, sotto cui indossare – oh madonna! sembrano dei mutandoni della nonna – culottes in tinta con il bustino.

Il bustino mi strizza, le coppe mi solleticano il mento. Con le culottes sembro Wonder Woman. Ma è ora di uscire, andiamo al supermercato!
La gonna vaporosa non entra in ascensore, una piccola lotta – il vicino vuole entrare, la calpesta.
Alla guida dell’auto non entro. Non c’è verso. Provo dall’altra parte. Si, solo da passeggero. Prendo un taxi, l’autista pare sconcertato quando gli dico: «Bientôt, au supermarché plus près!!»
Le foglie del corpetto mi impediscono di vedere dove inserire il gettone nel carrello – ma riesco, dietro di me la fila.
La porta automatica si apre e mi avvio, oddio! il rondò di accesso, il girello girella. Al terzo giro mi sbalzata fuori e dirigo al banco del pesce.

L’inserviente mi guarda a bocca aperta. Non sembra fresco, il tonno mi fissa in bella posa tra il ghiaccio tritato. Sorrido e vado verso il reparto del frutta e verdura. Cassette della frutta, mele e arance, tutta frutta troppo tonda. Verdure. Si, oggi verdure. Decido per una semplice insalata. Ma chi l’ha messa in terza fila! La gonna si sfila – il decolté traborda. Madonna mia!

Cambio reparto, andiamo tra gli scaffali. Ecco qui, scatolame. La signora vuol passare. Più di così non posso andare. Trattengo la gonna che impicciata, sta per essere strappata.
Ancheggio indifferente in direzione delle casse. I tacchi son alti – ma riesco. La commessa ha una sussulto: «Seulement celui-ci?». Solo questo dice. “Ma che vuole”, penso. Rispondo: «Certainement, celui-ci seul!». Felice, pago la scatoletta di lucido da scarpe che son riuscita ad acchiappare.
Torno a casa e mi svesto. Mi siedo al computer. Metto il punto, termino con: dalla vostra inviata Noemi Ciambella. Invio. La posta elettronica dopo alcuni secondi mi restituisce il messaggio di avvenuta consegna.
Sono fiera di me. Ottimo lavoro. Tuta con cappuccio – lo calo sulla testa. Scarpe da ginnastica e riesco.



(pubblicato in data 3 novembre 2009)