lunedì 17 agosto 2009
LA DACIA DI MARIJA di Aldo Ardetti
L’aria umida e piovigginosa creava luccichii e gelidi riverberi di luce. Il quartiere Sholkovkaija si svegliava con il rumore del viavai quotidiano sui marciapiedi di asfalto rattoppato. Gli imbocchi della metropolitana entravano nella terra, nella città sotterranea.
Dal mercato si alzavano voci di richiamo. Al cielo salivano pennacchi e nuvole di fumo. Il vapore delle fabbriche periferiche e dei grandi impianti di riscaldamento per gli appartamenti condivisi nei palazzi lungo le ulitze e i bul’var, avvolgeva la città dove viaggiavano bottiglie di birra e vodka che, ad alcuni, avrebbero fatto compagnia durante la lunga giornata.
Quell’angolo della sua città osservava Marija dal balcone del suo appartamento, negli spiragli concessi dal fogliame delle betulle mentre pensava con trepidazione all’orto della sua dacia. Da quando era andata in pensione preferiva partire prima dell’estate e prolungare la permanenza in campagna fino all’inizio dell’autunno.
«A contatto con la natura respiro meglio» ripeteva.
Le piaceva il lavoro nell’orto dove raccoglieva i prodotti tirati su con tanta passione contadina e che a Mosca, al mercato Sholkovskij, costavano un occhio.
«Meno male che ho questa casetta» e ringraziava Konstantin, il marito defunto che gliela aveva lasciata.
Minuta ma forte ed energica, Marija approntò valigie, zaino, sacchi e scatoloni che contenevano il necessario per i primi giorni, soprattutto generi di difficile reperibilità come pane e zucchero. Portava con se barattoli di conserva e altri da riempire dopo la raccolta degli ortaggi e delle bacche del generoso bosco.
Quando tutto si presentava ben confezionato, raggiungeva la stazione Saviolovskij per un viaggio che doveva durare tutta la notte: primo tratto parallelo alla linea Mosca-San Pietroburgo per poi deviare – treno non privilegiato – verso nord-est, ed attraversare le sterminate campagne dei kolkoz e sovkoz e lande ammantate di nebbia. Il treno si fermava in ogni stazione, anche in quelle quasi inesistenti, tanto breve era la sosta e tanto in fretta il solitario capostazione salutava l’ultimo vagone che spariva nella notte nera e desolata.
Marija non riposava bene, non riusciva a chiudere occhio per vigilare sull’appetibile carico alimentare, alla luce scialba delle lampade del corridoio che si oscuravano al continuo passare di irrequieti passeggeri. Aspettando l’alba che l’avrebbe accompagnata a destinazione, affrontava il viaggio ben infagottata per respingere il residuo freddo russo. Di notte, con i finestrini velati dai fiati, non riusciva a distrarsi, così portava alla bocca piccoli pezzi di pane con pesce e verdura per sostenersi e far trascorrere il tempo.
Alla stazione Chvojnaja scese coi numerosi e pesanti bagagli che richiesero tempo e fatica. Sul piazzale, alle spalle del caseggiato, l’attendeva il parente che si era precipitato a soccorrere la congiunta. Esisteva un servizio di autobus ma per il bagaglio e per evitare lunghe e solitarie attese, Marija preferiva avvisare in anticipo e imbarcarsi su quel furgone sul quale, in quella decina di chilometri da percorrere, era difficile evitare un fastidioso singhiozzo.
Attraversarono un bosco di betulle, di salici piangenti e chiazze d’acqua nel terreno accidentato, abeti, pini le cui foglie aghiformi lacrimavano latice e gocce di rugiada, tremule e mirtillo e l’èrica con le bacche blu sotto un tappeto colorato dai boléti e dall’agàrico delizioso.
Marija arrivò alla sua dacia, il suo rifugio circondato da betulle e pioppi, ciliegi selvatici, cespugli di lilla, viburno e uva spina. Spalancò porte e finestre e iniziò a rassettare non prima di aver offerto un bicchierino al provvidenziale chauffeur. Mettendo da parte la stanchezza riempì d’acqua il samovar e accese la stufa per far asciugare l’ambiente. Decise di preparare una sostanziosa e fumante zuppa di carne e verdura e, mentre la assaporava, iniziò a pensare ai giorni a venire, al lavoro da fare ora che il disgelo aveva liberato la terra, mentre osservava la piccola ed unica icona posta a guardia della casa.
Murcik, il gatto dal pelo bianchissimo d’angora, con un paio di balzi s’era sistemato in un cantuccio sopra il forno. Se ci fossero state le figlie, Olga e Dar’ja, il grammofono con l’altoparlante a tromba avrebbe inondato le stanze di antiche arie slave; ma le ragazze avevano preferito restare a Mosca, in attesa della bella stagione, con la permissiva babushka Masha.
Marija, in un viaggio precedente, aveva portato anche tre galline allevate con mille attenzioni e cure sul balcone della casa moscovita. Le aveva date in custodia a dei parenti del villaggio affinché diventassero grandi. Avere galline in campagna era sempre stato un suo sogno, un desiderio che ora aveva realizzato ma, con quel tempo, anche le gallinelle si nascondevano, non davano le sospirate uova, si comportavano in maniera strana e mangiavano male, inappetenti.
«Si vede che i primi giorni hanno mangiato troppi vermi e adesso non li guardano nemmeno» ragionava dubbiosa e preoccupata.
Con il sopraggiungere del caldo il lavoro nell’orto procedeva con soddisfazione. Non così si poteva dire delle galline. Avevano un’aria malaticcia e Marija cominciò a disperarsi: «Ho paura che dovrò separarmi da loro. All’inizio si sono riprese così bene, piene di energie. Tutti si meravigliavano per come erano belle.»
Il terzo giorno, dopo le meraviglie dei vicini, una si ammalò; poi toccò alla seconda e così pure alla terza, la gallina più tranquilla. Quest’ultima non in maniera grave. Tutto iniziò quando alla gallina più vispa apparvero dei foruncoletti sulla cresta. Pensò si fosse raffreddata e iniziò a curarla spalmandole un unguento alla tetraciclina che usava lei stessa. Le ferite cominciarono ad asciugarsi ma la cresta diventò dura come il legno e ogni volta non poteva guardarla senza che le sgorgassero copiose lacrime. Murcik assisteva malinconico nel vedere la padrona demoralizzata ma non poteva riferire suggerimenti, una qualche soluzione che pure doveva aver pensato, dare una... zampa d’aiuto.
La stessa cosa accadde con la seconda gallina che, con il becco, si ferì gravemente strappandosi tutta la pelle delle zampe.
«Non so che malattia sia questa» si domandava disperata la donna.
Cominciò a far mangiar loro dell’ortica pensando che una aumento di vitamine risolvesse il problema, ma diventarono ancora più brutte.
Non avendo altri rimedi non le restò che pensare ad una sorta di malocchio, un maleficio per il quale provò magici scongiuri. La situazione precipitò: «Sono sfortunata con le galline» sentenziò e, dopo qualche giorno, restò sola.
Dopo lo zappettio nell’orto, Marija si inoltrava nel bosco calpestando il muschio che ondeggiava sull’acqua paludosa. Rincasava con cesti colmi di funghi, cercati anche tra il lichene bianco dei cerbiatti, che essiccava o in salamoia conservava nei barattoli; in altri finivano le squisite marmellate di mirtillo e di ribes.
Sopraggiunse l’autunno e Marija si preparò per il viaggio di ritorno. Portò con se le preziose conserve che in città avrebbero fatto risparmiare e sopportare meglio il rigore del clima invernale.
Qualcosa, come ogni anno, regalò o dette in consegna ai parenti. Parte la nascose in casa o la interrò. Ma queste sono illazioni di alcuni vicini e del sottoscritto.
Marija tornò a Mosca pensando alla successiva primavera, soddisfatta dei frutti e dei prodotti abbondanti del suo orto e del bosco ma con una spina nel cuore, una delusione che le procurava un acuto dolore. Dal balcone della sua casa i suoi pensieri perforavano il vuoto mentre un altro giorno moriva chiudendo il sipario sulle lunghe ombre della sera.
(pubblicato in data 17 agosto 2009)
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