lunedì 24 agosto 2009
ORGOGLIO di Daniela Rindi
“Una nube di fumo, tutti che scappano, non si vede nulla, i lacrimogeni della polizia, la paura, io per mano a mio padre cercando una via d’uscita”.
Stavano reprimendo una manifestazione all’arena di Milano. Avrò avuto non più di dieci anni. La mia vita inizia lì, appesa a quella mano, il ricordo più chiaro della mia infanzia, appena sbocciata. La memoria successiva slitta alle elementari, alla scuola “Ruffini”, famosa per essere affianco al grande affresco di Leonardo “Il Cenacolo”, ma allora non c’erano ancora le file dei giapponesi fino a Corso Magenta. La maestra Gigliola Fusi mi teneva in considerazione, non perché la più brava, ma perché la più bizzarra. Sapevo stupirla. Una volta diede un compito: riempire due facciate del quaderno di "o". Stavo in casa, davanti alla televisione, non ne avevo voglia; mia madre non era certo attenta ai miei compiti, erano altri tempi, i figli erano in mano alle istituzioni, di cui gli adulti si fidavano ciecamente. Non come adesso con i genitori allertati da presunte o reali accuse carnali. Ero poco interessata alle tristi “o” e volevo vedere i cartoni. Mi misi a disegnarle sempre più grosse, fino ad occupare tutta una pagina, quattro “o” in un’unica facciata. Il giorno seguente a scuola subii la prima umiliazione; il mio quaderno fu gettato in aria in mezzo alla classe. Avevo esagerato. Silenziosamente lo raccolsi e mi rimisi al posto. Avevo capito che c’era un limite all’accettazione dei diversi, non dovevano andare troppo sui coglioni! Ne feci tesoro.
Fui promossa in quinta rispondendo a tutte le domande e portando a termine lavori manuali, quale un pallosissimo rosario in creta e un ricamo a punto croce, che ho ancora appesi nella camera della mia infanzia. A pieni voti, riscattandomi, mossa dall’orgoglio. Da lì alle medie fu un salto. I miei genitori avevano la mente aperta, tanto aperta da fidarsi di un esperimento didattico al Conservatorio di Milano. La scuola si sarebbe unita, in via sperimentale, all’Istituto dei Ciechi del Conservatorio e il caro maestro Abbado sarebbe stato a guardare, come uno scienziato crudele. Entrai timidamente, indossando una triste gonna di loden, che mia madre amava tanto. Già il primo giorno mi accorsi della mancanza di regole; fui immediatamente presa in giro, perché vestita troppo bene. Il primo quadrimestre la mia pagella aveva dei bei voti ma un giudizio pessimo sulla mia persona:
«La ragazza non è inserita, fatica a socializzare, anche se ha buoni rendimenti».
Presi in mano la situazione, alla lettera. Abbandonai i rendimenti e mi dedicai al lavoro di leader. Le lezioni, gestite da me, finirono per essere un gioco a nascondino e l’ora d’italiano un giro a bottiglia. Le insegnanti si susseguirono, alla ricerca di chi sarebbe riuscito a sottomettermi. Per non parlare dei non vedenti, vittime innocenti, ai quali schiacciavo i puntini del brail per non farli più leggere, finendo con lo spintonarli giù dalle scale. A livello personale fu un successo. In tempo breve fui colei che poteva comandare di infilare un cucchiaio nel culo al secchione della classe. Secondo quadrimestre: «La ragazza ha avuto un calo di rendimento. Il suo inserimento è però completo, mostra chiari segni d’attitudine al comando».
Non fu un esperimento riuscito, come scuola, ma il mio orgoglio ne uscì ancora vincitore. Il resto fu un disastro.
Ma fu lì che conobbi Giulio Comello, capelli lunghi biondo platino, costantemente spettinati, jeans a zampa, maglioni larghi; una pippa a scuola, chi di noi non lo era a quell’età, a parte il secchione del cucchiaio. Giulio era bello e dannato; un leader! Ci intendemmo subito, ma era troppo convenzionale accettarsi. Agli occhi degli altri non potevamo amarci, dovevamo essere di tutti, concederci, non eravamo autorizzati ad essere una coppia, era antipolitica, faceva fascista. Ci amavamo facendo finta di niente, soffrendo la mancanza d’intimità. Alle feste dovevamo baciare tutti indistintamente, per non mostrare preferenze, distaccati, per essere superiori, ma soffrivamo da morire osservandoci fare lingua in bocca, con degli sconosciuti. Ogni manata, ogni palpata nell’intimità, una tortura; ogni sorriso, un equivoco. Sapevamo di amarci, ma non era quello il tempo e il luogo. Era figlio di un attore, questo me lo avvicinava ancora di più. Io ero figlia di un impresario teatrale, sempre in tournée e troppo assente per aver voglia, una volta tornato a casa, di mettere la testa nei miei problemi e di una madre sempre e solo accompagnata da bicchieri di Lambrusco e dischi di Aznavour. Una sera, mentre io e mio fratello eravamo a letto, sentimmo un botto nel bagno. Era caduta sbattendo la testa sul bordo della vasca: aveva le mani insanguinate e lo sguardo stravolto dal dolore. Matteo ed io, la guardammo nascondere la vergogna e la perduta dignità. Ci cacciò via in malo modo. Ancora adesso odio Aznavour.
Giulio fece una festa nella sala prove di suo padre. Tutta la classe partecipò. Giocammo ad uno strano gioco, tipo palla prigioniera. La fila dei maschi al centro doveva catturare una delle tante femmine che tentava di raggiungere la sponda opposta e s’invertiva. Io facevo di tutto per cascare tra le sue braccia, per essere presa, catturata, per godere di un momento d’intimità ammesso, o anche solo mascherato. Lui faceva lo stesso, fino a che una voce gelosa tra gli invitati: «Scusate, ma se Giulio voleva fare una festa solo con Elisa, poteva avvertirci!»
E tutto finì. Giulio non avrebbe rinunciato mai al suo ruolo di leader, e poco dopo mi lasciò. Fu difficilissimo per me, incassare il colpo. Tutte le mattine lo vedevo in classe flirtare con le altre, indifferente al mio cuore attorcigliato. Un giorno, però, intuii la verità. Mentre eravamo in cerchio a cantare tutti insieme una canzone di Battisti, La canzone del sole, incrociai il suo sguardo; aveva continuato ad osservarmi da lontano, era ancora innamorato! Approfittai subito della situazione e come la perfida Medusa lo marmorizzai, fidanzandomi col suo migliore amico, Nicola. Mi trasformai nella perfetta innamorata, sempre attaccata a lui, ostentando baci scandalosi e attenzioni da geisha, esibendomi in provocazioni di ogni genere, un metodo efficace per guarire il mio orgoglio ferito. Giulio non venne più a scuola. In questo modo, forse, mi stava mostrando la sua indifferenza. Mi sentii una stupida, come avevo potuto sperare di riconquistare uno come lui con dei giochetti da bambina! Lo avevo perso.
La mia vita cambiò, avevo dei solchi profondi nell’anima, come i miei sensi di colpa. Mi diedi alla politica, come può fare una quattordicenne, con la convinzione scaturita più dall’appartenenza ad un gruppo, che personale. Erano gli anni di piombo, Milano era una pentola a pressione. Bastava un niente per farla esplodere. Avevano appena ammazzato Fausto e Iaio. Andai a quella grossa manifestazione, motivata dalla rabbia, dallo sdegno, dal disprezzo. Tanta gente, tanto fumo, tanta polizia che librava nell’aria i manganelli come fossero birilli da circo. Io che scappavo cercando di mettermi in salvo. Fu lì che vidi tendermi una mano, era Giulio, bellissimo, con un fazzoletto sulla faccia, brandiva un grosso bastone di legno. Mi guardò negli occhi, mi afferrò forte e iniziò a correre, facendosi largo a bastonate. Il cuore mi batteva impazzito. Riuscimmo a superare le camionette infernali, dove a caso venivano rinchiusi i nostri compagni e ammazzati di botte. Continuavamo a correre, via da lì, senza più fiato, per poterci ritrovare, abbracciare, finalmente amare davanti a tutti. Un sibilo, non so da dove, mi passò sopra l’orecchio, improvvisamente il silenzio intorno, mi immobilizzai, il corpo di Giulio che si accasciava al rallentatore. Io che continuavo a stringerlo. La mia vita finiva lì, appesa a quella mano, il ricordo più chiaro della mia adolescenza, per sempre spezzata.
(pubblicato in data 24 agosto 2009)
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