lunedì 22 giugno 2009
EFFETTO DOMINO di Pasquale Bruno Di Marco
L’appuntamento era dietro casa subito dopo mangiato. Mario arrivò dieci minuti dopo di me.
«Ma che ti sei portato dietro tua sorella?»
Prima di rispondere serrò le labbra gonfiando la bocca come faceva ogni volta che si sentiva in difetto.
«I miei non vogliono che resti sola che combina un sacco di guai.»
«E che guai può fare una bambina di dieci anni?»
«Tu non la conosci, pensa che la settimana scorsa ha preso le medicine dall’armadietto del bagno, le ha pestate tutte insieme e le ha fatte mangiare al cane dei vicini. Quelli si sono incazzati con i miei.»
La osservai con attenzione, piccola, secca secca e con due codini neri ai lati della testa, non faceva una grande impressione. Era una delle solite balle di Mario. Sbuffai.
«Ma mica possiamo fare la missione con lei appresso.»
«Tanto questa non parla quasi mai e poi magari ci aiuta.»
«Ma se è una femmina di dieci anni.»
«Pure tu hai dieci anni.»
«Si, ma io sono maschio. Uffà, vabbè andiamo, però se la missione fallisce è tutta colpa tua.»
Volevamo introdurci nella “casa”, un edificio abbandonato ad un piano circondato da un muro scrostato e fatiscente. Passammo da una breccia sul lato opposto alla via principale e attraversammo il giardino incolto che sembrava la jungla di Sandokan vista in tv la sera prima. Io aprivo la pista spostando i rami e nel farlo mi accorgevo del tremore delle mie mani. Volgendomi indietro incontravo il volto pallidissimo di Mario, quasi incollato alla mia schiena. La sorella ci seguiva più distaccata, con aria assente, ma certo a lei non tornavano in mente tutte le storie che gli altri ragazzini ci avevano raccontato sulla “casa”, storie di diavoli, di streghe, di fantasmi, ma, soprattutto, di vampiri. La missione era appunto trovare la coppa d’oro che, secondo quel ciccione di Saverio, era nascosta là dentro e che raccoglieva i denti da latte che i vampiri cambiavano quando diventavano adulti. Chi li trovava poteva diventare invisibile, diceva Saverio. Mario invece, chissà perché, si era messo a sostenere che facevano volare chi se li metteva in tasca. Saverio si mise a canzonarci, poi ci ha sfidato a trovarla per dimostrare quello che dicevamo. E quindi eccoci qui: questa era la nostra missione.
Le porte e le finestre della casa erano tutte sbarrate, ma girando intorno notai che sotto il terrazzino di ingresso, sul cui parapetto erano allineati una serie di vasi di coccio pieni di scheletri vegetali, c’era una finestrella semiaperta.
«Da lì» sussurrai a Mario, lui annuì e mi spinse avanti.
Mi introdussi a fatica tanto era stretta l’apertura, il posto era buio e con quell’odore di umido e di polvere che ti riempie subito naso e gola. Mi mossi verso la porta della stanza, mentre Mario cercava di entrare come avevo appena fatto io, bisbigliando alla sorella che come al solito non rispondeva. Urtai qualcosa che, con effetto domino, fece crollare una serie di ombre nere causando un fracasso terribile. Mi bloccai, rimasi qualche istante immobile in ascolto e, quando sentii una voce cavernosa sbraitare da dietro la porta che stavo per raggiungere, mi si gelò il sangue. In preda al panico mi precipitai verso la finestra. Mario era già schizzato chissà dove e io mi arrampicai su oggetti marci e pieni di ragnatele cercando di uscire disperatamente. Intanto sentivo che qualcuno o qualcosa era entrato nella stanza, ruggendo. Mi infilai, anzi mi tuffai nello stretto passaggio della finestra. La luce del sole, finalmente.
Ero quasi completamente all’aperto e mi accingevo ad alzarmi per mettermi a correre quando mi sentii afferrare per una caviglia. Non ebbi il coraggio di guardare indietro, cercai di liberarmi scalciando ma inutilmente.
Mi sentivo tirare verso quella voce che rideva e bestemmiava. Le porte dell’inferno sembravano essersi spalancate dietro di me e io ci venivo risucchiato dentro. I capelli dritti in testa per il terrore parevano bucarmi il cranio, le mie mani disperate cercavano di afferrarsi all’erba che si strappava facilmente, ero perso, senza speranza, finito, stavo per urlare, quando un rumore secco ed improvviso spezzò quella risata demoniaca.
La presa sulla mia caviglia si allentò. Non riuscii a muovermi per chissà quanto tempo, tremando aggrappato all’erba. Poi, trovando il coraggio non so dove, decisi di girarmi e vidi la testa dell’uomo schiacciata da un pesante vaso di coccio. Alzai lo sguardo lentamente scorrendo il muro, centimetro dopo centimetro, fino al bordo del parapetto del terrazzino da cui mancava uno dei vasi. Al suo posto vedevo le spalle e la testa della sorella di Mario con uno sguardo che non ho mai saputo definire.
Da allora stiamo insieme, prima amici inseparabili, poi, un giorno, lei ha deciso che eravamo diventati fidanzati. Come adesso che ha deciso che tra tre mesi ci sposeremo.
Decide sempre lei.
Ogni volta io vorrei dire la mia e apro la bocca per cominciare a parlare. Ma lei mi fissa, seria, intensa, e io rivedo quello stesso sguardo che vidi sul terrazzino tanti anni fa e che ancora non so bene definire.
E non dico più niente.
(pubblicato in data 22 giugno 2009)
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